VEN’ANNI DI TRAME, DAGLI USA A MOSCA QUEI PATTI SEGRETI PER
FAR FUORI IL CAVALIERE (1)
L'amicizia con
Putin è stata un boomerang per Silvio: Gorbaciov ha tessuto una rete per
indebolirlo. Una vasta operazione che non dipende certo dai presunti sexy-gate
Non credo ai complotti internazionali, che andavano molto di
moda fra noi giornalisti negli anni Sessanta e Settanta (vedevamo «piste» nere,
rosse e bianche in ogni pertugio della politica) ma alle influenze
internazionali e alle loro conseguenze sì. Molti di noi hanno pensato che il
processo per mafia contro Giulio Andreotti e l'operazione Mani Pulite avessero
anche a che fare con dei circoli americani dalla memoria lunga che non dimenticavano
Sigonella.
Non lo sapremo mai. Certo, fa impressione che nessun editore
italiano se la sia sentita di pubblicare un libro uscito solo in inglese, The Italian Guillotine (La ghigliottina italiana), firmato da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani. Il libro è del 1998 e nella premessa a pagina
9 vi si legge: «Un gruppo di magistrati
altamente politicizzati, in larga maggioranza orientati a sinistra, agendo come
pubblici ministeri, hanno usato una legittima inchiesta giudiziaria per
perseguire, selettivamente, i loro nemici politici, ignorando o minimizzando
misfatti simili dei loro alleati politici. L'investigazione di fondo è stata
un'inchiesta su pratiche che erano andate avanti per decenni... I magistrati
sono stati abbondantemente appoggiati da un gruppo di quotidiani e settimanali,
tutti di proprietà di alcuni pochi grandi industriali che avevano una chiara
posta in gioco nel successo del colpo di Stato».
Infatti, quello che i magistrati hanno deliberatamente
perseguito («the fact is that men plotted and planned», p. 241) viene definito
dagli autori un «colpo di Stato», vale a dire il «rovesciamento non democratico
del regime che ha governato la quarta potenza industriale dell'Occidente» (p.
1). Ciò che colpisce di più di quel testo, è che non sia mai stato tradotto e
pubblicato. Guai a chi avanza simili ipotesi. Allora, credo che chiunque possa
convenire purché in buona fede, anche alle anime più belle qualche dubbio
dovrebbe venire sul bombardamento giudiziario a tappeto scatenato contro Silvio
Berlusconi. Possibile che sia e sia stata tutta farina del sacco di un
gruppetto di intrepidi servitori dello Stato nelle vesti di pubblici ministeri?
Per troncare sul nascere il finto dibattito, basta il dato di fatto più noto:
il famoso avviso di garanzia, che in realtà era un invito a comparire,
recapitato per via giornalistica il 22 novembre 1994 a Berlusconi presidente
del Consiglio mentre era a Napoli a presiedere una conferenza internazionale
sulla criminalità. Quell'articolo del Corriere della Sera presentò per la prima
volta al mondo intero Berlusconi come un potenziale criminale mentre guidava
una crociata contro la criminalità. Le conseguenze le ricordate: un bagno di
merda per tutto il Paese, il ritiro di Bossi dalla maggioranza con conseguente
ribaltone e prima cacciata di Berlusconi. Il fatto notevole è che Berlusconi
risultò poi totalmente innocente per le ipotesi di reato che avevano stroncato
la sua partenza come capo del governo, ma la mazzata mediatica determinò la
vittoria di Prodi nel 1996 e cinque anni di traballanti governi di
centrosinistra (Prodi, D'Alema, Amato, con Rutelli che si cambiava in
panchina). Dunque, basterebbe questo solo fatto per concludere che certamente
su Berlusconi si è scaricato un fall out radioattivo di materia giudiziaria che
puntava a farlo fuori politicamente.
Che poi Berlusconi possa aver commesso gravi imprudenze
nella sua condotta privata, dimenticando che nella cultura democratica
occidentale la vita privata di un uomo di Stato è un fatto pubblico, è un altro
paio di maniche. Ma sta di fatto che oggi lui si trova a fronteggiare una più
che probabile condanna non per questioni di imprudenza nello stile di vita a
casa sua, ma per reati che suonano gravissimi come la concussione e la
prostituzione minorile. Chi mi conosce sa che giudico con molta severità tutte
le imprudenze, come minimo, che hanno contribuito a devastare l'immagine di un
primo ministro. Trovo prima di tutto imperdonabile aver fornito con generosità
armi mediatiche a tutto il fronte politico, giudiziario e mediatico che vuole
Berlusconi politicamente morto e con lui politicamente morta una politica
liberale non intorpidita dal conformismo imposto a colpi di decreti legge
giornalistici. Ma quel che è fatto è fatto e guardiamo all'oggi. E torniamo
così alla domanda di partenza: c'è caso che una vasta operazione, che non
chiameremo complotto ma proprio operazione, fu avviata e poi mantenuta
costantemente attiva per liquidare politicamente Berlusconi?
Questa è una domanda che quando la si fa in privato ad amici
di sinistra, trova quasi sempre come risposta un'espressione di comprensione,
come dire che è ovvio che sia così. Ma se la metti per iscritto e la pubblichi,
devi poi aprire l'ombrello sotto le cateratte degli insulti. Macché,
grideranno, Berlusconi si trova sotto attacco giudiziario per sue colpe e
delitti, in un libero Paese in cui una magistratura notoriamente «terza» e
senza preconcetti lo processa senza altri fini che scoprire i reati e
castigarli secondo giustizia.
È ovvio che, messa così, viene da ridere.
Di qui, di nuovo, la domanda: ma può essere che
l'eliminazione di Berlusconi faccia parte di una vasta operazione politica
internazionale, visto che i confini nazionali sono in genere troppo stretti per
faccende di così meravigliosa sintonia? Ieri rileggevo un breve articolo di
Alessandro Sallusti pubblicato su Libero nel maggio del 2009, in cui dava una
notizia che non mi risulta smentita. La notizia è questa: il 23 marzo di
quell'anno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ricevette in forma più
che discreta Michail Gorbaciov, un uomo di cui ho uno sgradevole ricordo:
mentre Alexander Litvinenko moriva tra atroci sofferenze in ospedale di Londra,
l'ultimo capo dell'Unione Sovietica si faceva fotografare in taxi con una
vistosa borsa Vuitton da cui emergeva un giornale aperto sul caso Litvinenko.
Secondo Sallusti, che immagino avesse una fonte diplomatica da non citare,
sosteneva che il tema dell'incontro alla Casa Bianca fra Obama e Gorbaciov
fosse Berlusconi. O meglio: come eliminare dalla scena europea lo scomodissimo
presidente del Consiglio italiano. Ci si può chiedere: e perché rivolgersi a
Gorbaciov? La ragione c'è: l'ultimo segretario del Partito comunista
dell'Unione Sovietica (un uomo che è sempre stato rifiutato dai russi e che non
è mai stato eletto in libere elezioni dove prese poco più del 2 per cento) è
diventato da quei lontani tempi sovietici un guru, un ambasciatore fra lobby di
potere, autore di mille articoli del tutto vacui e inutili, ma influente e
disposto a viaggiare. Se l'informazione è esatta, Gorbaciov si sarebbe dato un
gran da fare per tessere una rete multinazionale con cui catturare ed eliminare
Berlusconi. Se ciò fosse vero, è ovvio che un tale interesse non sarebbe certo
dipeso da questioni di stile di vita, cene con belle ragazze ed eventuali
comportamenti disdicevoli. No, se la notizia fosse solida, il movente andrebbe
cercato altrove. Andrebbe cercato nelle pieghe della politica che conta, quella
che sposta ricchezze gigantesche e in particolare le questioni energetiche. Che
gli americani siano più che irritati con Berlusconi per la sua strettissima
amicizia con Putin è un fatto certo. Ricordo un cordiale colloquio con
l'ambasciatore Spogli che mi confermò questo elemento di ostilità.
Voglio
anche ricordare, per lealtà verso chi mi legge, che io stesso non ho alcuna
simpatia per Vladimir Putin, la cui idea della democrazia sta agli antipodi di
quella di Thomas Jefferson e di Alexis de Tocqueville. Mi indignò l'invasione
russa della Georgia e tuttora mi indigna la persecuzione contro le ragazze del
gruppo Pussy Riot e molto altro. Ma è certo che l'antipatia degli Stati Uniti
per Putin va molto al di là dei comportamenti censurabili, perché si concentra
invece sulla questione energetica.
(1 - continua)
Fonte: srs di Paolo
Guzzanti, da Il Giornale di martedì 4 giugno 2013
LE TRAME DEI BIG PER FAR FUORI
SILVIO. I LEADER MONDIALI E LE TRAME
ANTI CAV: ECCO LA VERA STORIA (2)
Il piano per
eliminar il Cav politicamente, messo a punto da Merkel, Sarkozy e Obama dopo
numerosi contatti
di. Paolo Guzzanti
L'amicizia con Putin
e la collaborazione strategica per il gasdotto Eni-Gazprom gli sono stati fatali. I bìg del mondo non hanno perdonato
Silvio Berlusconi e gliel'hanno giurata: contatti tra Ohama, Merkel e Sarkozy et voilà, il Cavaliere
finisce disarcionato dalla magistratura, fatto fuori con il beneplacito -
nemmeno tanto dissimulato - dei potenti stranieri.
Non vorrei annoiare i lettori con una lunga storia di
gasdotti che trasportano milioni di metri cubi di gas dall'est russo e
centroasiatico all'Europa occidentale, basterà ricordare che il 23 giugno del
2007 fu dato l'annuncio dell'accordo fra Italia e Russia per il progetto South
Stream.
Cioè di un gasdotto lungo 900 chilometri, costruito da Eni e
Gazprom, che permetterà alla Russia di rifornire di gas l'Europa senza passare
dall'Ucraina, attraversando il Mar Nero a oltre 2000 metri di profondità per
raggiungere la costa bulgara. Il memorandum di intesa, che ha «una portata
geopolitica senza precedenti» (Corsera) fu firmato a Roma al ministero dello
Sviluppo, dai ministri Pier Luigi Bersani (proprio lui) dal ministro russo
all'energia Khristenko), dall'ad dell'Eni Scaroni e dal vicepresidente di
Gazprom Medvedev (che è soltanto un omonimo l'ex presidente). Quel gasdotto ha
di fatto ammazzato il progetto Nabucco per un gasdotto tutto europeo che
tenesse la Russia lontana, usando gas dell'Azerbaigian, del Turkmenistan e in prospettiva
dell'Iran.
Uno dirà, già lo sento: e che cavolo c'entra questa vicenda
di gas russi e turkmeni con la requisitoria della Boccassini e l'imminente
sentenza di Milano contro Berlusconi accusato di prostituzione minorile e di
concussione? Risposta: ecco, vorremmo saperlo anche noi. Proprio io, che sono
stato molto severo con Berlusconi per certe sue intemperanze comportamentali,
che ho inventato un termine che era già nell'aria - Mignottocrazia che è anche
il titolo di un mio libro - proprio io di fronte a quel processo sento, come
dire, puzza di bruciato. Voglio dire: possiamo discutere e giudicare
politicamente tutti i comportamenti di chi rappresenta lo Stato, fin da quando
al mattino si allaccia le scarpe; ma tutt'altra faccenda è tradurre il life
style, il modo di comportarsi e di apparire, in reati previste dal codice
penale e in processi che emettono sentenze devastanti senza disporre di una
sola vera prova: la famosa «pistola fumante» che Bush non trovò per
giustificare l'invasione dell'Irak, ma che invece va benissimo, anche se non
fuma, per liquidare un uomo politico di prima grandezza per via giudiziaria.
Sia ben chiaro subito: non penso affatto che il procuratore Ilda Boccassini sia
il braccio armato di un complotto. Penso anzi che l'infaticabile procuratore
sia in cuor suo in perfetta buona fede. Ma penso anche, come altri milioni di
persone, che la pretesa criminalità di Berlusconi che a casa sua, nella sua
sala da ballo fa il galante e il gaudente, basti a giustificare, o anche soltanto
a spiegare una campagna, per dirla con Brecht, di mille galeoni e mille
cannoni.
Questa impressione di una vasta operazione l'abbiamo avuta
quando Berlusconi tornò dalla famosa riunione in cui Frau Merkel ridacchiava,
Sarkozy faceva marameo, mentre Obama in quel periodo giocava all'uomo
invisibile e sembrava una festa un po' diabolica come quella di Rosemary's baby
di Polanski. Tutti sembravano sapere già tutto, salvo l'interessato,
profondamente turbato e incredulo.
Qualcosa di molto vasto e di molto collettivo
- per questo è meglio parlare di una operazione su vasta scala e non di un
complotto - era accaduto e andava a compimento dopo un lungo lavoro fatto di
incontri, telefonate (centinaia, si presume) e lavoro lobbistico sul tema: far
fuori Berlusconi. Il quale, però, è un tipo strano. Cocciuto, riesce quasi
sempre a spiazzare e sparigliare, sicché, dopo essersi dimesso dalla politica
pronto a costruire ospedali in Africa, vedendo che l'accanimento contro di lui
non diminuiva ebbe l'impressione che la grande rete dell'operazione lo volesse
proprio morto, politicamente e umanamente annientato. E siccome è, come dicono
i romani, un tipo fumantino, organizzò la propria resurrezione, spolverò la
sedia di Travaglio, risalì la china e il resto è storia di questi giorni, come
è storia di questi giorni l'esito del processo Ruby e degli altri processi.
Ci
sono molte storie dentro questa storia. Molti dettagli e risvolti che meritano
di essere rivisitati e connessi. Non voglio citare il solito Andreotti dell'a pensar
male si fa peccato ma in genere ci si azzecca. Ma certo è che giornalisti e
storici, oggi e domani, avranno un gran da fare per tentare di stabilire ciò
che realmente accadde, come accadde con quali moventi, chi mosse le pedine,
qual era la posta in gioco. Un primo tentativo può essere fatto anche adesso e
la verità, questo famoso bene supremo che dovrebbe animare il giornalismo non
può che avvantaggiarsene.
(2 - continua)
Fonte: srs di Paolo Guzzanti, da Il Giornale di mercoledì 5 giugno 2013
LA GUERRA DELLA CASA BIANCA ALL’ASSE TRA IL CAV. E MOSCA (3)
Mentre a Bengasi
scoppiava la rivolta, Medvedev firmava accordi con l’Eni per i diritti di un
pozzo in Libia: uno sgarro per Obama. Quante "coincidenze" contro il
Cavagliere
Se vivete di pane e complotti, il 15 febbraio 2011 vi
sembrerà una congiunzione fatidica e fatale. Se non ci credete, godetevi le
bizzarrie del destino e della storia. Quel giorno tra Mosca, Bengasi e Milano
si compiono tre avvenimenti chiave, apparentemente slegati tra loro.
Nella capitale russa, il consigliere del Cremlino Sergei Prikhodko annuncia l’arrivo a
Roma del presidente Dmitry Medvedev
per la firma di uno storico contratto con l’Eni, destinato ad aprire le porte
della Libia al gigante del petrolio russo Gazprom.
A Milano, nelle stesse ore, il giudice per le indagini
preliminari Cristina Di Censo
deposita il rinvio a giudizio per gli imputati del processo Ruby. A Bengasi, invece, scoppiano i disordini che
spingeranno la Nato all’intervento militare e all’eliminazione di Gheddafi.
Nessuno quel giorno può intravvedere la minima
correlazione fra i tre eventi, destinati a determinare l’emarginazione
internazionale dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e
portarlo alle dimissioni.
Le conseguenze del processo Ruby e della rivolta di
Bengasi sono ormai chiare.
Quelle dell’annuncio di Mosca, seppure meno trasparenti,
sono fondamentali per comprendere perché i legami intessuti dal governo
Berlusconi con Mosca e Tripoli fossero un ostacolo agli interessi di alcuni
importanti«alleati»dell’Italia.
L’accordo firmato dal presidente Medvedev, a Roma il 17
febbraio 2011, mentre a Bengasi già infuriano gli scontri, garantisce il
passaggio a Gazprom della metà dei diritti di sfruttamento, detenuti per il 33
per cento da Eni, del pozzo libico di El Feel. Quel giacimento non è una
risorsa come le altre. Scoperto nel 1997 da un consorzio internazionale
partecipato dall’Eni, e battezzato Elefante per le sue dimensioni, il pozzo,
situato a 800 chilometri a sud di Tripoli, custodisce circa 700 milioni di
barili di greggio. È insomma una delle più importanti riserve della nostra ex
colonia. La cessione di un sesto di quel greggio a Gazprom, la compagnia
petrolifera considerata il braccio armato di Mosca nella guerra per l’energia
tra Russia e Stati Uniti, viene visto come uno sgarro dell’Italia alle
politiche energetiche dell’Europa e della Casa Bianca. Uno sgarro frutto degli
stretti legami d’amicizia intessuti da Silvio Berlusconi con Vladimir Putin e
Muhammar Gheddafi.
Per capire perché l’accordo sul pozzo di El Feef diventa la
goccia capace di far traboccare il vaso spingendo i nostri alleati a eliminare
Gheddafi e a ridimensionare Berlusconi, bisogna far un salto indietro al 3
novembre 2003.
Quella notte un’operazione organizzata dal Sismi di Niccolò Pollari, d’intesa con Cia e MI6 britannico, porta alla scoperta nelle stive del portacontainer
«Bbc China», da poco attraccato nel
porto di Taranto, di un importante carico di frequenziometri, pompe, tubi di
alluminio e altre parti essenziali per assemblare le centrifughe destinate
all’arricchimento dell’uranio. Quel carico destinato a Tripoli diventa la
«pistola fumante» sufficiente a provare i tentativi del Colonnello libico di
dotarsi di armi nucleari. La «pistola fumante» viene subito usata da Cia e MI6
per mettere Gheddafi con le spalle al muro e convincerlo a rinunciare ai suoi
programmi nucleari garantendogli, in cambio, la fine delle sanzioni e la
ripresa dei rapporti commerciali con l’Occidente.
La capacità dell’Italia di assicurarsi le più
importanti commesse libiche, grazie ai rapporti tra Berlusconi e il Colonnello,
finisce con il mettere in crisi il patto siglato tra le banchine di Taranto. I
primi a soffrire e a lamentarsi sono gli inglesi. Sir Mark Allen, l’uomo
dell’MI6 mandato a fine 2003 a gestire la resa di Gheddafi, si ritrova a dover garantire
la liberazione dello stragista di Lockerbie, Abdul Baset Ali al Meghrai, per assicurare alla Bp un contratto da
54 milioni di sterline.
Berlusconi nel frattempo inanella accordi assai più
fruttuosi, usando esclusivamente il rapporto personale con l’estroso dittatore
libico. Il malessere di Londra resta confinato finché la Casa Bianca resta
nelle mani di un George W. Bush e di un’amministrazione repubblicana disposti
ad accettare le politiche «parallele» dell’alleato italiano in cambio della
collaborazione a livello internazionale, dell’impegno in Iraq e Afghanistan e
degli stretti rapporti intessuti con Israele.
Lo scenario cambia bruscamente agli inizi del 2009, quando
lo Studio Ovale passa nelle mani di Barack Obama e dell’amministrazione
democratica. Con il cambio d’inquilino, cambiano anche strategie e obbiettivi.
Le costanti frizioni con il premier israeliano Benjamin Netanyahu spingono gli
strateghi democratici a definire un’ardita politica di avvicinamento ai
Fratelli Musulmani. Dopo averli frettolosamente identificati come la forza
emergente pronta ad abbracciare la democrazia e ad accettare, grazie all’aiuto
del Qatar, le politiche di Washington, i teorici liberal di Obama scommettono
su di loro per sostituire quei dittatori fulcro delle strategie americane in
Medio Oriente e Nord Africa. La nuova alleanza, oltre a rendere marginale il
ruolo d’Israele, sancisce una svolta nell’ambito dello scontro energetico con
la Russia. Il Qatar, nemico dell’Iran sciita e quinto produttore mondiale di
gas, diventa - nei piani messi a punto dai think tank democratici - uno dei
tanti tasselli destinati impedire a Gazprom e a Mosca di egemonizzare le
forniture energetiche all’Europa.
Nell’ambito di questa nuova strategia anche l’Italia
di Berlusconi si trasforma in un ostacolo da spianare. E a farlo capire,
sollecitando inchieste segrete capaci d’innescare accuse di corruzione e
interesse privato ben peggiori di quelle piovute su Berlusconi un anno dopo, ci
pensa il segretario di stato democratico Hillary Clinton. «Preghiamo
di fornire qualsiasi informazione sulle relazioni personali tra il primo
ministro russo Vladimir Putin e il premier Silvio Berlusconi. Quali
investimenti personali, potrebbero aver indirizzato le loro politiche
economiche ed estere», scrive un lungo cablogramma segreto, diventato
pubblico grazie a Wikileaks , indirizzato a fine di gennaio 2010 dalla
segreteria di stato di Washington alle ambasciate di Mosca e Roma. La Clinton
chiede insomma a diplomatici e a servizi segreti di fornirgli delle prove da
usare contro l’«alleato » Berlusconi e contro il «nemico » Putin. Cosa vuole
fare con quelle informazioni il capo della diplomazia americana? Come intende
utilizzarle? A chi vuole passarle? Forse non lo sapremo mai. Ma sappiamo che,
in quel gennaio 2010, all’assalto giudiziario contro Berlusconi si aggiunge la
guerra internazionale.
(3- continua)
QUANDO HILLARY SPIAVA IL CAV PER VINCERE LA GUERRA DEL GAS (4)
Intrigo internazionale:
svelate le strategie occulte di Berlino, Londra e Washington contro l'asse
Roma-Mosca
«Quali sono i punti di vista dei funzionari del governo e di
quelli dell'Eni sulle relazioni nel settore energia dell'Italia con la Russia e
con il progetto South Stream... Vi preghiamo di fornire ogni informazione sui
rapporti tra i funzionari dell'Eni, incluso il presidente Scaroni e i
componenti del governo, specialmente con il primo ministro Berlusconi e il
ministro degli Esteri (all'epoca Franco Frattini, ndr)».
La pressante richiesta d'informazioni è contenuta in un
cablogramma segreto, datato gennaio 2010, inviato all'ambasciata di Roma dalla
segreteria di stato Usa guidata da Hillary Clinton. La richiesta sembra quasi
anticipare alcune inchieste giudiziarie destinate a colpire in periodi
successivi alcune nostre importanti aziende di stato, impegnate in ambito
internazionale. Ovviamente è azzardato pensare che le indagini della nostra
magistratura italiana siano state influenzate dalle informazioni raccolte dai
servizi segreti o dal personale diplomatico statunitense. Alla base di tutto
c'è però il sospetto e l'ostilità per il rapporto personale stretto da Silvio
Berlusconi e Vladimir Putin sin dal vertice di Pratica di Mare del lontano
2002. Un rapporto dalle inevitabili ricadute sul fronte della guerra per
l'energia e delle condutture strategiche. Un rapporto che gli americani tengono
sott'occhio fin dall'aprile 2008, quando un telex inviato dall'ambasciata
statunitense a Roma al ministero del Tesoro di Washington consiglia di far
pressione su Berlusconi, da poco rieletto, perché metta un freno all'alleanza
tra Eni e Gazprom. «Bisognerebbe spingere il nuovo governo Berlusconi ad agire
un po' meno come il cavallo scalpitante degli interessi di Gazprom... l'Eni -
scrive il dispaccio confidenziale diventato poi pubblico grazie a Wikileaks -
sembra appoggiare i tentativi di Gazprom di dominare le forniture energetiche
dell'Europa, andando contro i tentativi americani, appoggiati dall'Unione
Europea di diversificare le forniture energetiche».
Quell'informativa non
incrina certo i rapporti tra l'amministrazione Bush e il Cavaliere, chiamato di
lì a due anni a un intervento davanti al Congresso americano su richiesta della
maggioranza repubblicana. Diventa però un pesante atto d'accusa quando a
decidere le nuove strategie è l'amministrazione Obama. All'origine di
quell'informativa ci sono gli incontri del 2 aprile 2008 tra il presidente
dell'Eni Paolo Scaroni e Vladimir Putin nella dacia di Ogaryovo, in cui viene
definito l'intervento di Gazprom in Libia e Algeria con l'aiuto dell'Eni e la
partecipazione italiana al progetto South Stream. Quei due protocolli d'intesa
diventano nell'era Obama un vero atto d'accusa nei confronti del governo
Berlusconi, sospettato di favorire una manovra a tenaglia per imporre
all'Europa l'egemonia energetica di Mosca. A far paura è soprattutto il South
Stream, il progetto di gasdotto italo-russo-turco destinato a portare il gas
del Caspio in Puglia e in Friuli Venezia Giulia, tagliando fuori l'Ucraina e
passando per Turchia, Serbia e Slovenia. Un progetto in diretta competizione
con il Nabucco, il gasdotto messo in cantiere da Ue e Usa per vendere in Europa
il gas dell'Azerbaijan ed evitare così qualsiasi dipendenza dalla Russia.
In
questo clima la foto di Putin, Berlusconi e del premier Turco Recep Tayyp
Erdogan, che firmano - il 6 agosto 2009 - l'accordo per il passaggio delle
tubature sotto il Mar Nero, si trasforma in un'autentica ossessione per
l'amministrazione Obama e per i paesi dell'Unione Europea avversari di Mosca.
Primi fra tutti la Francia e la Gran Bretagna. Nell'immaginario di
quell'ossessione, South Stream rappresenta il piano di Berlusconi e Putin per
stringere la Ue in una vera e propria ganascia energetica e ricattarla. Il
secondo potente braccio di quella tenaglia immaginaria è rappresentato da
«Greenstream» e «Transmed», le due condutture controllate dall'Eni che portano
in Europa il gas dalla Libia e dall'Algeria. All'accerchiamento dell'Europa
contribuisce su un terzo settore anche il North Stream, il gasdotto destinato a
rifornire di gas russo il nord dell'Europa. Ma su quel progetto, appoggiato e
voluto dalla Germania, nessuno fiata. South Stream e gli accordi Gazprom-Eni
diventano, invece, il bersaglio preferito degli strali europei e americani.
Bruxelles dichiara già nel 2008 di voler sorvegliare i crescenti interessi
garantiti da Eni a Gazprom nel Nord Africa. E Andris Pielbags, al tempo
commissario europeo dell'energia, mette in guardia dalla possibilità che Eni
collabori con Gazprom anche in Algeria. Nel luglio 2010 il suo successore
Guenther Oettinger, non si fa problemi a dichiarare che il South Stream non
rientra negli interessi dell'Europa in quanto concorrente del Nabucco. La prima
ad agire direttamente è Angela Merkel, che nel luglio 2010 vola ad Astana per
chiedere al presidente Nursultan Nazarbayev di mettere il gas kazako a
disposizione del Nabucco. Da quel momento la vera tenaglia diventa quella messa
insieme da Washington e Londra da una parte e da Parigi e Berlino dall'altra.
Una tenaglia studiata per schiacciare l'asse Roma-Mosca e annullarne gli
effetti.
Il primo a sfruttare il cambio di strategia introdotto
dall'amministrazione Obama è il presidente francese Nicolas Sarkozy. Sospettato
e accusato di aver beneficiato di 50 milioni di euro, messigli a disposizione
dal rais per la sua elezione, Sarkò si ritrova, come gli inglesi, incapace di
tessere un rapporto proficuo con Gheddafi. Nonostante il Colonnello abbia
piantato la sua tenda nel cuore di Parigi assai prima che a Roma, la Total
porta a casa solo 55mila barili di petrolio al giorno contro gli oltre 280mila
della nostra Eni. La «tenaglia» Eni-Gazprom rischia di rendere inutili anche
gli accordi per la vendita sul mercato europeo del gas stretti da Parigi con
l'emirato del Qatar. Un emirato a cui Sarkozy fa di tutto per «regalare» i
campionati mondiali di calcio del 2022.
La deflagrazione delle cosiddette
primavere arabe sponsorizzate e appoggiate dal Qatar è un altro atto importante
per avvicinare le posizioni dei principali avversari dell'asse
Roma-Mosca-Tripoli. Il vero colpo da maestro il Qatar lo realizza in Libia,
dove accende la rivolta manovrando gli ex al qaidisti tirati fuori dalle galere
di Gheddafi grazie a una mediazione con il figlio Saif. Come è risaputo, la
rivolta di Bengasi si realizza solo grazie alla defezione di Adnan al Nwisi, un
colonnello dell'esercito libico sul libro paga del Qatar, che consegna a un
gruppo jihadista un deposito di armi della città di Derna. I 70 veicoli e i 250
fucili razziati in quell'arsenale consentono qualche giorno dopo di espugnare il
quartier generale di Bengasi e accendere la rivolta che porterà alla caduta di
Gheddafi. Una caduta che Berlusconi, libero dall'immagine devastante cucitagli
addosso dal processo Ruby, avrebbe potuto forse evitare. La fine del Colonnello
non porta la democrazia in Libia, ma si rivela perfetta per smantellare gli
interessi di Eni e Gazprom, per rendere più debole l'economia dell'Italia e
aggravare quella crisi che porterà, alla fine del 2011, alle dimissioni del
governo Berlusconi e all'avvento del governo «europeista» e «atlantista» di
Mario Monti.
(4 - continua)
Fonte: srs di Gian Micalessin – da Il Giornale di Ven, 07/giugno/2013
COSÌ SARKOZY FREGÒ GHEDDAFI E L'ITALIA (5)
I servizi segreti sono alla caccia di settanta scatoloni pieni di
cassette audio e video che contengono le registrazioni degli incontri e delle
telefonate fra il defunto colonnello Gheddafi ed i dignitari di mezzo mondo,
quando veniva trattato con i guanti bianchi.
Il primo a doversi preoccupare degli scottanti contenuti
delle registrazioni è l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy, come sostiene
il quotidiano le Monde che è tornato sul finanziamento libico alla campagna
elettorale di Sarkozy nel 2007.
Nel marzo 2011, poche ore prima dei
bombardamenti della Nato sulla Libia, Muammar Gheddafi rilasciava a il Giornale
l'ultima intervista della sua vita ad una testata italiana. Alla domanda
sull'interventismo francese che ha spinto in guerra mezza Europa, compreso il
nostro Paese, rispondeva: «Penso che Sarkozy ha un problema di disordine
mentale. Ha detto delle cose che possono saltar fuori solo da un pazzo». E per
ribadire il concetto si sporgeva verso chi scrive battendosi il dito indice
sulla tempia, come si fa per indicare i picchiatelli. Il Colonnello non
riusciva a comprendere come l'ex amico francese, che aveva aiutato con un
cospicuo finanziamento (forse 50 milioni di euro) per conquistare l'Eliseo
fosse così deciso a pugnalarlo alle spalle.
Dell'affaire Sarkozy erano al
corrente tre fedelissimi di Gheddafi: il responsabile del suo gabinetto, Bashir
Saleh, Abdallah Mansour consigliere del Colonnello e Sabri Shadi, capo
dell'aviazione libica. Saleh, il testimone chiave, vive in Sudafrica, ma nel
2011 era apparso in Francia e poi sparito nonostante un mandato cattura
dell'Interpol. Il caso era stato gestito da Bernard Squarcini, uomo di Sarkozy,
ancora oggi a capo del controspionaggio. E sempre Squarcini è coinvolto nella
caccia alle cassette scottanti di Gheddafi, che potrebbero contenere gli
incontri con altri leader europei. Silvio Berlusconi non ha mai nascosto l'amicizia
con il colonnello, mentre Romano Prodi e Massimo D'Alema, che pure avevano
frequentato la tenda di Gheddafi cercano sempre di farlo dimenticare.
Lo sorso
anno un politico francese di sinistra, Michel Scarbonchi, viene avvicinato da
Mohammed Albichari, il figlio di un capo dei servizi di Gheddafi morto nel 1997
in uno strano incidente stradale. Albichari sostiene che un gruppo di ribelli
di Bengasi ha sequestrato «70 cartoni di cassette» di Gheddafi. Scarbonchi si
rivolge al capo del controspionaggio, che incontra il contatto libico. «Avevano
recuperato la videoteca di Gheddafi con i suoi incontri e le conversazioni
segrete con i leader stranieri» conferma Squarcini a Le Monde. I ribelli
vogliono soldi e consegnano come esca una sola cassetta, di poca importanza,
che riguarda il presidente della Cosa d'Avorio. Il materiale è nascosto in un
luogo segreto. Pochi mesi dopo Albichari sostiene di essere «stato tradito» e
muore per una crisi diabetica a soli 37 anni. Non solo: il corpo di Choukri
Ghanem, ex ministro del Petrolio libico, custode di ulteriori informazioni
sensibili, viene trovato a galleggiare nel Danubio a Vienna.
La caccia alle
registrazioni del Colonnello deve essere iniziata nell'ottobre 2011, quando la
colonna di Gheddafi è stata individuata e bombardata da due caccia Rafale
francesi. Il rais libico era stato preso vivo, ma poi gli hanno sparato il
colpo di grazia. «L'impressione è che dopo il primo gruppo di ribelli sia
arrivato un secondo, che sapesse esattamente cosa fare e avesse ordini precisi
di eliminare i prigionieri» spiega una fonte riservata de il Giornale che era
impegnata nel conflitto. L'ombra dei servizi francesi sulla fine di Gheddafi è
pesante. Sarkozy non poteva permettersi che il colonnello, magari in un'aula di
tribunale, rivelasse i rapporti molto stretti con Parigi. La Francia ci aveva
tirato per i capelli nella guerra in Libia stuzzicando Berlusconi sui rapporti
con Gheddafi. Peccato che Sarkozy ne avesse di ben più imbarazzanti.
Delle
cassette di Gheddafi non si sa più nulla. L'unico che potrebbe far luce sul suo
contenuto è Seif al Islam, il figlio del colonnello fatto prigioniero, che i
libici vogliono processare e condannare a morte.
LA GUERRA DEI POTERI FORTI: 20 ANNI DI CORDATE ANTI
CAVAGLIERE (6)
Dal 1994
l'establishment che faceva capo ad Agnelli prova a fermarlo: il pluralismo
finanziario dell'ex premier è visto come un ostacolo.
Agnelli, Abete,
Montezemolo e gli altri hanno cercato di creare cordate per limitare lo
strapotere del Pompetta, finendo per rafforzarlo - Il ruolo primario di
destabilizzazione dell'ammiraglia dell'establishment, il Corriere della Sera…
Nella primavera del 1994 dentro il nostro ristretto
establishment economico si iniziò a pensare che la corsa politica di Silvio
Berlusconi fosse meno bizzarra di quello che s'era previsto. Il «re» Gianni
Agnelli se ne uscirà con una delle solite battute brillanti e ciniche: «Se
Berlusconi perde, perde solo lui, se vince vinciamo tutti».
Solo qualche settimana dopo, però la vittoria apparirà meno
di «tutti»: non solo non si eleggerà presidente del Senato il suo candidato,
Giovanni Spadolini, ma quando il presidente della Fiat si lamenterà per la
disobbedienza di fronte a una platea confindustriale a Verona, verrà
fischiato.
Anche da qui un'irritazione verso il governo berlusconiano che fa sì
che l'ammiraglia dell'establishment, il Corriere della Sera, svolga ruolo
primario di destabilizzazione anticipando, e diffondendo durante un vertice G8
a Napoli, l'avviso di garanzia per una delle prime inchieste antiberlusconiane.
Dalla sua, Confindustria di Luigi Abete (dove la mente è il fedelissimo Fiat
Carlo Callieri) apparirà più propensa a dialogare con Sergio Cofferati che con
un governo impegnato in un'audace riforma delle pensioni.
In questa fase l'asse Fiat-Mediobanca è ancora il fulcro di
un establishment legato a un patto con la politica (a lungo con la Dc ma dopo
gli anni '70 insieme consociativamente e conflittualmente anche con il Pci) non
privo di virtù (il ruolo di Enrico Cuccia nell'accumulazione capitalistica post
'45 fu insostituibile, Agnelli fu prezioso ambasciatore dell'Italia verso gli
Stati Uniti) ma dalla logica particolarmente escludente.
Certo, negli anni '90 matura la coscienza che la fine della
Guerra fredda cambia tutto, si vive Mani pulite con smarrimento (ma poi
cavalcandola), si ragiona in modo astratto (con guasti per l'Italia anche
grazie a uomini legati all'establishment come Carlo Azeglio Ciampi) di vincoli
esterni (europei) per «disciplinare» la società nazionale. L'unica cosa che
s'inventa è il riformismo referendario senza nerbo e visione di Mario Segni.
Alla fine anche il grande establishment di Gianni&Enrico ha una reazione
snobistica verso Silvio, cercando di continuare quel ruolo di regia dietro le
quinte che però funzionava solo grazie al partito-Stato Dc che lo consentiva.
Comunque in quel dicembre del 1994 grazie a Oscar Luigi Scalfaro si manda a
casa il «disubbidiente», lo si sostituisce con l'uomo di mondo Lamberto Dini e
per qualche settimana ci si convince che tutto sia risolto.
Come oggi Giorgio Napolitano sarà l'uomo più vecchio
(Cuccia) a vedere da più «giovane», comprendendo l'urgenza di innovazioni
radicali in politica come in economia, constatando l'affermarsi di una
centralità nuova di Romano Prodi con gestione oligarchica delle privatizzazioni
tesa a nuovi equilibri chiusi di potere (tendenza ben rappresentata da Giovanni
Bazoli) senza neanche la spinta allo sviluppo della Mediobanca d'antan.
Verificando la subalternità alla Germania e la poca attenzione alla parte
vitale dell'industria. Il più geniale «gnomo» italiano perseguirà invece un
reale pluralismo finanziario, lavorerà per legare attraverso le Popolari la
media impresa alla finanza strategica, aiuterà Massimo D'Alema quando sembrava
voler riformare lo Stato e sosterrà la svolta anti-Fiat di Confindustria con
Antonio D'Amato. Tutto ciò s'impatterà con la crisi del gruppo presieduto da
Agnelli che vuole preservare le sue influenze politiche ancor prima delle
condizioni di rilancio imprenditoriale. Quest'ultima tendenza si collegherà
naturalmente all'antiberlusconismo, porterà a un duro (definitivo?)
ridimensionamento di Mediobanca, preparerà un «ritorno» torinese in
Confindustria con Luca Cordero di Montezemolo, appoggerà il nuovo tentativo di
Prodi con tanto di editoriale benedicente di Paolo Mieli sul Corriere della
Sera.
Ma Prodi l'unica cosa che saprà fare sarà consolidare
l'Intesa di Bazoli smantellando un presidio del vecchio establishment (Marco
Tronchetti Provera a Telecom Italia). Da qui nuove delusioni, il lancio via
Corriere-Confindustria montezemoliana della lotta anti Casta (altra fonte di
disgregazione permanente della società italiana) e la scelta di un altro
abatino (Walter Veltroni) come contendente di Berlusconi. Dopo l'ennesima
sconfitta quel che resta dell'establishment lavorerà per cercare di disgregare
il nuovo governo berlusconiano inventandosi il «liberale» Gianfranco Fini,
cercando (con altalenanti successi) di separare Giulio Tremonti da Berlusconi,
usando (l'imprinting è bazoliano) Giuseppe Mussari presidente dell'Abi per
portare su posizioni antiberlusconiane Emma Marcegaglia, arrivando alla fine
(su prioritaria ispirazione di una sempre più sbandata Mediobanca) a inventarsi
il governo Monti.
E ora? Mentre la Fiat grazie a Sergio Marchionne si occupa
finalmente più di industria che di politica, e così Mario Greco alle Generali,
Federico Ghizzoni e Giuseppe Vita a Unicredit, l'unico baluardino del vecchio
establishment resta Intesa anche se Enrico Cucchiani ha in mente più di far da
banchiere che regista di giochi nazionali, e l'asse Sergio Chiamparino-John
Elkann gli fa da sponda, mentre Bazoli, non solo si è visto affondare Mussari
ma ha perso con la non elezione di Umberto Ambrosoli in Lombardia l'ultima
carta per sparigliare ed è condizionato dai non brillanti risultati (Rcs è solo
l'ultimo esempio) che caratterizzano la sua lunga presidenza della banca.
Forse alla fine di questi venti anni si apre la via per un
establishment nuovo non più chiuso e irritato dagli outsider: anche se non sarà
facile ai «nuovi» esercitare quel ruolo unificante che un establishment anche
aperto deve assumersi. Il rischio di defilarsi dalle proprie responsabilità si
combina con certa frenetica irrisolutezza che si nota anche in un imprenditore
di valore come Giorgio Squinzi.
(5 - continua)
Fonte_ srs di Lodovico Festa, da Il Giornale di Sabato 08 giugno2013
CHI TOCCA IL GAS RUSSO SI SCOTTA: SILURATO PURE L'EX PREMIER
GRECO (7)
Le trame contro il
conservatore Karamanlis conducono allo stesso snodo di Berlusconi: il patto con
Gazprom inviso agli Usa. E Atene indaga su un complotto per ucciderlo
Chi tocca la Russia muore (politicamente)? L'interrogativo,
non solo per gli amanti di spy stories e complotti internazionali, è
maledettamente attuale rispetto a ciò che è accaduto e che potrebbe accadere
nella partita del gas che si gioca nel Mediterraneo.
Una partita con riverberi internazionali crescenti per via
della crisi economica che da un triennio è esplosa in Grecia, per le soluzioni
non intraprese, per i «no» che Bruxelles ha pronunciato (ispirati da chi?) nei
confronti di quei rubli che avrebbero potuto soccorrere Atene e Nicosia. E
soprattutto che ha coinvolto alcuni dei protagonisti di rapporti
economico-imprenditoriali forse non troppo graditi oltreoceano.
Accanto alle ricostruzioni che da queste colonne sono state
fornite sul triangolo Milano-Bengasi-Mosca, con l'emarginazione internazionale
di Berlusconi premier nel 2009, nella vicina Grecia proprio nelle ultime
settimane sta emergendo un filone analogo. Con similitudini temporali e contingenziali
inquietanti ma con, rispetto al caso italiano, la certezza in più di
un'inchiesta ufficiale della magistratura.
In scena l'ex premier conservatore Kostas Karamanlis, i suoi
rapporti con Mosca e con Gazprom, il tentativo di dare seguito all'accordo sul
South Stream (proprio come ha fatto Berlusconi) che avrebbe portato il prezioso
gas direttamente nel mare nostrum. Nel 2004 Karamanlis vince le elezioni con il
45.36%, conquistando 164 seggi su 300. Tre anni dopo gli impongono le elezioni
anticipate e nel settembre 2007 le vince nuovamente. Nulla può però quando, due
anni più tardi, con i primi scricchiolii della crisi economica, i socialisti
rifiutano le larghe intese e si impuntano per le urne, vincendo di poco. Ma
senza che il premier Papandreou per almeno un anno dica una parola sulla
voragine finanziaria del paese.
In Grecia lo dicono e lo scrivono da tempo: dopo le
Olimpiadi del 2004, il conservatore Karamanlis si sarebbe «bruciato» per via
del gasdotto e del ruolo che avrebbe potuto avere Gazprom, per nulla gradito a
Washington. Un passaggio sul quale si è soffermato anche Dirk Mueller, ex
broker della Banca di Francoforte, nel pamphlet Showdown che disegna gli
scenari dell'ultimo biennio horribilis del continente. Sottolineando come
Papandreou, fino a poche settimane fa leader dell'Internazionale socialista e
ancora docente in un prestigioso campus americano, fosse niente altro che il
factotum ad Atene di Washington e il frangiflutti puntato su Mosca.
I pm greci intanto indagano su una pista accreditata:
qualcuno voleva assassinare Karamanlis quando era premier perché troppo vicino
a Putin. Il primo articolo in merito venne pubblicato sul settimanale greco Hot
nel 2011. È la stessa rivista diretta dall'inchiestista Kostas Vaxevanis,
finito in cella sei mesi fa perché l'unico a diffondere i duemila nomi della
lista Lagarde, un elenco di illustri evasori ellenici, in cui figurano uno dei
principali consiglieri economici dell'attuale premier Samaras, Stavros
Papastavrou, e Margareth Papandreou, madre di Giorgios, con la faraonica cifra
di 500 milioni di dollari. La signora ha più volte smentito la sua
implicazione, ma l'apposita commissione parlamentare di inchiesta è ancora al
lavoro ad Atene.
Nel febbraio 2009 i Servizi greci informarono Karamanlis che
secondo il Servizio federale russo per la Sicurezza (Fsb, ovvero l'ex Kgb) egli
era diventato un obiettivo. In quei mesi sul territorio greco operava un
«gruppo di lavoro» di 19 agenti russi per controllare la politica energetica
del paese, così come ad esempio anche i parigrado italiani fanno in forma
preventiva nelle zone dove è al lavoro l'Eni. Si faceva riferimento
all'esistenza di un piano denominato «Pizia 1», che comprendeva quattro punti
per danneggiare Karamanlis: instabilità politica attraverso lo scandalo
Vatopedi su terreni concessi al clero ortodosso che nei mesi successivi è
detonato sulla stampa nazionale; destabilizzazione economica, attraverso il
progressivo degrado dell'economia greca e il rapimento di uomini d'affari;
destabilizzazione sociale con disagio sociale e terrorismo. Su quest'ultimo
punto un report dei servizi russi si esprimeva in questi termini: «L'attuale
generazione di terroristi greci è controllata dai servizi segreti occidentali».
Ricostruzioni su cui anche Wikileaks appone una
certificazione di autenticità, quando annota in data 17 dicembre 2007 una
comunicazione dell'ambasciatore Usa ad Atene Daniel Speckhard: «.. al lavoro
per “annullare“
l'acquisto di serbatoi nell'accordo con la Russia e nell'accordo per il
gasdotto South Stream».
Quattordici mesi dopo, esattamente il 5 febbraio 2009,
il Ministro degli interni Pavlopoulos, informò Karamanlis che secondo i servizi
russi era pronto un piano per assassinarlo. Lo stesso Karamanlis da quel giorno
restò confinato in «quarantena» per quasi un anno come emerge dal documento top
secret del National Intelligence dal nome in codice «Special paper» (n. 219/5
del febbraio 2009). Mentre qualche giorno dopo nei pressi del monastero di St.
Efraim ci fu anche un «incontro ravvicinato» tra agenti russi, colleghi
occidentali e un nucleo del Mossad. L'intrigo è servito.
twitter@FDepalo
Fonte: srs di Francesco De Palo – da Il Giornale di Sabato 08/giugno,
2013