martedì 13 novembre 2012

LA MARCIA SU ROMA




28 OTTOBRE 1922

A seconda della convenienza la marcia su Roma viene presentata come un colpo di stato incruento o come un tentativo di insurrezione armata. Tesi sballata la prima in quanto i golpe li fanno i militari e in totale segretezza, l’esatto contrario della marcia su Roma che fu una manifestazione pubblica e ampiamente propagandata; versione fantasiosa la seconda: non fu sparato un solo colpo e versata una sola goccia di sangue. In quei giorni la vita a Roma, come nel resto d’Italia, proseguì nella totale normalità e indifferenza. Le fabbriche, le scuole, i negozi e gli uffici pubblici rimasero aperti. L’occupazione fascista di alcune Prefetture furono dei semplici atti simbolici che non impedirono al personale di proseguire nella loro attività, inoltre  sarebbero bastate quattro fucilate dell’esercito (la capitale era difesa da 28.000 soldati) per disperdere i pericolosi sovversivi “armati” di manganelli e qualche schioppo residuato bellico.

In realtà, nonostante la sua successiva mitizzazione, la “marcia” fu essenzialmente una parata che, come vedremo, non influì minimamente sulle sorti politiche dell’Italia.

Con questa prova di forza Mussolini voleva semplicemente accelerare i tempi per ottenere la guida del Paese. Mentre organizzava le due grandi manifestazioni di piazza, quella di Napoli del 24 ottobre e quella che sarebbe passata alla storia come la Marcia su Roma del successivo 28 ottobre, il futuro Duce trattava con i partiti dell’area governativa per costituire un governo di coalizione. Quando due giorni dopo, il 30 ottobre del 1922, il Re gli conferì l’incarico la lista dei Ministri era già pronta,  di questa compagine i fascisti erano solo tre. Vi erano rappresentate tutte le forze parlamentari, eccetto socialisti e comunisti. In pratica fu un governo che oggi definiremmo di larghe intese.

Senza il sostegno dei partiti cattolici e liberaldemocratici, da quello popolare vicino al Vaticano a quello liberale di Giolitti e Salandra, con appena 35 deputati, Mussolini non sarebbe mai andato al potere. Il 16 Novembre si presentò al Parlamento dove ottenne alla Camera una larghissima maggioranza (306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti). Schiacciante fu la fiducia ottenuta al Senato dove i voti contrarti furono solo 19.

In Parlamento Mussolini incassò la piena fiducia di personalità politiche di grande rilievo come i futuri presidenti della Repubblica Enrico De Nicola e Giovanni Gronchi (che entrò nel governo come sottosegretario all’industria e al commercio). Figuravano anche nomi importanti del panorama politico italiano come quello di Alcide De Gasperi, futuro Presidente del Consiglio nell’immediato dopoguerra, e dei precedenti capi del Governo Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi e Orlando. La sua nomina fu salutata con soddisfazione da personalità del mondo culturale e accademico come Luigi Pirandello, Guglielmo Marconi e Giuseppe Ungaretti.

Mussolini, a soli 38 anni, ottenne quindi l’incarico di formare il suo governo non in virtù di una manifestazione di piazza, seppur massiccia e ben organizzata, bensì in forza delle sue capacità di mediazione politica e di coinvolgimento sociale che lo indicavano come l’unico in grado di reggere le sorti del paese in quel difficile momento storico.
Quando Mussolini assunse il potere l’Italia era in totale disfacimento istituzionale. I governi cadevano uno dopo l’altro per l’incapacità della classe dirigente liberale di affrontare gli enormi problemi sociali ed economici che affliggevano il paese. I partiti di sinistra, comunista e socialista, e le organizzazioni sindacali sapevano solo proporre soluzioni demagogiche che miravano a fare dell’Italia uno Stato totalitario sul modello sovietico (“bisogna fare come in Russia”, erano soliti dire).

Una guerra vittoriosa, ma disastrosa nelle conseguenze con i suoi 600 mila morti e 900 mila feriti e mutilati, aveva creato un voragine nei conti dello stato, distrutto l’agricoltura e frenato l’economia ancora imperniata su un’industria bellica che stentava a riconvertirsi.

I soldati che tornavano dal fronte, una grande massa di uomini provati fisicamente e distrutti moralmente, senza lavoro e prospettive, venivano accolti con ostilità e sbeffeggiati da sinistre e pacifisti.

Il drammatico contrasto fra le precarie condizioni del proletariato e dei contadini che avevano pagato un tributo di sangue e sofferenze in trincea e il lusso esibito dai “pescicani”, i nuovi ricchi che avevano tratto enormi profitti dalla guerra, acuì le tensioni sociali e contribuì, con l’aumento vertiginoso del costo della vita e il ritmo galoppante dell’inflazione, a creare una miscela esplosiva.

Il malcontento popolare infine scoppiò in forme violente che portarono alla formazioni di vere e proprie strutture paramilitari che affiancavano l’azione politica dei partiti, come quella comunista degli “Arditi del Popolo”. I sindacati proclamavano scioperi e occupazioni di fabbriche a cui gli industriali rispondevano con serrate e licenziamenti. Nelle campagne le leghe bianche e rosse si fronteggiavano tra loro e contro gli agrari. Le manifestazioni di piazza si concludevano spesso con scontri a fuoco con le forze di polizia che lasciavano sul selciato decine di morti e feriti.

Le violenze fasciste, su cui la storiografia ufficiale pone grande enfasi, vanno inquadrate  in questo contesto di guerra civile di tutti contro tutti a cui la politica del palazzo non sapeva dare risposta. Le  manganellate e l’olio di ricino dei fascisti furono la conseguenza delle violenze ben più sanguinose di comunisti, socialisti e repubblicani che misero a ferro e fuoco l’Italia e alle prevaricazioni e imposizioni dei sindacati leninisti nelle fabbriche che caratterizzarono il tristemente noto biennio rosso (1919-1920).

L’Italia, stanca e sfiduciata, era a un passo dal baratro. Anche l’Europa e l’America guardavano con grande apprensione al nostro paese. L’Italia era considerata una Nazione a rischio, pericolosamente vicina ad una svolta di stampo sovietico che avrebbe potuto estendersi al resto del Continente dove già si stavano affermando i partiti comunisti legati a Mosca attraverso la Terza Internazionale (Komintern). Di conseguenza quando Mussolini fu chiamato a reggere le sorti del paese molti tirarono un sospiro di sollievo, in Italia e all’estero.

Mussolini inoltre, elemento non trascurabile, godeva di un ampio consenso popolare senza il quale, mai e poi mai, avrebbe potuto raggiungere il potere (se fosse bastata una grande manifestazione di piazza condita con un po’ di violenza per conquistare il potere chiunque l’avrebbe fatto).

Gli storici marxisti insistono ancora oggi a presentare il Fascismo come braccio armato del capitalismo, composto quasi esclusivamente da una minoranza facinorosa di piccoli borghesi ed ex militari ambiziosi e frustrati. Le ricerche di Renzo De Felice, Arrigo Petacco e Indro Montanelli,  tra i più autorevoli e profondi conoscitori del Fascismo, dimostrano invece il contrario. Quello mussoliniano fu un grande movimento di massa nel quale affluì con entusiasmo gran parte della classe lavoratrice attratta dal programma socialmente avanzato del movimento mussoliniano e stanca della litigiosità dei partiti tradizionali e dell’inconcludente sindacalismo, come dimostrato dal fatto che, in occasione della marcia su Roma, la social comunista CGL neppure si azzardò a proclamare uno sciopero generale certa che si sarebbe concluso con un flop.

Ottenuto l’incarico il nuovo governo si mise subito al lavoro per risanare i conti pubblici, riassorbire la disoccupazione, rilanciare l’economia e gettare le basi dello Stato Sociale.
 Il 1° Aprile del 1924, dopo soli 18 mesi di governo, senza imporre nuove tasse o incrementare quelle esistenti, il Ministro delle Finanze De Stefani poté annunciare il raggiungimento del pareggio di bilancio.

Questo importante traguardo fu raggiunto grazie ad un accorta gestione dei conti pubblici, alla riorganizzazione dell’amministrazione statale e a un grande piano di opere pubbliche che diede slancio all’economia con conseguente aumento del gettito fiscale. Il controllo del governo sul sistema bancario, posto finalmente al servizio dell’economia nazionale, e lo sganciamento dalle perverse logiche del mercato finanziario internazionale crearono i presupposti per quello che sarebbe diventato il boom economico degli anni trenta realizzato esclusivamente con risorse italiane (a differenza del boom degli anni 60 avvenuto con capitali stranieri).

il 1° Ottobre del 1923, dopo appena un anno dalla sua nomina a Ministro dell’Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile varò la più grande, e a tutt’oggi unica, riforma organica della scuola italiana aperta a tutti i ceti sociali (all’epoca la scuola era esclusivamente privata o confessionale).

Il Ministro Stefano Cavazzoni del Partito Popolare predispose la riforma sanitaria per garantire a tutti gli italiani un’assistenza pubblica e gratuita, seguita da un vasto piano di costruzione di ospedali, ambulatori e una vasta rete di colonie elioterapiche che permisero di sconfiggere malattie croniche come la tubercolosi e la TBC, allora molto diffuse.

L’abolizione del lavoro minorile fu uno dei primi atti del governo Mussolini che in pochi mesi gettò le basi di quello Stato Sociale creato negli anni successivi (INPS, INAIL, TFR, settimana lavorativa di 40 ore, contratti collettivi, ferie pagate, Magistratura del Lavoro, Statuto dei lavoratori, ammortizzatori sociali, assegni famigliari, case popolari, asili nido, ecc.) per dare dignità e sicurezza al mondo del lavoro,  una pensione a tutti gli italiani e che consentì  di abbassare il costo della vita per assorbire la riduzione dei salari a seguito della drammatica crisi economica mondiale del ’29 che mandò in miseria tutte economie occidentali, America in testa (lo stesso presidente Roosevelt ammise, per tentare con il suo New Deal di superare la “grande depressione”, di essersi ispirato all’esperienza fascista).

Con queste credenziali Mussolini e i suoi alleati di governo si presentarono nuovamente al corpo elettorale. Alle elezione del 6 aprile del 1924 le liste sostenute dal Partito Nazionale Fascista ottennero il 66,3 per cento dei voti validi. Il successo fu amplificato dalla nuova legge elettorale (legge Acerbo) che diede alla coalizione governativa la maggioranza assoluta dei seggi: 374 deputati su un totale di 535.

Durante la campagna elettorale pressioni e intimidazioni da parte fascista sicuramente ci furono, ma l’incidenza che ebbero sul risultato elettorale, vista l’ampiezza del successo ottenuto, fu del tutto marginale. Lo stesso Matteotti, nel suo celebre discorso alla Camera in cui si scagliò con veemenza contro il governo, non poté citare e documentare che pochi episodi. Lo storico Arrigo Petacco afferma al riguardo: “in realtà, di casi di violenza certamente ve ne furono, ma in generale tutto si era svolto nella normalità, d’altra parte, con i brogli e le violenza non si raggiunge un risultato così clamoroso”.

Con la sua violenza verbale, Matteotti si proponeva in realtà di scavare un fossato incolmabile tra governo e opposizione per ostacolare un eventuale accordo tra le parti.

Matteotti infatti non ignorava che Mussolini stava lavorando per spostare l’asse del suo governo a sinistra. Già circolavano i nomi per un rimpasto con ministri di area socialista: Bruno Buozzi, segretario della FIOM, ministro tecnico; Ludovico D’Aragona della GGL al ministero del lavoro; Emilio Caldara, ex sindaco di Milano alle Finanze; Rinaldo Rigola, altro sindacalista socialista, ministro senza portafoglio. Numerosi socialisti, fra cui il direttore del giornale “Lavoro” di Genova Giuseppe Canepa, erano indicati come sottosegretari (Renzo De Felice, “Storia del Fascismo” pag. 28/29 e Arrigo Petacco “l’Uomo della Provvidenza” pag. 70/71). Questa svolta politica era vista come il fumo negli occhi non solo da Matteotti, ma anche dai ras fascisti più oltranzisti come il cremonese Roberto Farinacci.

A capo di una solida e compatta maggioranza parlamentare e forte dell’enorme consenso popolare e del prestigio internazionale di cui godeva, Mussolini non aveva nessun interesse a far riesplodere tensioni e violenze tra fazioni che avrebbero rigettato l’Italia nel caos, al contrario aveva tutto l’interesse a stabilizzare e tranquillizzare il paese. I maggiori problemi non gli venivano da una opposizione divisa e demoralizzata che ritirandosi sull’Aventino aveva rinunciato a combattere, ma dall’interno, da quei fascisti “puri e duri” che spingevano per la cosiddetta “seconda ondata” al fine di abbattere la monarchia e ridimensionare il peso politico della borghesia e del ceto industriale.  Il sequestro ed il successivo assassinio di Matteotti fu infatti opera di un terzetto squinternato di loschi individui legati alle frange più fanatiche del fascismo estremo guidati da Amerigo Dumini, un membro della polizia politica.

Una violentissima campagna di stampa sostenuta da una opposizione ringalluzzita additava il Capo del Governo quale ispiratore del sequestro Matteotti. Dopo giorni di angoscia, incerto tra l’apertura della crisi, il cui sbocco sarebbe stato imprevedibile, e la svolta autoritaria,  il 3 gennaio 1925 con il suo celebre discorso alla Camera Mussolini, pur non essendone stato né il mandante né tanto meno l’ispiratore (la stessa vedova Matteotti, Velia Ruffo, ne era convinta, come pure il suo principale accusatore il giornalista Carlo Silvestri dopo aver acquisito nuove prove e testimonianze), si assunse la responsabilità politica dell’assassinio. Liquidata definitivamente l’opposizione rimasta spiazzata dagli eventi, Mussolini si avviò verso il regime.

Un regime comunque blando (i crimini, su cui si pone grande risalto, avvennero durante la guerra civile e da entrambe le parti) e basato sul consenso popolare in virtù degli enormi successi ottenuti in campo economico, sociale e internazionale.

Le sciagurate leggi razziali, una guerra mondiale più subita che voluta, una tragica guerra fratricida (che ha permesso a molti ex-fascisti di ricostruirsi una verginità politica saltando sul carro del vincitore), hanno poi –  in parte – vanificato e offuscato quanto di buono fu realizzato in quegli anni.

Se ancora oggi, a 90 anni dalla Marcia su Roma e a dispetto della storia, si insiste a criminalizzare il Fascismo e a sminuire i suoi meriti è perché – diciamoci la verità – si ha paura del confronto tra i fatti del regime e le chiacchiere dei partiti.

Gianfredo Ruggiero, presidente del Circolo Culturale Excalibur


Fonte: srs di Gianfredo Ruggiero, presidente del Circolo Culturale Excalibur; da Excalibur del 28 ottobre 2012,

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