La storia del riso è lunga quanto è il mondo
Su questo cereale, che ha informato di sé non soltanto l’aspetto alimentare della civiltà ma anche quello religioso, filosofico e culturale, di tradizioni e di notizie ce ne sono tante, alcune contrastanti. Tra tutte, si cercherà di seguire una via alquanto lineare che si basa sulle notizie sicure o, comunque, su quelle più probabili. È sicuro, ad esempio, che il vocabolo riso è un derivato della denominazione di lingue orientali con esiti fonetici differenti. Quel che pare certo è che dalle specie primordiali di questa graminacea se ne siano differenziate una ventina. Solo due di queste hanno tuttoggi una certa rilevanza a scopo alimentare: Oryza sativa, di origine asiatica, e Oryza glaberrima, di origine africana.
Dalla specie asiatica (Oryza sativa L) sono derivati tre tipi:
1) Japonica, differenziatosi in Cina, adatto a zone temperate, caratterizzato da un chicco corto, da un contenuto in amilosio tendenzialmente basso e da scarsa sensibilità al fotoperiodo. Si tratta del più diffuso nelle nostre risaie.
2) Indica, differenziatosi in India, caratterizzato da chicco lungo, sottile, cristallino, da un contenuto in amilosio tendenzialmente alto e da sensibilità al fotoperiodo. Da questo tipo derivano i long grain americani e il Basmati.
3) Javanica o Tropical Japonica, caratterizzato da varietà con caratteristiche intermedie ai due tipi precedenti, poco conosciuto in Italia.
Il riso che conosciamo (Oryza sativa), seminato in primavera, giunge a maturazione in 140-170 giorni. La mietitrebbiatura, ossia il taglio delle pannocchie e la separazione dei chicchi dalle paglie avviene tra l’estate e l’autunno. Il riso greggio si chiama risone e abitualmente viene immagazzinato in enormi silos dove può restare per diversi mesi prima di essere lavorato. La lavorazione inizia con la selezione dei chicchi e l’eliminazione delle impurità. Quindi il risone è sbramato: passando attraverso dei rulli gommati perde il rivestimento esterno, detto lolla, e diventa riso semigreggio. A questo punto, avviene una nuova selezione per estrarre i chicchi immaturi e, attraverso attrezzature in grado di compiere leggere abrasioni sulla superficie dei granelli, sono asportate sia la gemma sia gli strati esterni ricchi di proteine e grassi. A questo stadio di lavorazione vengono selezionati solamente i granelli interi: sono separati dalle rotture, confezionati (sempre più spesso sottovuoto) e commercializzato.
La culla delle civiltà del riso è l’Asia. Tra le immense distese d’acqua che nell’estremo Oriente videro l’origine e la crescita del riso, ogni aspetto religioso, di ricorrenza familiare, ogni fenomeno sociale, militare e politico è permeato dal riso. Quanto alle origini di questa graminacea, reperti fossili di cinquemila anni a.C. le pongono nella valle dello Yang Tze, ma ricerche più recenti farebbero retrodatare la preistoria di questa pianta.
Wang Zaude, professore all’Università di Pechino, ha reperito tracce di paddy – il riso semilavorato -vecchie di 10.000 anni. A testimonianza dell’antichissima diffusione di questo cereale c’è la tradizione orale, un terreno ricco di notizie interessanti ma anche un terreno infido, perché è lì che la storia sconfina nella leggenda. In Vietnam – come ricorda il professor Giorgio Veneroni (Il Risicoltore, gennaio 2000) – si racconta di un re che sentendosi vicino alla morte ordinò al figlio maggiore di trovare un piatto “gustoso e degno di un re” da collocare nella sua tomba per poterlo offrire ai suoi antenati. Dopo molte ricerche solo il figlio minore preparò una torta di riso, rotonda come il cielo, da sovrapporre ad un’altra, di forma quadrata come la terra, con interposto uno strato di carne. “La pietanza, racconta Veneroni, presentata avvolta in una foglia, piacque tanto al vecchio re che il figlio minore divenne il suo successore al trono ed il prodotto così preparato venne tramandato nei secoli con il nome di banh chung, diventando il tipico piatto vietnamita”.
Aneddoti come questo sono davvero parecchi, soprattutto in Cina, considerata la terra natia del bianco cereale.
L’imperatore cinese Chin-Nong, nel 2.800 a.C. con un’ordinanza imponeva a tutta la famiglia imperiale di presiedere alle cerimonie per le seminagioni, riservando a se stesso quella del riso. Un aspetto sacrale che era ed è piuttosto diffuso in quell’area del mondo, visto che in Indonesia ancora oggi ci sono dei “sacerdoti” del riso cui spetta indicare i giorni e le ore più idonee per iniziare le fasi della coltivazione di questa graminacea.
Dall’Estremo Oriente il riso intraprende solo dopo millenni la sua diffusione verso Occidente, approdando in Mesopotamia, dove è coltivato nel IV secolo a.C., per giungere in Europa come prodotto alimentare con Alessandro il Grande. Ancor prima dei Greci, è il re di Persia che, verso la fine del VI sec. a.C., ordina esplorazioni in Asia a Scillace, primo tra i greci a compiere un viaggio lungo il fiume Indo, che riferisce come il cereale attecchisca nei territori dell’attuale Pakistan.
Successivamente, il geografo Megastene (350-290 a.C.), agente del re Seleuco I Nicatore, ci informa sulla coltivazione del riso che prima di lui Teofrasto (371-287 a.C.) descrive nel suo libro “Storie delle piante” mentre Strabone (64 a.C. – 21 d.C.) afferma che i popoli dell’India “se ne nutrono e ne ricavano una specie di vino”.
Sono senza dubbio i Greci che fanno conoscere il riso all’Occidente. Lo storico, geografo ed etnologo Aristobùlo di Cassandra (IV sec. A.C.) ne parla assieme ad altri che, con lui, hanno partecipato alle spedizioni in Asia con Alessandro Magno.
Trascorsi molti secoli, Strabone, grande viaggiatore, nel suo “Geographica”, al libro IX, par.18, parla dei luoghi di coltura del cereale e sullo stesso argomento si sofferma Diodoro I Nicatore (355 a.C.) il quale, narrando di battaglie tra Eumene di Cardia, già segretario di Alessandro il Grande, e Antigono Monoftalmo, generale macedone, ricorda che il primo tra i due condottieri, per la carenza di un altro cereale, ha dovuto nutrire con riso, sesamo e datteri le sue truppe, prodotti che abbondano nella Battriana e nella Susania (regioni afghane del basso Eufrate). Già un secolo prima, comunque, di riso proveniente dall’Etiopia ha parlato Sofocle, mentre Dioscuride (I sec. d.C.) di Anazarbo, in Cilicia, testimonia che il riso è nutriente e costipante per l’intestino e Aristofane di Alessandria, in un suo verso poetico, traccia la ricetta di un involtino di riso.
Dalla Palestina, dalla Cisgiordania e dalla Siria, la coltura del riso giunge all’Egitto, probabilmente introdotto da popolazioni indiane e successivamente messo a coltura dagli arabi. La prima informazione sul commercio di riso risale al I sec. d.C. mentre notizie meglio documentate nell’Africa orientale sono più recenti. Gli Arabi introducono la coltivazione del riso sicuramente in Algeria e nel Senegal e da qui si espanderà verso la parte occidentale del continente africano. Il riso approda invece in Spagna con gli arabi: il Libro di Agricoltura di Ibn Al’Awwan (1150) descrive con minuzia le fasi della coltura. Rodriguez Navas (El Arroz – Madrid 1905) afferma che il riso è coltivato nella penisola iberica al tempo di Tolomeo I Sotere, il re d’Egitto (II sec. a.C.), cioè in epoca ellenistica.
Se su questa affermazione ci sono alcuni dubbi, è sicuro però quel che scrive Plinio, nella “Naturalis Historia” (libro 18, cap. VII), e cioè che il cereale è conosciuto dagli Italici.
Dai Greci ai Romani e, in seguito, per tutto il Medioevo e fino all’epoca rinascimentale, del riso si fa cenno soltanto come di una spezia, a medicamento di ogni tipo di patologia o per cosmesi.
Orazio ad esempio, in una satira, racconta di un medico che aveva prescritto una tisana di riso.
Diverse sono invece le ipotesi sull’arrivo in Francia. Si è ipotizzato, comunque, che la coltivazione di questo cereale sia in atto nel XIII secolo nella regione di Perpignano e, nel 1600, presso Cannes. Enrico IV, nel 1613, con un editto prescrive che la coltivazione sia attuata ovunque possibile e Napoleone, durante l’assedio inglese, impone in Francia la coltivazione del chicco bianco. Nel 1847, la pratica risicola è sicuramente in incremento ma, in breve tempo, le colture scompaiono dalla Francia anche a causa della sopraggiunta malattia del brusone, per riprendere soltanto nel 1942, durante il periodo bellico. Poiché quella del riso è una coltura elettiva in condizioni di suolo salso, essa è molto estesa in Romania, Russia e sul delta del Nilo. Per la stessa ragione si è sviluppata nel Novecento nel delta del Po. Attualmente, il riso è coltivato in Andalusia, in Aragona e in Catalogna, in Portogallo e in Francia, in Svizzera, in Macedonia, Albania, in Grecia e in Turchia, in Bulgaria, Ungheria e Romania, in Russia e nell’Uzbekistan. Oltre che, naturalmente, in Italia.
Il primo tentativo di coltivare il riso negli Usa è compiuto dalla Stato della Virginia nel 1647; nel 1686 o nel 1694 approda nella Carolina del sud e, successivamente, in quella del nord, nella Georgia e nella Florida. Nel 1890 viene coltivato nel sud dello stato del Mississipi e nella Louisiana, più tardi in Arkansas e successivamente in Texas. In California una prima coltura viene tentata nel 1860 e da questa regione, ma solo successivamente, il riso emigra in Australia. In tutti gli Stati dell’America centrale e del sud, la coltivazione del riso è quindi relativamente recente. Impropriamente, si considera riso americano il wild rice, che riso non è, trattandosi di zizania Viene scoperta nel 1600 sulle sponde dei laghi canadesi e viene chiamata anche “riso degli indiani d’America”.
Gli arabi portano in Sicilia il riso ma non la risicoltura. Negli anni dell’occupazione, dal 250 d.C., è verosimile che tentino di acclimatare il riso a Siracusa e nella piana di Lentini, non distante da Catania, dove sarà coltivato anche nel Novecento. È pure ipotizzabile che tentino di introdurlo in Calabria, nei pressi di Sibari, nel Metaponto o a Manfredonia. Ma non si va oltre i tentativi. Per secoli, i mercanti lo importano senza che nessuno riesca a coltivarlo in modo significativo.
Agli Aragonesi si attribuisce la paternità di una prima coltura durante il XV secolo – dopo la conquista del regno di Napoli da parte di Alfonso di Aragona – nelle piane acquitrinose nei pressi di Paestum. Al dire di Simone Porta, filosofo e grecista (1495-1525), la prima risaia appare invece nel territorio di Salerno. La verità è che di notizie simili ne abbiamo molte: a Crotone, S. Eufemia, Torre Annunziata e Castellammare si Stabia, a Cosenza e in prossimità di Viterbo. Cosa pensare? E’ probabile che nel Medioevo il riso sia veramente coltivato ma in minime quantità nel Sud d’Italia, nei conventi o negli Orti dei Semplici come pianta medicinale.
Possiamo pensare che dalla scuola medica salernitana e dal monastero di Monte Cassino, questa pianta abbia iniziato la sua migrazione fermandosi in Toscana, dove si hanno notizie di una coltivazione di riso nei dintorni di Pisa verso la metà del ‘400, mantenutasi fino alla metà di questo secolo con una varietà assai pregiata dal nome “riso di Massarosa”. In realtà, però, se ci eccettuano gli scambi commerciali – come quelli certificati da una nota spese dei duchi di Savoia del 1300, in cui viene registrata una uscita di 13 imperiali a libra per riso da pasticceria, o dalle tariffe daziarie milanesi del 1340 che impongono forti imposte su questa spezia asiatica – non possiamo ancora parlare di un riso italiano. Tant’è vero che ancora nel 1371 un editto milanese lo classifica come “riso d’oltremare” oppure “riso di Spagna”.
L’attestato più antico a prova della coltivazione del riso in Italia è a Firenze ed è datato 1468. Sotto la Signoria dei Medici, un signore di nome Leonardo Colto dei Colti, fa domanda per la coltivazione del riso e il tono usato fa presupporre che la coltivazione del cereale sia già conosciuta.
Tuttavia, gli storici propendono per un’origine “milanese”. La ragione è nella dimensione del fenomeno. Per parlare di risicoltura occorre che le coltivazioni siano stabili e cospicue e diano luogo a un’economia risicola di un certo peso, caratteristica che in quel periodo parrebbe alla portata dei soli Sforza, che nel basso Milanese hanno avviato importanti bonifiche e attuano politiche protezionistiche anche su questo cereale, che quindi non è più considerato una spezia esotica ma una voce importante della produzione agroalimentare interna. Non si dimentichi infatti che il Rinascimento stimola gli investimenti agricoli e che la molla che li spinge è l’incremento demografico, cioè l’aumento della domanda che cereali come il riso sono in grado di soddisfare. Se Francesco I, nel 1436, mediante una grida proibisce l’esportazione del riso dallo Stato di Milano, il documento più noto sull’introduzione in Italia della coltivazione è sicuramente la lettera che Galeazzo Maria Sforza nel settembre del 1475 manda all’oratore del Duca d’Este in Milano, Nicolò de Roberti, con la promessa d’invio di dodici sacchi di semente di riso dal quale se ne potranno ricavare dodici per sacco contro i sette del frumento. La cessione di questo riso indica che da qualche anno esso è sicuramente coltivato in Lombardia.
Quanto alla semente, a quell’epoca probabilmente essa deve arrivare ancora dall’Asia via Venezia e la cosa più strana è che non si hanno notizie di colture in Veneto, visto che anzi il riso, citato in una deliberazione del Consiglio dei X del 1527 come alimento scarsamente usato, in quella zona resta esente da dazi fino al 1561. Certamente nelle ultime decadi del 1400 la coltivazione e la commercializzazione però aumentano a Ovest: del 1494, rileva Veneroni, è una nuova grida di Galeazzo Maria Sforza, edita in Pavia, con la quale si proibisce l’esportazione di riso dal Ducato di Milano.
Nel 1500 le risaie in Lombardia si estendono su 5.500 ettari diventati 50.000 secondo un censimento spagnolo nel 1550. Dopo la Lombardia il riso si diffonde in Piemonte, ma più lentamente per mancanza di canalizzazioni, giungendo fino a Saluzzo (del 1525 sono le prime esportazioni piemontesi) e verso Est raggiungendo Mantova, Verona, Vicenza e la marca Trevigiana.
Questa nuova coltura viene però osteggiata dagli abitanti delle città che attribuiscono ad essa la causa della malaria con sollecitazioni all’autorità perché venga proibita mentre è reclamata dai proprietari dei fondi e dal clero, pure proprietario di molte terre, che vedono in essa una sorgente di notevole guadagno.
E’ del 24 Settembre 1575 un ordinanza del marchese de Ayamonte, governatore di Milano con la quale si impone che il riso venga piantato a sei miglia da Milano e a cinque miglia dai confini delle altre città. Di queste ordinanze ne vengono emesse moltissime, segno evidente che sono generalmente disattese. Del problema sono investiti i medici e del 21 aprile 1584 è la risposta del Collegio Medico di Novara, forse su sollecitazione dello stesso San Carlo, che assicura mancanza della malaria se le risaie sono distanti dalle case un miglio o poco meno e “soprattutto provvedendo che le acque dei risi decorrino liberamente né in alcun modo si fermino e si impaludino”.
Con il diffondersi della coltura del riso compaiono anche le prime pubblicazioni a stampa. Dai disegni della pianta contenuti nei “Commentari a Dioscoride” del 1565 di Pietro Andrea Matthioli, medico senese, e in un Compendium datato 1571, dello stesso autore, si passa a pubblicazioni dedicate alla coltivazione come quella, del 1569, più volte ristampata, del bresciano A. Gallo che indica anche l’impiego del riso nelle minestre e nella panificazione associata a miglio e segale.
Pubblicazioni successive che descrivono ed illustrano la pianta del riso, si hanno nello “Herbario Novo” del 1667 di Castore Durante e sulla coltura del cereale compare nel 1758 il libro “La coltura del riso” del marchese Giovan Battista Spolverini di Verona (un classico recentemente ristampato) che accenna anche al brusone, meglio descritto dal conte Bevilacqua nel 1776 come una malattia di origine fungina che in principio non disturba molto i raccolti ma che lo farà ben presto, tanto da rendere problematica la coltura all’inizio del ‘800.
Non è facile reperire dei dati sulla produzione e sulla superficie dedicata alla risaia nel corso dei secoli anche per le alterne vicissitudini di questa amata o vituperata coltura.
Nel 1700 risultano coltivati 20.000 ettari; nel Piemonte di Amedeo II, nel 1710, il 9% del territorio di pianura è coltivato a riso.
Durante l’occupazione napoleonica risulterebbero coltivati 40.000 ha fra Santhià, Vercelli e Biella e 120.000 ha in tutta Italia mentre nel 1860 solo in provincia di Vercelli sarebbero coltivati a riso 30.000 ettari. Il vero boom si ha solo dopo lo scavo del canale Cavour (1866), quando l’ettarato sale a quota 230.000 e il riso italiano diventa un prodotto d’esportazione, molto richiesto da francesi, svizzeri, tedeschi e austriaci.
Con l’apertura del canale di Suez (1869) inizia però una grave crisi per l’importazione a basso costo, cui segue una contrazione delle coltivazioni nostrane fino ai 164.000 ha del 1893. In quel momento il riso italiano potrebbe scomparire: viene salvato dall’emanazione di norme doganali protezionistiche e, poco dopo, dall’esplosione della prima guerra mondiale, che fa impennare la domanda di derrate alimentari. Non che da quel momento le cose si facciano semplicissime: oltre all’insidia dell’importazione straniera in quegli anni si ha un incremento di malattie e una diminuzione della fertilità nelle specie coltivate ormai da lunghissimo tempo.
All’inizio dell’800 vengono introdotte in Italia nuove varietà, come le 43 di Chinese, proveniente dalle Filippine, inviate a Torino nel 1839 da un missionario in Cina, tale padre Calleri. Questo riso si diffonde rapidamente soppiantando le altre varietà, che pure erano chiamate “cinesi”.
Ad accrescere la confusione terminologica vi è l’importazione (1844), via Trieste di un altro Chinese proveniente dall’America e nel 1892 di un terzo Cinese, sempre proveniente dalla Carolina del Sud.
Si inizia a mettere un po’ di ordine solo con la creazione dei costitutori delle varietà di riso: il primo selezionatore è Ranghino di Vercelli che nel 1887 seleziona quella che porta il suo nome. Con la creazione dell’Istituto sperimentale di Vercelli nel 1908 si inizia la selezione e l’ibridazione su vasta scala e nell’anno successivo si iniziano le sperimentazioni di trapianto del riso in Lomellina.
Dopo la prima guerra mondiale, tuttavia, si abbatte sulla risaia una crisi dovuta alla sovraproduzione e alla concorrenza asiatica. I raccolti restano in buona parte invenduti e non si vedono speranze di ripresa.
Nel 1931 nasce per questo l’Ente Nazionale Risi che con una politica di difesa dei prezzi alla produzione, premi all’esportazione, costituzione di magazzini ed essicatoi consente la ripresa della risicoltura nostrana che anzi inizia a progredire in produttività e in qualità.
In quegli anni, i risi coltivati in Italia sono fra i precoci il Bertone, il Maratelli e l’Agostano; di stagione è il Vialone, l’Americano 1.600, il Chinese originario ed il Mantova; fra i tardivi troviamo il Roma e il Bologna.
La produzione italiana che era stata di quattro milioni di quintali nel 1915 sale allora a sette milioni nel ’35 sempre su una superficie coltivata di 130-140 mila ettari.
Negli anni che precedono la seconda guerra mondiale si hanno importanti progressi nella lavorazione industriale con la preparazione di tipi speciali di riso come il Camolino e il Brillato; il primo viene ottenuto oleando leggermente e lentamente il riso raffinato dentro un elica di legno o di ghisa smaltata o in una botte di legno; il secondo, prevalentemente per esportazione, trattato nella stessa maniera ma con talco o glucosio in modo di velare il riso con una patina leggera che oltre a renderlo di aspetto migliore lo conserva più a lungo. Conservazione ottenuta oggigiorno con la tecnica del sottovuoto, purtroppo un po’ traumatica per la cariosside, o con la più raffinata tecnica dell’atmosfera modificata.
Un’altra novità è rappresentata dal Parboiled, inventato dagli Usa che ne hanno rifornito le truppe impegnate nella prima guerra mondiale: si tratta di un riso sottoposto a particolari condizioni di calore e pressione che gli conferiscono una particolare tenuta alla cottura. Una lavorazione simile esisteva nelle Filippine già 3000 anni fa. In Italia viene chiamato “Riso Avorio” per il colore ambrato.
All’inizio degli anni ’50, con la guerra di Corea, vi è un rilancio della produzione nazionale, associato a un incremento della resa per ettaro eccezionale, che crescerà nel corso degli anni.
Nel 1968, a seguito della riforma della ricerca scientifica dell’anno precedente e delle trasformazioni cui è sottoposta in quel periodo la Stazione di Cerealicoltura di Vercelli, viene istituito a Mortara il Centro Ricerche sul Riso, trasferitosi nel ’89 nel comune di Castello d’Agogna dove si trovano i campi sperimentali.
Dopo la seconda guerra mondiale, intanto, vengono messe a coltura nuove specie varietali come il Carnaroli, il Vialone nano, il Baldo, il S.Andrea; ancor più recentemente arrivano l’Ariete, il Drago e il Loto. La tendenza è quella di ridurre l’investimento nelle varietà comuni per incrementare quello delle semifini e fini.
Per soddisfare le richieste del Nord Europa, abituato ai risi cristallini, si introduce il Thaibonnet: avviene dal 1988 al 1994, quando l’Ue finanza la riconversione di Japonica in Indica. Un processo che si scontrerà più tardi con forti tensioni.
Negli anni più vicini a noi si sperimenta la messa in coltura all’asciutto (una tecnica in uso da secoli nell’Oriente in zone piovose e senza grandi sbalzi termici) di nuove specie come il Prometeo ed il Cripto, che permettono la coltivazione anche con scarsità di acqua.
Dello stesso periodo è l’introduzione di nuovi diserbanti, più selettivi e a minor dosaggio. Siamo ormai alla “agricoltura di precisione”.
Il bilancio di questa breve storia non può che affrontare la chiave di questa straordinaria fortuna. Noi, come tanti altri, riteniamo che la ragione per la quale il riso, malgrado i rischi che in passato comportava per la salute umana e le obiettive difficoltà agronomiche che presenta la sua coltivazione, si sia diffuso ovunque possibile – come spiega anche Antonio Tinarelli nel suo “Cenni di storia e delle civiltà del riso” (Vercelli 2001) – è la sua produttività. Un’energia che va individuata attraverso il duplice parametro del rendimento unitario e della resa alla lavorazione.
Prima della patata, prima del mais, il riso è la derrata agraria che, a pari superficie coltivata, si è dimostrata capace di alimentare il maggior numero di persone, oltre che l’unica adatta a vivere in terreni paludosi.
Fonte: da Riso italiano del 15 agosto 2013
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