mercoledì 21 giugno 2017

IUS SOLI? I ROMANI NON SAPEVANO COSA FOSSE. COSÌ SI DIVENTAVA CITTADINI NELL’URBE

Foro Augusteo



Di Adriano Scianca - 15 giugno 2017


Roma, 15 giugno – Non c’è marchetta all’immigrazione che non tiri in ballo Roma, la “aperta”, “tollerante”, “colorata” Roma, contrapposta alla chiusura delle polis greche.

È vero che, a differenza di queste ultime, l’Urbe non conobbe mai mito dell’autoctonia. Da qui a farne l’antesignana della società multirazziale ce ne passa.

Proprio il dibattito sullo ius soli è, a questo riguardo, interessante. Come si diventava cittadino, a Roma? Ha scritto Eva Cantarella (pur aggiungendo in seguito le frasi di prassi sui romani come campioni dell’assimilazione): “Back to the Romans, quindi, torniamo ai romani. Per i quali la soluzione era chiara: la cittadinanza si acquistava iure sanguinis.

Come scriveva il giurista Gaio, nel II secolo d. C., nel suo celebre manuale di Istituzioni, erano cittadini romani i figli legittimi di un cittadino, ovvero quelli naturali di una cittadina. La regola, infatti, voleva che i figli nati da un matrimonio legittimo seguissero la condizione del padre al momento del concepimento, e che quelli nati fuori del matrimonio seguissero la condizione della madre al momento della nascita”.

Valerio Marotta è stato anche più preciso, spiegando che i romani non conoscono il dibattito ius soli / ius sanguinis e che “a dispetto delle apparenze, tale dicotomia — sicuramente estranea alla compilazione giustinianea — prese corpo soltanto negli scritti dei giuristi d’età intermedia a partire dal XII secolo, sebbene sia stata compiutamente definita, quasi duecento anni più tardi, da Bartolo di Sassoferrato e da Baldo degli Ubaldi”.
In particolare, “la genesi della nozione di ius soli va rindividuata […] in un particolare contesto, quello del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sui diritti sovrani dei Principi tra XVI e XVIII secolo”.

Diversamente stanno le cose in relazione alla cittadinanza determinata in base al diritto per discendenza: “La nozione di ius sanguinis, diversamente da quella di ius soli, è saldamente radicata nella storia della tradizione medievale del diritto giustinianeo.
Sebbene tale nomenclatura non appaia negli scritti dei giuristi prima del XII secolo, essa trova i propri precedenti storici nella disciplina della filiazione legittima e, di conseguenza […], anche della trasmissione della cittadinanza nello ius Romanorum più antico”.

A Roma erano cittadini in primo luogo i nati da padre cittadino purché procreati in un matrimonio legittimo. Proprio per questo il matrimonium era, per Ciceroneprincipium urbis et quasi fundamentum rei publicae (De officiis, 1,17,54).
Al di fuori del matrimonio, è certa solo la madre, quindi è la sua condizione che fa testo: il neonato nasce schiavo, straniero o cittadino romano, a seconda che la madre abbia, al momento del parto, la condizione di schiava, straniera o cittadina. L’origo paterna non coincideva con il luogo di nascita del padre, ma con la città da cui il padre stesso traeva la patris origo, e così via di seguito.

Con l’espansione territoriale di Roma, la cittadinanza fu estesa ad altre popolazioni: la lex Iulia del 90 la concedeva a Latini e Italici rimasti leali a Roma, la lex Calpurnia dell’89 la concesse ai militari, appartenenti a civitates foederate, che avevano servito Roma, la lex Plautia Papiria nello stesso anno la riconobbe agli alleati italici che l’avessero invocata, sino a quella cesariana ai Cisalpini del 49.
Ma il mito dei Romani “accoglienti” si basa per lo più sulla Constitutio Antoniniana del 212, con la quale la cittadinanza romana venne estesa a tutti gli abitanti dell’impero.
Malgrado la lettura ideologica che ne è stata data in seguito, la misura ebbe probabilmente motivazioni economiche e fiscali. In ogni caso, va sottolineato come la legge valesse per tutti quelli già presenti all’interno dei confini, non per quelli che sarebbero arrivati in seguito. Si trattava di una sanatoria, non di spalancare le porte. 
Non è inoltre chiaro se essa si estendesse ai “dediticii”, ovvero alle popolazioni che si “rendevano” all’imperatore per entrare nell’impero, una sorta di antichi immigrati. Un frammento del testo ritrovato in un papiro farebbe pensare che essi ne fossero esclusi, cosa che renderebbe ancora più anacronistiche le attualizzazioni del provvedimento.

Certo è che, col passare dei secoli e l’avanzare della decadenza, aperture sempre più considerevoli agli stranieri venissero fatte.
Sarebbero state le stesse “aperture” a causare il crollo di quella civiltà. E questo sì che è un paragone con l’oggi che avrebbe senso fare.


Fonte: srs di  Adriano Scianca, da .ilprimatonazionale.it  del  15 giugno 2017




1 commento:

Anonimo ha detto...

Bellissimo articolo, noto con piacere che condivide tutta la mia disistima per la mistificatrice e falsificatrice della storia Eva Cantarella. Gliene suggerisco un'altra: Silvia Ronchey.

Saluti,
Flavio Dalassio