giovedì 19 ottobre 2017

LA PRIGIONE INVISIBILE ITALIANA

Oneto: le idee sono punite come fossero dinamite. La prigione “invisibile” in cui viviamo





In un memorabile articolo Gilberto Oneto descrive la situazione in cui si trovano a vivere veneti e lombardi, paragonati a quegli uccelli che, ormai condizionati, non provamo neanche più ad uscire dalla gabbia a portellino aperto. E del resto, quando ci si provassero, la musica cambia, come ora sta succedendo in Catalogna, con i primi arresti e il plauso neanche tanto sottaciuto, della élite burocratica finanziaria europea. Consiglio la lettura. Oneto non c'è più ma le sue idee vivono ancora. 




Gli Indipendentisti - ovvero le Idee punite come fossero dinamite. La prigione “invisibile” italiana. E quella, ormai visibile, spagnola. 


Ci sono due modi per tenere la gente in prigione ed evitare che se la squagli: costruire mura solidissime e munirle di inferriate triple, oppure convincerla che sta benissimo dov’è e che fuori starebbe peggio. Le sbarre di metallo hanno il difetto (in tempi di buonismo e di politically correct) di essere evidenti e identificabili, di poter essere stigmatizzate su manifesti e fotografie. Le sbarre psicologiche non si vedono, non si possono fotografare, non ci si può appendere o impiccare, si possono sempre negare, si può sostenere che sono frutto di autoconvincimento o di propaganda avversaria. Ma sono in definitiva anche le più solide e subdole, sono difficili da segare e non si sa esattamente quale spazi delimitino: alla fine riducono alla condizione di certi uccelli che se ne restano in gabbia anche quando le porte vengono aperte.

L’Italia è una prigione di questo genere: a nessuno viene impedito di uscire fisicamente e (soprattutto) di entrare, ci si può lamentare e organizzare per cambiare le cose all’interno. Si può proporre di cambiarle anche radicalmente ma non si possono toccare i muri: si può rinnovare l’arredamento, ma le pareti vanno lasciate come sono.

Nuove porte e finestre incorrono nei rigori del Codice Rocco che difende con scrupolo la sacralità e l’intangibilità dei muri dell’unità nazionale, e della prigione. Nel creare argomenti per convincere i carcerati di non esserlo sono stati abilissimi e hanno saputo percorrere anche strade diverse e creative: una volta si attaccavano ai sentimentalismi patriottici (De Amicis è stato un grande carceriere), alle catarsi belliche (anche Cadorna lo è stato) e ai turgori nazionalistici (Mussolini e Franco sono stati perfetti).


Oggi preferiscono, adattandosi alla tristezza dei tempi, toccare temi socioeconomici.

Le sbarre oggi usate sono quelle dello «in fondo stiamo bene», «siamo socialmente tutelati», «abbiamo un’ottima assistenza sanitaria», scemenze come la dieta mediterranea e la nazionale di calcio che se non vince è colpa dell’arbitro.
 Da noi – continuano a ripeterci suadenti – si vive bene, si vive sicuramente meglio di quanto vivano tanti altri o di quanto vivessero i nostri vecchi e di questo dobbiamo ringraziare come è strutturato e gestito il Paese (la maiuscola è di regime).  I missionari che tornano da terre lontane ci raccontano di quanto sfigati siano i popoli del terzo mondo e di quanto fortunati siamo noi, i giornalisti ci raccontano quanto inumani e asolidali siano i Paesi apparentemente più ricchi (storie di moribondi lasciati morire sul marciapiede perché non hanno la carta di credito e altre vaccate del genere) e di quanto premurose e “umane” siano invece le nostre Asl.

Storici e politici patriottici non perdono occasione per dipingere a tinte drammatiche l’esistenza grama dei nostri vecchi (pellagra, pulci e miseria) a fronte della nostra agiatezza: è una vera e propria demonizzazione della storia che non si limita più allo sputtanamento del Medioevo ma che ha ormai coinvolto ogni epoca passata e che, mano a mano, aggiunge anche gli anni appena trascorsi, perché il presente – ce lo dobbiamo ficcare in testa – è sempre meglio del passato e il futuro lo sarà ancora di più se righiamo diritto. Il risultato è (quasi) un intero popolo che se ne sta buono all’interno della prigione convinto che sia il “migliore dei mondi possibile”, terrorizzato da ogni cambiamento, che vive con gli occhi chiusi (o aperti davanti alla televisione, che è lo stesso)per paura di vedere cosa c’è fuori e cosa potrebbe esserci dentro di diverso.




Come si abbattono queste sbarre? Costringendo la gente a guardare il passato vero, a guardare le propria condizione senza condizionamenti, a guardare fuori, e – soprattutto – a pensare a come potrebbe essere la vita senza le sbarre. La prima cosa si ottiene facendole conoscere la realtà vera della sua storia, fatta di millenni di alti e bassi, di crescite e cadute che avevano a che fare con mille motivi, ma non certo con la condizione politica unitaria che è stata fonte di miseria e non di ricchezza: l’unità italiana ha infatti decisamente peggiorato le condizioni sociali ed economiche dei popoli che ha coinvolto e inglobato. La seconda si ottiene palesando i numeri della verità: i numeri sono chiari oggettivi, inoppugnabili. Fare sapere cosa si dà e cosa si riceve, quanto si dà e quanto si riceve, chi dà e chi riceve, chi lavora e chi mangia, è essenziale per fare capire a gente obnubilata dalla sindrome di Stoccolma che esiste una differenza sostanziale fra carcerati e carcerieri, che non si deve alcuna gratitudine ai carcerieri che ci tengono carcerati, e che li si deve individuare per liberarcene.
 Le statistiche hanno una forza dirompente: basterebbe conoscerle, purtroppo da anni sono manipolate dai media caini e dalla stampa igienica.

La terza cosa si ottiene viaggiando, portando la gente in giro per il mondo a vedere come vivono gli altri, quelli che sono incarcerati fisicamente, quelli che – come noi – lo sono psicologicamente, ma anche e soprattutto quelli che invece sono liberi. Vedere gente senza catene è la più forte e sicura stimolazione per l’emulazione verso la libertà.

Bisogna infine fare capire alla nostra gente come vivrebbe se fosse libera davvero, se fosse completamente padrona di gestire il suo lavoro e le ricchezze che produce. Forse mangia oggi di più e meglio di cento anni fa, ma il paragone da fare è con “cosa e come mangerebbe” se non ci fosse la prigione italiana a contenerla e rapinarla. Lo stesso vale per la casa, l’ambiente, l’istruzione, la conoscenza, i soldi, la salute, la libertà di espressione. 

Si deve fare capire alla gente: 1) che è in prigione, 2) chi la tiene in prigione, 3) come vivrebbe fuori di prigione. Le sbarre e i muri veri si fanno saltare con la dinamite, quelli psicologici con l’informazione e la cultura che sono più dirompenti di qualsiasi bomba. Per questo il Codice Rocco punisce più severamente i  “reati di opinione”  che la detenzione di esplosivo.

L’Italia è una prigione dalla quale a nessuno viene impedito di uscire e (soprattutto) di entrare. Dove si può rinnovare l’arredamento e le sigle dei partiti, ma le pareti vanno lasciate come sono. Nuove porte e finestre incorrerebbero nei rigori del Codice Rocco.

(di GILBERTO ONETO)




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