Oggi è un anno che mi precipitai a Gallarate a fotografare la tomba di un infoibatore nostrano.
Mi avevano finalmente informato in quale cimitero fosse sepolto, mi avevano informato il pomeriggio di un caldissimo giorno di agosto e la mattina dopo ero già in autostrada. Era un mercoledì, giorno di chiusura del cimitero, lo leggevo, stordito, in un cartello sulla grande cancellata d’ingresso.
Avevo fatto quattrocento chilometri per nulla? Me ne aspettavano altrettanti. E ottocento erano troppi! Ho forzato il cancellone tanto quanto mi fosse sufficiente passare, ovviamente in tralice. Mi avrebbero visto? Mi avrebbero portato a rispondere in un ufficio di polizia? Avevo con me la tessera di giornalista e in automobile qualche copia dei miei libri. Non sarebbe stato facile per l’ottuso carabiniere o vigile urbano, che fossero, sospettarmi d’intrusione e confondermi con un profugo in attività.
A Monte Maggiore, nel Vicentino, il 25 aprile del ’45 i partigiani comunisti avevano infoibato la famiglia Tescari. Uno di questi partigiani, di cui si conosceva solo il nome di battaglia, uccise e gettò nella foiba per primo il marito, poi agguantò la moglie per gettarla viva e non vi riuscì se non dopo averle sparato un colpo di pistola alla testa. Il figlioletto si gettò sul corpo della madre, non si saprà se singhiozzando, urlando o muto dal terrore. Così, insieme, furono spinti e infoibati dal partigiano Tigre. Per due giorni, diranno i testimoni, si udiranno lamenti provenire da quella voragine. Erano di quel bambino, l’unico gettato vivo.
Il partigiano Tigre faceva parte della brigata di quel Tar, al secolo Ferruccio Manea, un personaggio più vicino alla psichiatria che alla Resistenza, superiore per numero di eliminazioni persino al boia di Codevigo, Arrigo Boldrini.
Ho ricercato questo killer per anni, avvicinando, sotto mentite spoglie, l’unico superstite di quella banda criminale, il novantenne Luigi Zaupa. Invano. Ho consultato archivi e anche l’istituto storico della resistenza di Vicenza. Ho ricercato il fascicolo giudiziario negli archivi di Stato, perché, pensavo, massacrare una famiglia avrà avuto uno straccio di indagine. Nulla! Il partigiano Tigre rimaneva anonimo.
Ho conservato quella foto tra le mie carte in attesa di pubblicarla in un libro. Avanti negli anni non so se ne scriverò altri, così, illudendomi di rendere giustizia a questa sfortunata famiglia, mi preme renderla di dominio pubblico.
E’ l’immagine del partigiano assassino Gelindo Bonin, nome di battaglia Tigre, rimasto sconosciuto per settant’anni; l’infoibatore di una donna incinta e del figlio dodicenne che, abbracciati, fece precipitare in una foiba delle boscose colline vicentine.
Fonte: srs di Gianfranco Stella, 17 agosto 2021
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