Poco dopo aver appreso del “regalo” dell’archistar e Senatore a vita Renzo Piano alla sua Genova, la stragrande maggioranza dei professionisti italiani ha manifestato la sua indignazione per l’iniziativa, apparsa più una farsa a beneficio della politica, che non una concreta proposta per risolvere il problema dell’autostrada passante per Genova e, più in generale, dello stato in cui versano tutte le mastodontiche infrastrutture in cemento armato realizzate negli ultimi 60 anni in Italia.
Lo scorso 30 agosto Eleonora Carrano[1], dalle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, nel tracciare un quadro disastroso dell’edilizia pubblica “moderna” italiana, ha tristemente ammesso: «Viviamo in un disastro, in un Paese che sta letteralmente collassando, che nega il principio di realtà, che non riconosce nell’incognita dell’incolumità dei cittadini la priorità di intervento, lavorando in questo modo al proprio fallimento: aspettiamo Godot, che non arriverà mai, ma viviamo nell’attesa che domattina ci sarà il miracolo».
… per poi ironizzare dicendo: «Ed ecco un piccolo miracolo, che dovrebbe scaldare il cuore ma che invece non commuove né convince: la generosa offerta del senatore Renzo Piano; che, in assenza di un pensiero sistemico e di investimenti strutturali, offre un suo progetto per il nuovo ponte, “un lavoro a titolo gratuito, in continuità con quello che lo studio ha fatto per Genova, a partire dalle Colombiadi” (chissà cosa ne pensa il Consiglio Nazionale degli Architetti Cnappc, di questa offerta a titolo gratuito)».
Ma la situazione è ben più grave – e se vogliamo ben più irritante – dello “sgambetto” dell’archistar ai colleghi con la sua “offerta gratuita”. La Carrano ha infatti concluso con una riflessione su cui noi tutti, prima di abboccare alla “macchina scenica” messa in piedi dalla politica e dalle star al suo servizio, in nome della società dello spettacolo.
La brava giornalista (che è anche architetto) ha infatti scritto: «Non ci risulta che Renzo Piano – Senatore della Repubblica dal 2013, che in questi cinque anni avrebbe potuto usare il suo ruolo per aiutare non solo Genova, ma l’Italia tutta – abbia presentato un solo testo di legge che potesse scongiurare queste catastrofi e questi lutti; non ci risulta che si sia fatto promotore di una politica pubblica per le città per superare l’inefficacia della strumentazione urbanistica vigente (se escludiamo l’impegno di occuparsi del tormentato territorio delle periferie italiane, teorizzandone “il rammendo”, di cui peraltro si è perso il filo). Di più: le presenze in Senato di Renzo Piano sono pari al 0,04%; il senatore a vita è stato presente in aula 8 volte su 17897 votazioni».
E allora, prima di andare oltre, invito tutti a riflettere sul ruolo, oltre che sui costi pubblici, di certe “figure illustri” alle quali viene conferita l’onorificenza di “Senatori a vita” … un titolo giammai utile al bene del Paese, ma che torna utilissimo – lo abbiamo visto – a fare maggioranza quando si tratti di votare per qualcosa che interessi alla classe politica che gli ha dato quell’onorificenza.
Nel caso in oggetto, invece, la figura del Senatore a vita – stipendiato dal Parlamento – si trasforma in burattinonelle mani dei governanti nazionali, regionali e comunali i quali, a beneficio della “società dello spettacolo”, gli chiedono mettersi a loro disposizione, recandosi in Regione con un discutibile progetto,“cotto-e-mangiato”, che consenta ai burattinai di turno di convocare i media e poter dire “ci siamo”, cosa che, senza il sensazionalismo suscitato dalla presenza dell’archistar sarebbe risultata poco credibile!
Il progetto di Renzo Piano per il ponte sul Polcevera prevede la realizzazione di un viadotto continuo – ovvero privo delle strallature e “interruzioni” con travi “Gerber” realizzate da Morandi che, nel bene o nel male, hanno impedito una tragedia ben più grande di quella del 14 agosto. Nella più becera retorica, il progetto “griffato” da Piano propone 43 lampioni che dovrebbero proiettare delle “vele di luce” atte a ricordare la memoria delle 43 vittime del disastro.
Il giorno prima dell’articolo della Carrano, avevo postato sulla mia pagina Facebook una riflessione che andava ad aggiungere qualche tassello a quanto avevo già espresso nell’articolo[2] postato su questo blog lo scorso 18 agosto e che invito chi non abbia letto a leggere; in quel post avevo scritto:
«Come di consueto, il nostro Senatore a vita ci “dona” l’ennesima accozzaglia di retorica e demagogia[3]della quale Genova poteva decisamente fare a meno! Soprattutto, la grande “idea cotta e mangiata” elaborata a tempo di record dall’archistar nostrana, stralli a parte, mantiene la presenza dell’immane “Spada di Damocle” sulla testa dei genovesi, costituita dall’ipertrofico viadotto realizzato con una tecnica costruttiva e dei materiali destinati a perire, si spera non con tutta la violenza manifestataci lo scorso 14 agosto.
A mio modestissimo avviso, credo che chi promuova certe cose dovrebbe assumersi tutte le sue responsabilità, nel tempo, per ciò che una struttura del genere possa comportare in termini di sicurezza e incolumità delle persone, nonché in termini economici relativamente all’indispensabile costo di monitoraggio costante e manutenzione continua delle strutture.
Chi, come Renzo Piano, sostiene che una strada del genere possa continuare a passare sulla testa delle persone, dovrebbe dare il buon esempio e trasferirsi a vivere al di sotto di essa, portando con sé tutti i suoi cari, facendo sapere ai suoi figli e nipoti che, se un domani dovesse verificarsi nuovamente la “tragedia di ferragosto”, il responsabile è lui in prima persona.
A mio modestissimo avviso, la “memoria” di quelle 43 anime innocenti – immolate in nome dell’arroganza di progettisti-sperimentatori abituati a pensare in grande sulla pelle degli altri – non va ricordata con 43 lampioni, ma con un’opera che, MAI PIÙ, metta a rischio la vita della gente volando nel cielo, piuttosto che appoggiandosi in maniera più razionale al terreno; … ove necessario, ritengo più che possibile realizzare gallerie e ponti in muratura dalle campate contenute sul genere di quelli antichi e di quelli realizzati per le ferrovie fino ai primi del Novecento che, il tempo ci ha dimostrato, non hanno mai messo a rischio nessuno, tranne che l’ego degli architetti ed ingegneri autoreferenziali!»
Ne è scaturito un interessante dibattito, con la stragrande maggioranza di pareri concordi e con solo un paio di pareri “fuori dal coro” … pareri dettati da ragioni ideologiche (od opportuniste) di chi preferisca evitare di criticare il “maestro intoccabile”, oppure da ragioni di fraintendimento, oppure ancora in conseguenza di pregiudizi e credenze economiche e strutturali relative alla possibilità di costruire, oggi, in un modo piuttosto che un altro.
Un caro e bravo collega, che stimo molto nonostante le nostre discussioni sul “linguaggio” più opportuno dell’architettura, ha scritto:
«Ettore consentimi, non condivido talvolta le tue conclusioni, quasi sempre funzione del braccio di ferro tra architettura modernista e storicista, come nel caso odierno, perché per me oggi realizzare dei viadotti ad archi in muratura sarebbe un abominio e non sarebbe neanche possibile nella stragrande maggioranza dei casi sia in funzione dei costi che delle norme sulle caratteristiche tecnico funzionali delle varie categorie di infrastrutture alle quali si può derogare solo dentro certi limiti. In genere condivido le tue premesse quasi sempre approfondite ed equilibrate, ma nello specifico di questo post non condivido neanche quelle. Il rapporto anormale tra infrastrutture e costruito nelle città in genere, perché quello di Genova è uno dei tanti casi, non deriva dalla protervia dei progettisti delle infrastrutture e dalla invasività del cemento, ma deriva dalla necessità di non allungare troppo i percorsi per aggirare tutta la informe massa periurbana che tanti bravi progettisti hanno contribuito a disporre sul territorio, nonostante che siano stati professori universitari, talvolta anche archistar, ed abbiano passato una vita a pontificare nei convegni, scrivere libri, e da ultimo occupare anche il web. È, ed è sempre stato, un rapporto biunivoco e se lo si volesse riportare nell’ambito del ragionevole, armonico, umano e non solo razionale, occorrerebbe cominciare a togliere di mezzo tutto quanto costruito nel periurbano oggi non più utile, abbandonato, diruto, abusivo, ecc., di cui abbiamo già trattato più volte a proposito del progetto del Ponte dei Congressi a Roma. Sono il primo a dire che le nuove infrastrutture grandi e piccole spesso finiscano per essere invasive e sovrabbondanti ma ciò, converrai con me, dipende anche e soprattutto dagli interessi consociati di enti ed imprenditori, ai quali si adeguano sottostandovi tutti i progettisti e direttori dei lavori tranne qualche rarissima eccezione che si volesse rovinare la vita per sempre. Da parte mia ritengo che questo tragico disastro di Genova possa costituire la base giusta per fare un salto culturale, che di certo non si può fare con un intervento come quello di Piano limitato al viadotto nuovo sul Polcevera e poco altro nell’intorno, ma riprendendo e riprogettando, riducendole all’essenziale ed integrandole, le varie opere infrastrutturali attualmente in sospeso a Genova, accoppiando a questa operazione anche una altrettanto necessaria operazione di rigenerazione del costruito».
In fin dei conti, nonostante mi si dica di non essere affatto d’accordo, il commento – in gran parte condivisibile – conferma molte delle cose che avevo scritto lo scorso 18 agosto, con l’unica differenza relativa alla “certezza assoluta” che costruire in muratura risulti un “abominio” e risulti “più costoso” della ricostruzione del viadotto in cemento armato.
È davvero così? Esiste una bibliografia atta a dimostrare certe affermazioni? Oppure è frutto della fiducia incondizionata che abbiamo riposto nella teoria progettuale degli ultimi 70 anni, che ci ha portato a prenderla per vera, senza nemmeno aver provato a verificarla? È davvero un qualcosa di impossibile perché le norme non lo consentono? Oppure quelle norme sono fallaci, perché scritte in funzione di quegli interessi economici dell’industria edilizia che hanno portato alla distruzione dell’artigianato e delle economie locali … oltre che del paesaggio?
Le ipertrofichestrutture degli antichi – dagli acquedottialle mura urbiche, dalle gallerieai pontie strutture portuali– nonostante le necessarie dimensioni, riuscivano ad armonizzarsi nei paesaggi in cui si inserivano, esse, tra l’altro risultavano pressoché eterne, perché figlie di una cultura che vedeva la costruzione come un qualcosa destinata a durare nel tempo, piuttosto che in funzione di una politica economica consumista, basata sulla necessità di dover costantemente manutenere, demolire e sostituire, perché utile al PIL o, peggio ancora, perché così previsto dalla teoria futurista di Sant’Elia che, come ricordato nel precedente articolo, affermava: «[…] i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, […] e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista».
E allora, a sostegno di ciò che avevo già scritto, ed in risposta al discorso relativo ai presunti costi per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera, non posso non sottolineare che, a conti fatti, tra una demolizione e l’altra, che per evitare sorprese drammatiche sul resto del viadotto dovrebbe comprendere la demolizione dell’intera tratta in quota[4], mi chiedo se non possa risultare più economico trovare un tracciato alternativo, anche più lungo (non è la velocità con la quale si raggiunge un luogo ad essere importante, ma la sicurezza con la quale lo si raggiunga), prevedendo demolizioni – in aree periferiche – di edifici privi di valore e destinati (per le stesse ragioni del ponte)ad avere vita breve.Se si realizzasse un nuovo tracciato, rispettoso dell’orografia, che non nasconda futuri continui costi di monitoraggio e manutenzione, alla fine, nonostante l’estensione, la tratta maggiore risulterebbe molto più economica della ricostruzione “dov’era” del viadotto e, soprattutto, molto più sicura!
Solo ieri erano circolate nel web le immagini dei ferri di armatura dei piloni del viadotto di Morandi, barre di ferro lisce, piuttosto che ad aderenza migliorata come quelle che, da decenni, vengono impiegate nelle strutture in cemento armato … quali garanzie potrebbe fornire una ricostruzione parziale della sola tratta crollata, se a monte e a valle le strutture sono costituite da un qualcosa che – indipendentemente dalla “novità” sui ferri di armatura – appare come una “bomba ad orologeria”?
Foto del pilone del Ponte Morandi dove, lungo la linea di frattura, si vedono i ferri lisci di armatura messi a nudo … un qualcosa da non sottovalutare da parte di chi intenda ricostruire solo la parte crollata tenendo in piedi tutto il resto!
Certo, tra gli ambientalisti, come già accaduto in occasione dell’annoso dibattito sulla “Gronda” di Genova[5], c’è chi, a priori, si batta per evitare un ulteriore consumo di suolo costruendo altrove questa dannata tratta autostradale e, come spesso accade, questa polemica rischia di causare ulteriori danni, piuttosto che risolvere il problema.
La “Gronda” di Genova
A mio avviso occorrerebbe invece riflettere sul fatto che, se ben studiata e pianificata, la deviazione – presunta “consumatrice di suolo” – potrebbe bilanciarsi attraverso il recupero di suolo lungo il tracciato demolito …
A tal proposito ricordo che mi è già capitato di discutere, per altre ragioni, della necessità di cambiare regime anche all’interno di Italia Nostra: la doverosa attenzione all’ambiente, ma soprattutto il pregiudizio, talvolta può portare a difendere cose indifendibili, perdendo di vista il fatto che, quando ci sono grandi interessi in ballo, l’arroccarsi su posizioni “integraliste”, piuttosto che proporre alternative credibili che possano risultare il giusto compromesso, faccia sì che le cose finiscano per essere realizzate esattamente come si era cercato di evitare!
Nel caso di Genova, sicuramente occorre risolvere in breve tempo il problema che ha tagliato in due i collegamenti – veloci –tra l’angolo nordoccidentale d’Italia dal resto del Paese … Tuttavia faremmo bene a renderci conto del fatto che, nonostante le difficoltà causate dal crollo, il mondo da quelle parti continui – più lentamente– ad andare avanti attraverso percorsi, sottodimensionati e scomodi, alternativi.
Questa considerazione dovrebbe indurci quindi a capire che l’urgenza non debba essere necessariamente l’argomentazione principale per intraprendere la ricostruzione … da che mondo è mondo infatti, le cose buone non si sono mai fatte con la bacchetta magica! Semmai, più le cose sono state sudate, più hanno funzionato e, nel tempo, meno sono costate; diversamente dalle soluzioni frettolose, che hanno comportato sperpero di denaro e guai a non finire.
Oggi come oggi, data la certezza dello stato in cui versa questo tratto autostradale sospeso in aria, ritengo che l’unica soluzione sia quella di un cambio radicale, il cui unico, vero, ostacolo venga proprio dal mondo politico piuttosto che dagli aspetti tecnico-logistici.
Il mondo politico contemporaneo sembra infatti fondato sullasocietà dello spettacolo, un mondo in cui, piuttosto che fare progetti duraturi realizzati nei tempi opportuni, si preferisca fare le cose “alla carlona” purché “cotte e mangiate“, sì da potersi beare – durante il proprio mandato – “di averle fatte” e, al contempo, evitare che i successori possano dismetterle, in quanto promosse dagli antagonisti politici. La lungimiranza e la necessità di realizzare opere da destinarsi ai posteri, sembrano non fare più parte del nostro modo “veloce” di pensare.
La tragedia di Genova non necessita della presunta generosità di senatori demiurghi, né delle messe in scena politiche di chi ami mostrarsi in TV, piuttosto che risolvere in maniera seria il problema.
La tragedia di Genova, semmai, andrebbe analizzata in maniera più ampia, includendo tutti i crolli registrati negli ultimi anni a carico di ponti autostradali ed edifici realizzati sfidando le leggi della natura, in nome della presunta onnipotenza della scienza. Diversamente da questo approccio arrogante – suggerito anche dal boom economico di quagli anni – si sarebbero dovute fare le opportune valutazioni, immaginando opere meno eclatanti, ma sicure, opere che non mettessero a repentaglio la vita delle persone e che non necessitassero di costanti monitoraggi e manutenzioni – non effettuate – prima di terminare la loro breve vita … come la triste e dura realtà ci ha mostrato!
A mio avviso la tragedia di Genova dev’essere lo spunto per comprendere che tutto il Paese richieda una sorta di “Piano Marshall”, atto a sostituire quasi tutta l’edilizia e le infrastrutture realizzate a partire dal dopoguerra, per evitare che la gente debba trovarsi nuovamente in chiesa a piangere dei morti … magari chiedendo al vicepremier di farsi un selfie!
Fonte: da picweb.it del 2 settembre 2018
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