giovedì 2 maggio 2019

EL PIGNATON COI SCHEI DE ORO (IL PENTOLONE CON LE MONETE D’ORO)

Monete d'oro



I RACCONTI DEI FILO' NELLA LESSINIA DEL PASSATO –

Nel mondo contadino montanaro del passato la vita era estremamente dura e difficile e anche i nostri montanari lessinici dovevano "tribolare" non poco per riuscire a mantenere le proprie famiglie. La situazione economica della maggior parte dei contadini lessinici del passato era infatti spesso piuttosto misera e le loro attività lavorative, spesso poco remunerate, occupavano gran parte della giornata. Tuttavia quando non devono lavorare all’esterno, quando il tempo non lo consentiva o si era in piena stagione invernale ed il mondo circostante era avvolto da una spessa coltre di neve gli abitanti delle nostre contrade a sera più in stalla che in casa, perché la prima non doveva essere riscaldata col fuoco, si radunavano nelle stalle riscaldate dal calore animale. Nella stalla dunque si svolgeva non solo l'attività lavorativa di accudire il bestiame, ma si praticavano anche varie attività artigianali e domestiche ma si svolgeva soprattutto un evento sociale che veniva denominato "il filò". 

Il filò, il cui termine sarebbe fatto derivare dall'attività della filatura della lana che le donne erano solite praticare nel corso di tali occasioni di raduno, costituiva un momento socialmente coinvolgente e culturalmente stimolante; vi confluiscono tutti gli abitanti di una contrada e di quelle vicine. Iniziava solitamente verso le 20 con la recita del Rosario, ma nei giorni lavorativi non si rimaneva inoperosi. Le donne filano la lana, cucivano e rammendavano gli indumenti domestici, sferruzzano; gli uomini invece realizzavano ceste o gerle in paglia o vimini, impagliano le sedie, "scartossano la polenta" (levavano il cartoccio alle pannocchie del mais), costruivano o riparavano attrezzi, ecc. Non si rimaneva mai con le mani in mano e completamente inoperosi, poiché in un mondo dove il mantenimento dipendeva esclusivamente dal proprio lavoro l'inoperosità significava non produrre e quindi non mangiare. 
Per meglio inquadrare la situazione dell'epoca calza perfettamente a questo punto la citazione del vecchio adagio lessinico che recita: "coà ghe casa lasagna, ci no laora no màgna!". Ma al filò gli uomini parlavano anche d’affari, di prezzi, di notizie; i più anziani, dotati di maggiore esperienze di vita e di ricordi, raccontavano ai piccoli le storie di "fade", di orchi, di "anguàne", di basilischi e di altre creature fantastiche e di fatti avvenuti in passato sui nostri monti. 

E' appunto nell'ambito dei filò che è nata una folta schiera di racconti, di leggende che hanno alimentato per molti anni le credenze e le tradizioni popolari.

E' soprattutto grazie all'amorevole ricerca e raccolta attuata in passato dal Cav. Attilio Benettiche una buona parte di questi antichi racconti, fiabe e leggende non sono andati persi poiché sapientemente egli li ha raccolti in alcuni libri con l'intenzione di tramandarli ai posteri .

Nei filò delle lunghe e gelide serate invernali della Lessinia del passato si raccontava anche di una leggenda, secondo la quale in qualche luogo sconosciuto dell’alta Lessinia sarebbe stato nascosto un grosso “pignatòn” (pentolone) colmo di monete d’oro zecchino.  

Si narra, infatti, che agli inizi del XX° secolo, poco prima della I° Grande Guerra Mondiale, vivesse sui nostri monti, in un luogo non ben precisato, un ricco “malgàro” che non aveva ne moglie e ne figli, ma aveva al suo servizio solo un “famejo” (o fiol a paneto); parola che deriva dal latino “famulus” che poteva assumere due significati diversi: "servo" oppure "giovane schiavo". 
Si trattava di un’antica figura di origine medievale, molto in uso anche sui Lessini sino ai primi decenni del XX° secolo, ove un giovane veniva “adottato” in famiglia o da qualcuno per il solo mantenimento in cambio di lavoro presso la famiglia o la persona che lo manteneva. 
Si narra che questo “malgàro” fosse molto ricco poiché era il proprietario di molti terreni, malghe, pascoli, mandrie di bovini e greggi di pecore, ma si diceva anche che fosse in possesso di un grosso “pignatòn” (pentolone) stracolmo di monete d’oro. 
Giunse ormai il tempo in cui era imminente lo scoppio della Grande Guerra e l’uomo, nel timore che gli venisse confiscato tutto il suo oro decise di nasconderlo in un luogo segreto, senza che nessuno potesse portaglielo via. Il “pignaton”, stracolmo di monete d’oro, era veramente pesante e da solo non sarebbe mai riuscito a trasportarlo per poterlo nascondere; dovette così farsi aiutare dal suo fidato “famejo”. Prese il suo più robusto mulo e con l’aiuto del “famejo” vi caricò il pentolone con l’oro e si diresse verso l’alta Lessinia, raggiungendo la malga di Campolevà di Sopra. 
Affaticati dal viaggio si fermarono per riposare, quando il “malgàro” scrutando bene la zona individuò il punto giusto ove nascondere il suo prezioso tesoro. Insieme al suo “famejo” iniziò a scavare una profonda buca, presero, a fatica, il pentolone e ve lo riposero iniziando a sotterrarlo. Coprirono per bene la buca, riponendovi sopra delle pesanti pietre per cercare di mimetizzare il nascondiglio e si diressero verso casa. 
Strada facendo la mente del “malgàro” venne però assalita da mille crucci e dubbi sulla segretezza e sicurezza del nascondiglio ed il Diavolo ci mise lo zampino, infatti balzò alla mente del “malgàro” l’idea che sarebbe stato opportuno uccidere il “famejo” perché in fondo era l’unico, oltre a lui, a sapere dove si trovava il nascondiglio del tesoro. Il “malgàro” era molto affezionato al suo “famejo”, ma davanti al dubbio che un giorno avrebbe potuto rubargli il tesoro, sapendo dove si trovava, non esitò a liberarsi di lui.  Lungo il tragitto del ritorno lo fece camminare davanti a lui di alcuni passi, prese la sua “rengàia” (roncola) che aveva sempre legata alla cintura e lo colpì vigliaccamente e ripetutamente alla schiena, facendolo cadere mortalmente a terra in un lago di sangue. 
Senza scrupoli, ormai in preda al Demonio, il “malgàro” fece rotolare il corpo del povero “famejo” giù per una profonda scarpata facendone perdere ogni traccia.  L’assassino pensò anche di disegnarsi una rudimentale mappa, indicando il punto esatto dove era stato nascosto l’oro, poichè con il tempo avrebbe potuto dimenticarsi il luogo esatto del nascondiglio.

Di quel tesoro, per cui aveva persino assassinato il suo fidato “famejo”, il “malgàro” non potè però mai goderne. Infatti dopo qualche anno, i briganti che ben sapevano delle sue ricchezze e che più volte avevano sentito parlare che fosse in possesso di un grosso quantitativo di monete d’oro lo rapirono, per farsi consegnare il tesoro. Lo torturarono e seviziarono crudelmente per diversi giorni, senza però ricavarne “un ragno dal buco”. Infatti il “malgàro”, nonostante le sevizie non scucì mai nessuna parola al riguardo; i briganti indispettiti dal suo ostinato silenzio alla fine decisero di ucciderlo, senza ottenere alcuna informazione sul nascondiglio e senza sapere dell’esistenza della mappa.

Per questo oro maledetto persero la vita due uomini, il “famejo” che venne vigliaccamente trucidato dal suo padrone ed il “malgàro” stesso che venne seviziato a morte per non aver mai parlato sul luogo del nascondiglio. Si raccontava che la mappa del tesoro si trovasse in qualche luogo di Badia Calavena, mentre il “pignàton co l’oro” si narrava si trovasse in qualche punto nei dintorni della malga di Campolevà. Furono infatti in molti a scavare in quella zona, nella speranza di trovare qualcosa, ma non venne mai trovato nulla poiché il Diavolo ci mise ancora lo zampino.



Fonte: da Facebook Velo Veronese del  22 gennaio 2019


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