Di Domenico Airoma
Non fumo. La sigaretta non mi ha mai attirato, forse perché mio padre è morto per il troppo fumo. Ma da quando lo Stato ha dettato restrizioni alla libertà di culto, con l’accettazione ultrarestrittiva della Chiesa, comincio a riconsiderare la cosa.
Accade, infatti, che, domenica mattina, nel mentre mi reco nella chiesa vicino casa mia, venga fermato per il controllo da due agenti di polizia. Avevo il foglio del permesso debitamente compilato e alla voce «lo spostamento è determinato da» avevo scritto: «Accesso a luogo di culto». Lo consegno all’agente, il quale strabuzza gli occhi e mi fa: «Sono basito. Che significa?». Rispondo: «Che sto andando in Chiesa». E lui, di rimando: «Ma le Messe sono proibite». E qui il primo colpo al cuore. E la sensazione di essere osservato quasi fossi un pericoloso criminale; peggio, uno che non si rende conto della gravità del momento.
Riprendo: «Non si possono celebrare le Messe con la partecipazione dei fedeli, ma le Chiese possono rimanere aperte per chi vuole accedervi». Il nostro, poco convinto, mi fa: «Verificheremo». Ecco, penso fra me e me, cosa significa avere considerato le celebrazioni religiose al pari di qualsiasi altra «manifestazione ludica, sportiva o fieristica». Pazienza, mi dico.
Ma è proprio la pazienza a essere messa a dura prova, quando, al cospetto della carta di identità, lo zelante poliziotto, mi fa, non nascondendo la sorpresa: «Ah, lei è un magistrato!». Eh lo so, nessuno è perfetto, mi viene quasi da dire. Ma preferisco evitare lo humour: potrebbe essere frainteso. E allora opto per la modalità seria. «Mi rendo conto che le può sembrar strano che un magistrato senta la necessità di recarsi in Chiesa. Ma, veda, è proprio in questi momenti che, soprattutto chi ricopre incarichi istituzionali, cerca il conforto di Dio, che è l’unico che può davvero tirarci fuori da questa sventura».
E qui la conversazione si fa davvero interessante, perché il nostro obietta: «E non è la stessa cosa pregare a casa? Che bisogno c’è di andare in Chiesa?». Osservazione tutt’altro che peregrina, in effetti, perché la disposizione parla di ragioni che «determinano» lo spostamento. Gli rispondo: «Veda, sono fatto di carne e per sentirmi confortato ho bisogno di mettermi, quando posso, al cospetto di Dio. Ed è per questo che sento la necessità di andare a pregare dinanzi al tabernacolo, dinanzi a Gesù. Tutto qui». «Vabbè, dottò, vada pure», mi fa, oramai deposto il piglio inquisitorio iniziale, il bravo poliziotto.
Faccio per andare via, ma lo sguardo si posa su una bella «T» che giganteggia sul tabaccaio poco distante e mi viene spontaneo interpellare ancora il mio “controllore”. «Mi tolga una curiosità. Ma se io le avessi detto che stavo andando al distributore di sigarette, cosa mi avrebbe detto?». «Che era tutto a posto, dottò. E che dubbio c’è». E invece, il dubbio, anzi la certezza, è che per questo nostro mondo malato nel corpo e nello spirito, Nostro Signore Gesù Cristo valga meno di una sigaretta. Ed è davvero messo male se uno come me è chiamato a testimoniare che Ne abbiamo invece un bisogno tremendo.
Srs di Domenico Airoma, da Avvenire, del 28 marzo 2020
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