mercoledì 28 ottobre 2009
Quel parlamento antidemocratico rifiutato solo da Carlo Cattaneo
RISORGIMENTO. L'ALTRA VERITA'
Quando si votò per le elezioni della prima Camera del regno d’Italia andò alle urne solo lo 0,9 per cento della popolazione. In più, il Governo intervenne a sostegno dei propri candidati. Vennero cosi marginalizzati gli uomini della sinistra, i clericali e i sostenitori delle vecchie dinastie.
Il Mezzogiorno era una terra a rischio per i moderati filo-sabaudi e non solo perché era stata conquistata troppo di recente ma, piuttosto perché i nuovi padroni, visti all’opera, erano riusciti in pochissimi giorni a far rimpiangere i vecchi. C’era da chiedersi: meglio quando si stava peggio?
La politica aveva bisogno di sancire l’avvenuta Unità d’Italia sotto il segno dei Savoia. Dunque, occorrevano elezioni su scala nazionale e un Parlamento che rappresentasse tutte le regioni della corona.
Con buon anticipo, Cavour scrisse all’allora ministro della Giustizia, Battista Cassinis, per incoraggiarlo «a fare ogni sforzo onde si acceleri la costituzione delle circoscrizioni elettorali». Con quale obiettivo? «Vedendo modo di darei il minor numero possibile di deputati napoletani». Il conte Camillo non lesinò spiegazioni «Non conviene nasconderci che avremo in Parlamento a lottare contro una formidabile opposizione e che dalla nostra forza relativa dipende la salute d’Italia». I pionieri della patria, perciò, divisero le province in modo da ricavare una mappa dei collegi sulla base di criteri esclusivamente partigiani e clientelari.
UNA SUDDIVISIONE TRUFFALDINA
Oggi, con il senno di poi, alcune forzature geografiche che vennero attuate appaiono una truffa, ma già allora non passarono inosservate. Il quotidiano Il popolo d’Italia riferì con accenti indignati il caso di Piedimonte d’Alife «che comprende Venafro, Castellone e Capriati». Dove stava il problema? «Piedimonte, fatto centro del collegio, è distante da Castellone più di 50 miglia mentre dal lato settentrionale, orientale e a mezodì, si disgiungono da Piedimonte paesi lontani cinque o sei miglia, forniti di strade». Il fatto è che, per ottenere un risultato favorevole al Governo, era necessario escludere gruppi di elettori che, votando per il candidato dell’opposizione, lo avrebbero fatto prevalere. Meglio dunque, accorparli a un altro collegio dove la loro preferenza non sarebbe risultata decisiva.
La storia della campagna elettorale fu un susseguirsi di piccoli e, grandi oltraggi al sistema democratico. Al Nord i candidati erano già ampiamente collaudati. Al Sud, dove non esisteva un vero e proprio partito filo-governativo, si mise insieme un’improvvisata schiera di pretendenti deputati, raccogliticci ed eterogenei finché si vuole, ma agguerriti quanto a volontà di riuscire a ogni costo.
QUEGLI ESULI SENZA PIÙ RADICI
In, Sicilia, in Calabria, in Campania, vennero presentati dei meridionali che erano nati laggiù ma che presto avevano fatto le valigie per trasferirsi a Torino o Milano. Esuli da vent’anni e più, avevano smarrito le radici della loro terra o le avevano largamente annacquate con usanze - anche culturali - apprese nei paesi d’adozione. E quelli indiscutibilmente locali erano i don Sedàra di Tomasi di Lampedusa il cui cinismo è facilmente riassunto nella famosa sentenza: «Cambiare tutto perché non cambi niente».
Marco Minghetti, ministro degli Interni, contribuì all’organizzazione delle elezioni firmando una disposizione perentoria secondo la quale «la pubblica amministrazione non doveva astenersi dall’indicare il candidato più idoneo al servire la causa nazionale, qualora si fossero proposti due o più candidati».
Le proteste della stampa furono inutili. «Difficile trovarsi un collegio con candidato unico - notò ancora Il popolo d’Italia - quindi siffatto proclama universale garantisce l’ingerirsi dell’autorità nelle elezioni. Questa circolare è figlia del sistema napoleonico di Francia ove le elezioni sono affare esclusivo dei prefetti».
Chi non stava con la maggioranza se la doveva vedere con collegi costruiti apposta per danneggiarlo, con l’organizzazione governativa che gli dava addosso e con l’amministrazione che si spendeva per la campagna elettorale dell’avversario. Solo contro tutti. Come avrebbe potuto spuntarla?
ALLE URNE LO 0,9 PER CENTO
Si presentò alle urne lo 0,9 per cento della popolazione. Ogni scheda depositata nell’urna valeva per 107,5 abitanti. Un ex ministro di Cavour, Stefano Iacini, lombardo, proprietario terriero, studente a Milano, a Vienna, a Berna e a Pavia, riflettè amaramente sui numeri e sulle statistiche. «Al sistema di Governo - scrisse - non parteciparono più di 220mila persone». Per i plebisciti di pochissime settimane prima, il suffragio universale apparve sacrosanto e, addirittura, doveroso. Per indicare i deputati, però, era meglio tornare a far valere il censo, l’alfabetismo, l’affidabilità politica, l’amicizia e il tornaconto.
Si votò con il sistema del ballottaggio il 27 gennaio e il 3 febbraio 1861. Il partito di Governo registrò un trionfo sopra le righe. Il “tessitore” Cavour riuscì a sistemare tutti i suoi uomini e a garantirsi una maggioranza blindata.
Il Mezzogiorno era una terra a rischio pero i moderati, non tanto e non solo perché era stata conquistata troppo di recente ma piuttosto perché i nuovi padroni, visti all’opera, erano riusciti, in pochissimi giorni, a far rimpiangere i vecchi. Meglio quando si stava peggio?
Tuttavia su 144 parlamentari espressi dalle urne, solo 27 potevano essere collocati nell’area dell’opposizione e di quelli si trovò il modo di lasciarne a casa qualcuno. Come il siciliano Gregorio Ugdulena, personaggio un po’ bizzarro che riusciva a essere prete, liberale, un po’ garibaldino ma che godeva dell’affetto della gente. Per lui - più propriamente, contro di lui - venne rispolverata una vecchia legge piemontese che impediva ai religiosi l’accesso alle cariche dello Stato con la conseguenza che fu fatto decadere. Anche se nel Parlamento stava una dozzina di altri sacerdoti ma, essendo filo - governativi, restarono alloro posto.
L’OPPOSIZIONE MANDATA KO
Vito Di Nardo, scrivendo il suo “Oh, mia patria”, rilevò che Cavour era stato il vincitore assoluto, avendo lasciato a terra per ko tutti gli avversari per blandi che fossero: uomini della sinistra, clericali e nostalgici delle vecchie dinastie. Un risultato del genere pesò per lungo tempo. La sinistra impiegò sedici anni per rialzare appena la testa. I cattolici agitata la bandiera dell’astensione, dovettero aspettare don Sturzo per farsi sentire e rientrare nel gioco della politica. I nostalgici sparirono definitivamente dalla vita politica e non ebbero nemmeno “il diritto di tribuna” per fare sapere che cosa pensassero.
I deputati della prima legislatura del Regno d’Italia si incontrarono per la prima seduta del Parlamento il 14 marzo 1861. Certo, a guardarli da vicino, i cosiddetti rappresentanti del popolo risultarono inadeguati alle speranze del paese. Incominciarono a discutere sulla questione se i militari eletti potevano presentarsi in Parlamento in divisa. Problema, a tutti prima irrilevante, che venne preso molto sul serio dagli interessati. Il dibattito fu lungo ed ebbe anche momenti aspri. L’uniforme non poteva essere indossata «senza gli strumenti che la giustificavano». cioè la spada. Ma la Camera doveva restare un luogo di libero confronto di idee e non avrebbe dovuto accogliere uomini armati. Solo alla fine si potè decidere che quello borghese era l’abito dei deputati.
Poi si ragionò sulla indennità di caricà. Minghetti decise e comunicò l’esito ai giornali che non ci sarebbe stata alcune retribuzione, nemmeno sotto forma di rimborso spese. «Lo statuto lo esclude - tagliò corto - altrimenti il regime parlamentare si incamminerebbe per una pessima via». Anzi: i deputati e i senatori che, dalla loro attività professionale, ricavavano «motivo di lucro» per servizi resi allo Stato, erano invitati a dimettersi o a rinunciare ai lavori che provocavano conflitti di interesse. Si trovarono tutti d’accordo nell’enfatizzare quanto quella decisione fosse stata giusta: chi ciondolando vistosamente il capo per confermare un “sì” davvero condiviso e chi con espressioni del volto molto serio se per dare a intendere che a una questione fondamentale era stata offerta una soluzione adeguata.
INCARICHI EXTRA PARLAMENTARI
In realtà, Francesco Crispi continuò a presentare le sue consulenze legali ai banchieri della Weill-Schott di Milano e Firenze anche quando tentarono di comperare i monopoli statali italiani del tabacco. E, per andare in pareggio con i “conflitti di interesse”, un Weill-Schott - Cimone - firmava i commenti economici (che interessavano a lui e alla sua compagnia) sul giornale crispino La riforma.
Nino Bixio, generale e deputato, non lasciò la poltrona nel consiglio di amministrazione del Credito Immobiliare e non si sentì in imbarazzo al momento di ritirare i dividendi, anche se l’istituto aveva ottenuto appalti per costruzioni statali.
Gustavo Cavour, fratello del Presidente del Consiglio, era uno dei maggiori azionisti della Cassa di Sconto che, con capitali inglesi, si accaparrò i lavori del canale che doveva portare acqua nella bassa novarese e in Lomellina per irrigare le risaie, e che, non a caso, venne indicato anche sui mappali come “canale Cavour”. I Cavour erano considerati «abilissimi nel fare quattrini».
L’onesto Bettino Ricasoli si fece pagare 80 lire per lasciare passare la ferrovia in un suo bosco e dare la firma per la concessione.
Ferdinando Petruccelli della Gattina, lingua e penna velenosa, se ne rese conto con tempestiva lucidità. «La Camera italiana - scrisse per La presse di Parigi - si compone di 433 deputati. A parte 7 dimissionari e 5 morti che, beninteso, non contano più, ci sono 2 principi, 3 duchi, 29 conti, 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori, 117 cavalieri dei quali 3 della Legion d’onore. Poi: 135 avvocati, 25 medici, 21 ingegneri, 10 preti fra cui Apollo Sanguineti uno dei più ostinati seccatori del primo ministro, mentre Ippolito Amicarelli e Flaminio Valente sono sacerdoti silenziosi. Inoltre: 4 ammiragli, 23 generali, 13 magistrati, 52 professori o ex professori o che si danno come tali».
IL GRAN RIFIUTO DI CATTANEO
Non è finita. «C’è un Bey dell’Impero Ottomano, l’onorevole Patemostro, 2 ex dittatori, 2 ex pro-dittatori, 19 ex ministri, 6 o 7 milionari, 25 nobili senza titolo, 4 soli letterati e Verdi, il maestro Verdi».
Mancava Carlo Cattaneo che, il Parlamento, preferì «farselo da solo, a casa sua», in polemica con l’Italia sabauda che andava prendendo corpo su modelli centralistici e autoritari. Venne eletto per tre volte e per tre volte rifiutò di giurare fedeltà ai Savoia. Anzi, si consenti giudizi sprezzanti contro “il servitorame” di Torino «come se avessimo combattuto non per avere più libertà ma discendere più in basso nel regime della servitù».
Petruccelli della Gattina si considerava parte dell’opposizione e non tollerava gli inutili riti della retorica parlamentare. “I rappresentanti del suo popolo si gonfiavano di saccenza e di altruismo per decidere democraticamente soluzioni tiranniche”. «Abbiano notizia di 6 balbuzienti, 5 sordi, 3 zoppi, un gobbo, molti con gli occhiali e moltissimi calvi ma neanche un muto!».
Parlavano proprio tutti e non lesinavano sulle parole.
La sua satira gli procurò qualche, guaio. Agostino Depretis lo sfidò a duello e solo in extremis fu possibile evitare lo scontro. Dovette, invece, incrociare la lama con Giovanni Nicotera e fini con uno ferito al viso e l’altro colpito alla mano destra.
Nella maggioranza le differenze ideologiche erano vistose e, se possibile, accentuate dall’incompatibilità di carattere.
Ricasoli e Spaventa erano dei centralizzatori, Farini e Minghetti chiedevano poteri per le province. Quintino Sella propugnava il controllo dello Stato sulla Chiesa. Giovanni Lanza auspicava “la libera Chiesa in libero Stato”. Mancini era anticlericale e basta.
LA “ZATTERA DELLA MEDUSA”
I deputati, eletti nei collegi dell’ex regno delle due Sicilie, si collocavano in prevalenza nel c’entro dello schieramento parlamentare. Il centro? Per Petruccelli della Gattina era «la zattera della Medusa»: il posto dove «tutti i naufraghi sono aggrappati, tutti i superstiti, tutti gli sbandati». Il “centro” aveva va preso le forme «di una specie di ospizio degli in validi per chi non ha più forze, ma, non per questo, resta senza speranze».
Anche la sinistra pur ridotta ai minimi termini, sembrava un arcipelago di anime in pena e contava «mazziniani e garibaldini, autonomisti e federalisti, oltremontani e liberi, dipendenti e indipendentisti» Avevano un loro peso «i misteriosi e gli indecisi, gli imbronciati e gli smarriti, gli scettici, i dottrinari, i pretendenti, gli esploratori in campo nemico e gli uccelli di passaggio».
Gli uccelli di passaggio era la definizione che riguardava «alcuni dell’estrema sinistra che, risoluti di passare con la destra, si sono - come dire? - arrestati a mezzo sui banchi della sinistra». Qualche nome? «Chiaves e Gallenca, quantunque il secondo abbia già fatto un passo avanti e ora segga al centro».
Gli scritti di Petruccelli della Gattina vennero pubblicati in un libro significativamente intitolato “ I moribondi di palazzo Carignano”.
Torino appariva l’unica città ringalluzzita dall’unità: il resto del Nord era avvilito, il Sud violento
Il Parlamento di fresca nomina, che avrebbe dovuto trovare in se stesso gli entusiasmi per rinnovare la società italiana, si presentava decrepito negli atteggiamenti, ancor prima di mettersi all’opera. Il nuovo Stato sembrava incamminarsi verso il futuro più per forza d’inerzia che per convinzione.
Torino appariva l’unica città ringalluzzita dopo il Risorgimento e si preparò ad accogliere i deputati nazionali, riverniciando di fresco i palazzi. Le zone di Vanchiglia e lungo il Po erano diventate un immenso cantiere edile in vista dei futuri insediamenti. Il rione di San Salvario stava attrezzandosi per diventarne il centro nevralgico.
Il sindaco Nomis di Cassilla dovette pubblicare una delibera per impedire ai negozianti di pulire il marciapiede davanti le loro botteghe usando secchiellate d’acqua. Il selciato diventava sdrucciolevole come una pista di pattinaggio e troppa gente si era già rovinata le gambe. Quasi contemporaneamente, fu bandito il concorso per l’assunzione di un gruppo di vigili urbani: i candidati dovevano essere alti almeno un metro e 60, avere un’età fra i 25' e i 36 anni e conoscere la grammatica.
I MALFATTORI DI TORINO
Il centro della città restava addobbato con grandi stendardi, archi di trionfo, bandiere. Davanti alla stazione di Porta Nuova venne sistemato un giardino con immense aiuole di fiori. In mezzo una fontana preparata dalla “Società delle Acque Potabili” che era stata da poco fondata.
La borghesia comprava pianoforti per accondiscendere a una moda improvvisa e, naturalmente, d’importazione. Lo stile dei mobili era il rococò. Le signore usavano la cipria al profumo di violetta o di paciulì.
L’unico inconveniente era che troppa gente, non sempre per bene, arrivava in città. C’era chi approfittava di una distrazione per sfilare il portafoglio dalle tasche dei distratti. «L’ardire dei mariuoli arrivò al punto di tentare di derubare due poliziotti».
Torino, da capoluogo anonimo di una regione decentrata, era stata promossa a capitale nazionale: se ne sentiva degna. Ma il resto d’Italia sembrava deluso. Il Nord più avvilito che rabbioso. Il Sud più violento che smarrito.
I milanesi protestavano per le nuove tasse che dovevano pagare e si lamentavano che l’amministrazione austriaca - efficiente per definizione - fosse stata sostituita da quella sabauda che, movendosi a spanne girava a vuoto senza essere in grado di rispondere alle esigenze della gente. I telegrammi impiegavano dieci giorni per giungere a destinazione e, in quel febbraio 1861, non erano stati ancora onorati gli stipendi del mese prima. Era stata fatta tutta questa rivoluzione per sostituire Vienna con Torino? Via gli Asburgo per vedersi governare dai Savoia?
«A ogni nostra osservazione - fu il rilevo del giornale La Perseveranza - viene in risposta un rimprovero: siete municipalisti, siete lombardi, siete fanciulli impauriti dallo spettro del piemontesismo. Noi lamentiamo il disordine nelle aziende pubbliche, la perdita di alcune istituzioni rese un tempo floride per matura esperienza, la precipitosa applicazione di leggi non consigliate dalla necessità. Che dicono? Siete lombardi, municipali, politici di campanile».
LOMBARDIA PENALIZZATA
Impossibile - secondo il quotidiano - contestare che le assunzioni venissero decise soltanto su raccomandazione piemontese e non per pubblico concorso. Vietato evidenziare l’errore di trasferire a Torino la direzione delle ferrovie Lombarde. Inutile e per certi versi, pericoloso sostenere che solo nella capitale si potesse decidere sull’idoneità degli insegnanti di francese.
In Lombardia i giornali lamentavano un nuovo pesante carico fiscale e l’ncapacità dei burocrati a soddisfare i cittadini
Il Pungolo giornale del pomeriggio, senza peli sulla lingua, volle sottolineare le incongruenze della riforma sulla giustizia. «Torino ha posto mano al sistema sconnettendolo. Ha alterato l’economia dell’insieme è ci permettiamo di aggiungere: inconsultamente!».
I nobili che prima avevano un ruolo di rilievo nella società si sentivano messi da parte dai “parvenus” piemontesi. I borghesi storcevano il naso perché il cambio della moneta li penalizzava. I lavoratori avevano da faticare dalle 10 alle 14 ore in officina per non ricavare nemmeno i soldi dell’affitto. In compenso, al Monte di Pietà, dovettero rinforzare l’organico assumendo nuovo personale per fare fronte alle 136mila operazioni l’anno. I progressisti, lombardi erano soliti scherzare: «Semm sota i tudosch» per criticare un giogo politico e amministrativo che li soffocava. A
indipendenza ottenuta, cominciarono a sussurrare: "Semm sota i piemuntes», per dire che non era cambiato nulla e che, semmai la illiberalità, rimasta intatta, sembrava anche più fastidiosa per l’illusione, inutilmente coltivata, di affrancarsi sul serio.
(12 bis - Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì 27 ottobre 2009, pag. 12 - 13 -14.
domenica 25 ottobre 2009
Quella tangente di Mazzini inaugura il malcostume di una Italia disonesta
RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
La sollecitazione del maestro del “pensiero e azione” si riferiva agli interessi di Adriano Lemmi, che partecipava alle manovre per l’assegnazione dello sviluppo delle ferrovie del Sud e servi per finanziare “Il popolo d'Italia”, un giornale napoletano di tendenza filo-repubblicana.
«lo soltanto vi dico che mentre altri farebbe suo prò di ogni impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non la sua». Nero su bianco, scritto su lettera intestata e autografato con la firma di Giuseppe Mazzini il quale, ricercato dalla polizia come rivoluzionario aveva difficoltà a partecipare personalmente alle riunioni ma poteva “indirizzare” la discussione affidandosi a una quantità di amici che non gli mancavano. Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi erano i destinatari e si affrettarono ad accontentare l’amico in esilio.
Difficile sostenere con certezza che questa fu la prima tangente dell’Italia finalmente unita. Allora -come oggi - la corruzione non veniva certificata con timbri e marche da bollo. Tuttavia, in questo caso, il documento c’è ed è inequivoco. Accettando qualche margine di approssimazione, non è impossibile sostenere che gli affari sporchi sono cominciati con quella lettera di raccomandazione.
I FINANZIERI D’ASSALTO
I militari stavano ancora concludendo l’occupazione del Sud Italia, sventrando a cannonate le residue resistenze borboniche, e i finanzieri d’assalto già si preoccupavano dei guadagni della “ricostruzione”.
Le nuove lire del Regno cominciavano a circolare ed era necessario darsi da fare per incrementare il proprio patrimonio personale. La nuova classe dirigente non era stata educata agli scrupoli di coscienza.
Dunque, si trattava di realizzare un progetto di ferrovia. Il nuovo paese, così allungato per un migliaio di chilometri, aveva urgenti necessità di collegamenti che, all’epoca, potevano essere assicurati soltanto dal treno.
Gli storici dedicarono al problema poche riflessioni. E quelle poche furono utilizzate, soprattutto, per sbeffeggiare i Borbone. Il Governo del Regno delle Due Sicilie, nell 1839, aveva inaugurato l’era della locomotiva facendo costruire - novità assoluta - il tratto ferroviario fra Napoli e Portici: ma i commentatori presentarono l’evento come se si fosse trattato di una specie di Luna Park principesco. E, infatti, chi con maggiore, chi con minore ironia, evidenziarono il divertimento della famiglia reale che scorrazzava, in treno, sulle rotaie. Al contrario, Cavour, lungimirante come sempre, aveva investito una percentuale consistente del bilancio dello Stato per dotare il Piemonte di una efficiente rete ferroviaria, utile, soprattutto, per il trasporto delle merci.
LE DUE DORSALI FERROVIARIE
In realtà, i treni, in Settentrione, correvano soprattutto per iniziativa dei governi austriaci mentre il Sud stava realizzando il progetto per la creazione di due dorsali: una, partendo da Brindisi, sarebbe arrivata a Pescara per spingersi verso Ancona e Bologna, mentre l’altra dalla Calabria avrebbe dovuto raggiungere Roma e, seguendo la costa tirrenica, Genova e Torino. Alcuni tratti erano già stati realizzati e alcune città già in collegamento fra loro: Torre del Greco, Castellammare di Stabia, Capua, Sparanise. Si poteva arrivare fino a Salerno e Caserta. Tuttavia, procedendo con quel ritmo, si sarebbe impiegato troppo tempo. Per questo i Borbone lanciarono un bando internazionale per affidare i lavori alle imprese più attrezzate e assicurarsi un risultato più rapido. Prima dell’invasione dei garibaldini, gli appalti erano stati assegnati a una famiglia di banchieri francesi, i Talabot, i quali avevano trasmesso i piani definitivi per l’intervento e comunicato di essere nelle condizioni di avviare la realizzazione degli impianti. La guerra impedì che si entrasse nella fase esecutiva con quei progetti e quelle soluzioni ma il problema delle ferrovie doveva essere risolto.
L’affare delle strade ferrate faceva gola a molti banchieri e imprenditori, non solo italiani: un’offerta in proposito giunse anche dal ricchissimo James Rothschild
Si trattava di un impegno colossale che, tradotto in moneta, significava una montagna di denaro da spendere e da guadagnare.
Il più lesto di tutti fu il banchiere toscano Augusto Adami che chiese udienza al generale Garibaldi (appena entrato a Napoli con le camicie rosse e con la camorra). Vantò i finanziamenti che aveva assicurato all’impresa dei Mille e, con quel titolo di credito, passò subito all'incasso, accaparrandosi l’incarico di costruire le strade ferrate.
Analoghi interessi coltivava anche Adriano Lemmi, ma pensava di raggiungere l’obiettivo attraverso l’amicizia di Francesco Crispi, egualmente potente ed egualmente amico. Dovette fare la consueta anticamera davanti alla porta del suo ufficio ma, quando gli riuscì di incontrarlo a quattr’occhi, non ebbe tentennamenti ne reticenze. Rivendicò che il nuovo Governo - ancorché provvisorio - doveva affidare a lui lo sviluppo dei treni del Sud. Non gli mancavano gli argomenti per convincere gli amici. Aveva in tasca una lettera di accredito che, da sola, valeva un tesoro. Giuseppe Mazzini, l’asceta incorruttibile - tutto casa, massoneria e agitazioni da provocare per tutta la Giovane Europa - gli aveva affidato un messaggio importante.
LA RACCOMDAZIONE DELL’ “APOSTOLO”
«Fratello - scriveva l’apostolo tricolore - il portatore della presente, Adriano Lemmi, è nostro buonissimo amico da vent’anni e fece considerevoli sacrifici per la Causa». Causa con la “C” maiuscola per nobilitare con un fine ideale la volgarità che doveva patrocinare. «Ei viene per trattare cosa importante concernente la concessione fatta di recente all’Adami per le vie ferrate. Uditelo, vi prego, spiegherà, egli, ogni cosa». Ed ecco le poche righe vergate a mano con calligrafia spigolosa che, senza giri di parole e, anzi con una schiettezza persino ingenua, proposero il patto scellerato fra politica ed economia. «lo soltanto vi dico che dove altri farebbe suo prò di ogni impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non la sua». Cassa con la “C” maiuscola per conferire dignità al «finanziamento illecito» sotto il peso del quale precipitarono tutti i partiti della prima Repubblica.
In quel 1860 non c’era problema. Come ignorare un appello del maestro del “pensiero e azione”?
In poche ore Garibaldi e Crispi si incontrarono e decisero con la rapidità dei generali in assetto di guerra. Non si conoscono i dettagli della discussione ne l’ardore con cui sostennero le ragioni delle rispettive clientele. Il risultato, però, fu equo: metà per Adami e metà per Lemmi. Del resto, i due erano anche cognati e, in passato, non avevano avuto problemi per accordarsi in società.
TANGENTE PER UN GIORNALE
La tangente, almeno in parte, fu anticipata e servì per finanziare “Il popolo d’Italia”, un giornale da stampare a Napoli che si segnalò per la sua impronta filo-repubblicana ma senza i toni esasperati della polemica contro la monarchia regnante.
Il progetto per le nuove ferrovie comportava un impegno finanziario di tutto rispetto. Era necessario tracciare un reticolato di 6mila chilometri di rotaie. Si dovevano sborsare 210 milioni di lire per l’acquisto dei terreni, la sistemazione della base stradale e gli impianti fissi. Altri 30 milioni sarebbero stati utilizzati per il materiale mobile, le stazioni e i caselli. Poi il personale dirigente, gli operai, i manovali, i tecnici e gli ingegneri. In tutto si trattava di un bilancio prossimo al miliardo e mezzo: valuta 1861. Per realizzare l’impresa, occorrevano cantieri e strutture che i due banchieri, in società, non possedevano e che non riuscirono a procurarsi. L’accoppiata toscana, alla fine, fu costretta a rinunciare all’incarico. La nuova Italia consumò qualche milione in consulenze e sopralluoghi, anticipi e preventivi, rilievi topografici e analisi geologiche ma non si arricchì nemmeno di un metro di strada ferrata. Che fare? Il Governo, utilizzando il viatico delle scuse postume e la diplomazia delle mille promesse, tentò di recuperare i francesi Talabot che, però, non accettarono di rientrare nel gioco.
L’OFFERTA DI ROTHSCHILD
La soluzione sembrò a portata di mano quando, nella primavera del 1862, i responsabili dei lavori Pubblici ricevettero un’offerta per le concessioni delle ferrovie del Sud. Interessavano a James Rothschild, uno degli uomini più ricchi al mondo, rampollo di una famiglia che, da generazioni. faceva parte dell’Alta Società, al di qua e al di là degli Oceani. La proposta sembrava vantaggiosa e, dopo tutto il tempo perduto, non sembrava il caso di aggiungere ulteriori ritardi.
Fu il toscano Pietro Bastogi ad assicurarsi la concessione ferroviaria con la creazione di una società dal capitale di 100 milioni
La proposta avrebbe dovuto essere illustrata in Parlamento per l’approvazione definitiva ma all’ultimo momento venne tolta dall’ordine del giorno e venne accantonata senza spiegazioni.
Che cos’era successo? Che c’erano in ballo cifre rilevanti che lasciavano immaginare guadagni superbi. Perché favorire un capitalista straniero?
Ci pensò Pietro Bastogi, imprenditore di fiuto. In una manciata di giorni, senza andare troppo per il sottile con il “conflitto di interessi”, riuscì a costituire una società che potesse proporsi per la realizzazione delle ferrovie meridionali. Venne depositato un capitale di 100 milioni che, in ultima analisi, vennero coperti dalle tasse degli italiani. Quanto ai progetti veri e propri si pensò di procedere con il sistema del subappalto da dividere in tre gruppi: il Credito Mobiliare, i signori Brassery e un manipolo di imprenditori lombardi riuniti in una specie di cooperativa. Bastogi avrebbe ottenuto 210.000 lire per chilometro come previsto dai capitolati d’appalto ma ne avrebbe pagate soltanto 198mila. L’utile doveva essere diviso in due parti: metà a Bastogi e l’altra metà da utilizzare fra i subappaltatori e tutto quel groviglio di interessi che gravitava intorno. In fondo, si trattava di un’idea da nulla ma chi la inventò fu in grado di guadagnare senza fatica e di assicurare un reddito a tutti coloro che svolgevano le opere del tutto parassitarie della mediazione.
I Bastogi, una famiglia di commercianti originari di Civitavecchia ma trapiantati da tempo a Livorno, iscritti d’ufficio negli albi della nobiltà a diciotto carati, erano quelli che, senza rischiare nulla, avrebbero ottenuto i maggiori vantaggi. Anche in passato, proprio l’opportunismo aveva consentito loro di accumulare ricchezze, facendoli traghettare, indenni, fra i ribaltoni della politica.
PIETRO BASTOGI DOPPIOGIOCHISTA
Un esempio soltanto. Al momento della costituzione dello Stato italiano, proprio a Pietro Bastogi venne affidato il dicastero delle Finanze. Svolgendo quell’incarico dovette predisporre il “Gran Libro del debito pubblico” nel quale confluirono tutte le voci in passivo dei bilanci dei vari regni prima dell’unificazione. Nel documento comparvero anche gli obblighi contratti dall’ex Granduca di Toscana e, fra tante cifre di debiti, anche un prestito contratto per finanziare la repressione dei moti carbonari e patrioti del 1849. I quattrini gli erano venuti proprio dai Bastogi che avevano garantito il prestito con le loro fideiussioni.
Come non rilevare la spaventosa contraddizione del nuovo Stato? L’Italia, frutto di una rivoluzione, accettava di rimborsare una cospicua somma di denaro che era stata utilizzata proprio per contrastare i primi sussulti di quel processo innovatore.
Come non sottolineare la disinvoltura dell’intellighenzia politica di allora? Il Bastogi, uomo di Governo, firmò gli atti che assicurarono al Bastogi, finanziatore della repressione, di recuperare il denaro che aveva speso in attività anti-governativa.
Due deputati Francesco Guerrazzi e Nino Bixio - si opposero al riconoscimento, trascinarono al voto contrario tutti i colleghi della Sinistra radicale del tempo ma restarono in minoranza perché gli uomini della Destra, largamente più numerosi, si espressero favorevolmente. Certo, Bastogi non fece bella figura e quando, alla morte di Cavour (1861), si trattò di realizzare un rimpasto di Governo, si trovò senza ministero.
Questi episodi, avvenuti nell’arco di pochi mesi, avrebbero dovuto produrre qualche sospetto sulla trasparenza delle operazioni che portavano alla costituzione di una società per i lavori nel Meridione d’Italia. Ma la politica dimentica in fretta. Il Parlamento, senza troppo cavillarci sopra, e anzi con valutazioni di genuino entusiasmo, approvò la proposta del banchiere di Livorno. Non si preoccuparono nemmeno di salvare le apparenze. Nessuno volle notare che, nell’elenco dei sottoscrittori, c’erano ripetizioni e una quantità di imprecisioni tali da meritare almeno qualche riflessione sulla precipitazione con cui era stata concepita l’impresa. Non vennero fatte obiezioni tecniche ne si pretese correttezza nelle procedure. Non si accorsero (o probabilmente non si ritenne utile eccepire) che il domicilio provvisorio della neonata società era indicato presso l’abitazione torinese del deputato Bartolomeo Feltrami.
QUELLA RELAZIONE ENTUSIASTA
Il presidente della commissione per i Lavori Pubblici presentò una relazione così smaccatamente favorevole da sfiorare l’apologia. Il presidente della Camera, Urbano Rattazzi, in un singulto di obiettività, si senti in dovere di domandare: «Ma lei parla in nome del popolo che l’ha eletta o come relatore del signor Bastogi?».
Qualche settimana dopo il voto favorevole venne nominato il consiglio di amministrazione della società nella quale, su 22 membri, si trovarono 14 deputati scelti con oculatezza, in modo che fossero rappresentati gruppi, famiglie e potentati economici trasversali al potere politico.
Pietro Bastogi figurava come presidente. I suoi “vice” erano Bettino Ricasoli e Giovanni Baracco, l’uno eletto a Firenze e l’altro a Catanzare. L’ufficio del segretario venne affidato a Guido Susani, onorevole di Sondrio e quello di direttore tecnico all’onorevole di Ceva di Cuneo, Severino Gattoni. Per rendere ancora più appetibile il progetto, Bastogi si impegnò nella realizzazione di uno stabilimento, a Napoli, per la produzione delle locomotive. Il prototipo e l’antenato delle varie Alfa-sud.
L’intento - allora, come sempre - era quello di creare dei nuovi posti di lavoro anche se; poi, il risultato proponeva esborsi esorbitanti di capitali dello Stato.
UNA STRANA CONFESSIONE
Di questa vicenda degli appalti per le ferrovie, un paio d'anni più tardi, emersero altre circostanze inquietanti. Per caso.
Persino la commissione d’inchiesta istituita per far luce sullo scandalo delle strade ferrate negò qualsiasi addebito
Un giorno l’avvocato di Torino Domenico Giuriati e un deputato toscano, Eugenio Pelosi, si incontrarono nell’alloggio di un altro deputato, Paolo Sinibaldi, che stava sdraiato nel suo letto, in preda a un attacco di febbre e divorato dalla paura di finire nei guai. Alcuni parlamentari, alla Camera, stavano preparando un’interrogazione a proposito di una fuga di notizie in seguito alla quale erano stati svelati alcuni segreti di Stato. Il documento e il dibattito che avrebbe provocato potevano procurare serie conseguenze politiche per Sinibaldi, che tutto indicava come il responsabile dell'affare.
Pelosi aveva voluto incontrarIo per suggerirgli di dimettersi in modo da non essere obbligato a rispondere in Aula delle questioni che gli ponevano. L’avvocato Giuriati lo aveva accompagnato perché, come uomo di legge, poteva individuare quali fossero le possibili conseguenze, civili, penali e amministrative.
Di quell’incontro, Giuriati lasciò una testimonianza scritta nel suo diario, che rappresenta un documento straordinario per comprendere il malcostume politico che, con noncuranza e, quasi, con neghittosità, si era impadronito della classe dirigente del paese.
Dunque. L’avvocato non riferì delle questioni che riguardavano la violazione del segreto di Stato per cui oggi, a proposito di quella specifica vicenda, non è possibile esprimere un giudizio. Quello che conta è lo scambio di battute che seguì e che Giuriati riportò fedelmente.
«Bada, peraltro - interloquì Pelosi rivolto al collega - bada che le maggiori sciocchezze non si commettono per le proprie convinzioni ma per interesse»,
La replica fu risentita e volendo portare maggiori contributi alla sua difesa finì per diventare potentemente auto-accusatoria. «Interesse io? - Sinibaldi si appoggiò con i gomiti sul materasso per tenere la schiena più dritta - Interesse io che ho sempre lavorato come un cane, contento di tutto, senza bisogni e senza desideri...?! Io che non sono mai stato cosi ricco come adesso che sono insegnante all’Università! Io che, grazie a Dio, ho sempre avuto una reputazione di probità e disinteresse da non temere confronti!». E, quasi per rafforzare con una prova tangibile l’elogio di se stesso, aggiunse: «Se non fossi stato tale, credete che mi sarebbe stato affidato l’incarico di distribuire ai deputati le partecipazioni per le Ferrovie Meridionali?».
Pelosi, alla toscana, non si trattenne dal pretendere un chiarimento. «Che? Che?».
«Certo! Le ho distribuite io!». La conferma venne in modo definitivo e senza margini di ambiguità. «Se avessi avuto sete di ricchezza - sottolineò - maneggiando ben 3 milioni e trattando con più di trenta deputati, che non mi sarebbe stato facile approfittarne? Se volevo lucrare?».
LA PROVA DEL MISFATTO
L’avvocato intervenne. «Ma si rende conto di quello che dice? Sta parlando di cose vere?». Sinibaldi non accettò di essere contraddetto. «La prego di non dubitare».
Alzò un poco la voce, forzando sulla sua malattia, come per sottolineare che non c’era da discutere sull’argomento. «Ma ha le prove di quanto afferma?».
«Sicuramente! Ho le cifre, i nomi e le date...tutto...Tutto meno le ricevute degli atti notarili».
Dovette pronunciare l’ultima frase con accenti involontariamente beffardi. La ricevuta della tangente non l’ha mai firmata nessuno.
Anche la magistratura si distinse per l’assoluta mancanza di iniziativa di fronte alla denuncia di un testimone
L’vvocato Giuriati registrò che la conversazione «andò avanti per un paio di ore» ancora ma, subito dopo essersi congedato dai suoi interlocutori, non rincasò e si presentò direttamente al procuratore del Re; Onorato Vigliani che conosceva da tempo. Era un uomo di legge, era venuto a conoscenza di particolari che configuravano reati di qualche spessore e non se la sentì di coprirli con un silenzio complice e menefreghista. Firmò un esposto-denuncia in piena regola che però restò insabbiato nei cassetti della magistratura.
Tuttavia, gli sforzi per nascondere la controversia non impedirono la circolazione delle chiacchiere che passarono da un salotto all’altro per finire velatamente accennate anche sui giornali antigovernativi. Fu un deputato toscano a parlarne per la prima volta in Parlamento: Antonio Morandini di Montecatini invocò una commissione d’inchiesta che facesse luce sulla vicenda degli appalti delle ferrovie perché le maldicenze che si ascoltavano in proposito danneggiavano l’immagine stessa delle istituzioni. Un intervento pacato e prudente. «Urge provvedere! - scandì le parole -Se non giungiamo a compiere (e presto...) l’arginatura, avremo lo straripamento della corruzione. I nomi più illibati sono fatti segno al sospetto e non resta reputazione intatta. Dobbiamo occuparcene».
Una buona fetta del Parlamento, i ministri e quel galantuomo di re ne avrebbero fatto volentieri a meno ma, di fronte a una richiesta pubblica, ufficiale e perentoria, era difficile rispondere negativamente.
LA COMMISSIONE D'INCHIESTA
La commissione d’inchiesta venne nominata ma furono scelte con cura le persone destinate a farvi parte, in modo che il risultato finale fosse assicurato ancor prima di iniziare il lavoro. Nel collegio d’indagine vennero chiamati i deputati che avevano più interesse a insabbiare la pratica e l’unico rappresentante dell’opposizione, Benedetto Musolino, non venne messo nella condizione di esercitare i suoi diritti.
Tre settimane per approfondire la questione e una dozzina di pagine per darne conto. In questo modo, il 15 luglio 1864, Giovanni Lanza, scelto come presidente della commissione, fu in grado di rassicurare la Camera sulla correttezza dei colleghi. Tutto a posto, tranne - forse - una piccola irregolarità da attribuirsi all’onorevole di Sondrio, Guido Susani il quale, per alcune «prestazioni» di ordine professionale, aveva incassato dal banchiere Bastogi 675mila lire che gli erano state liquidate agli sportelli della Weiss-Norsa. La commissione non senti la necessità di verificare i motivi del passaggio di denaro e la qualità della collaborazione che l’onorevole aveva assicurato. Questo comportamento venne rubricato alla voce «cattiva condotta morale personale».
E la denuncia dell’avvocato Giuriati? Venne naturalmente accertato che esisteva una denuncia alla Procura di Torino ma sottolinearono che non c’era stato un seguito giudiziario. Non ritennero di contestare al magistrato alcuna accusa come, per esempio, l’omissione di atti d’ufficio e non ritennero nemmeno di chiedergli perché - secondo lui - quelle informazioni giurate erano buone soltanto per il cestino.
Giuriati si presentò alla commissione e, nei dettagli, riferì il contenuto della conversazione alla quale aveva assistito ma i suoi ricordi, pur cosi lucidi e circostanziati, non vennero ritenuti sufficienti per aprire un caso.
Forse occorreva la testimonianza diretta di Sinibaldi il quale avrebbe potuto confermare o smentire o chiarire. Il deputato era ancora ammalato, debilitato da quella stessa febbre dell’altra volta. Aveva solo cambiato materasso: non più quello frugale della mansarda di Torino ma quello nobile della sua residenza a Borgo a Mozzano. Non poteva presenziare alle sedute del Parlamento e i “grandi inquisitori” si risparmiarono le noie e le fatiche di un viaggio scomodo fin nel cuore della provincia di Lucca.
Decisero di affidarsi alla burocrazia. Presero carta e penna e scrissero per disteso tutte le contestazioni ma con il doppio garbo dovuto a un collega onorevole e a una persona che - fino a prova contraria - è un innocente. Spedirono il plico e attesero la risposta che, con la celerità della Posta Regia, arrivò. Sinibaldi vergò quattro pagine gronde di retorica e di buoni sentimenti e concluse «sul suo onore» di essere completamente estraneo a quella faccenda. Non trovarono motivo per non credergli sulla parola. La verità non la voleva nessuno e la maggior parte pensava che non c’era nemmeno da sforzarsi per cercarla.
L’Italia stava crescendo.
(12 -Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato 24 ottobre 2009, pag. 12 - 13 -14.
venerdì 23 ottobre 2009
Palermo e Napoli conquistate con il tradimento e l’aiuto mafioso
RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
Grazie alle camicie rosse venne incoraggiata la partecipazione della malavita organizzata, che scese in campo per soccorrere i vincitori e che, per la prima volta, entrò direttamente e per la porta principale nelle istituzioni italiane: insomma, “picciotti” e “capibastone” patrioti...
Dunque, per conquistare il Regno delle Due Sicilie, si poteva contare sull’aiuto “peloso” di Vittorio Emanuele II e Cavour, sul consenso “pratico” dell’intelligence inglese, sul “contributo” della massoneria di Edimburgo e sul tradimento dei vertici militari borbonici: Mancava ancora qualcosa? Venne incoraggiata la partecipazione della mafia che scese in campo per soccorrere i vincitori e che, per la prima volta, entrò di rettamente e per la porta principale nelle istituzioni italiane. Le grandi battaglie di oggi contro la malavita organizzata sono più difficili e più contorte anche perché, 150 anni fa, non si andò troppo per il sottile ad accreditare i banditi, vestendoli con il patriottismo tricolore.
UN ATTACCO SENZA DISCIPLINA
Dopo lo sbarco a Marsala, la prima battaglia combattuta avvenne il 15 maggio 1860. I libri di storia indicano il luogo dello scontro a Calatafimi. In realtà, Calatafimi era abbastanza distante. Senza correre il rischio di apparire pignoli, ma pretendendo qualche precisione e volendo mettersi d’accordo - almeno! - con la carta geografica, lo scontro avvenne a “Pianto Romano”: “Pianto” nel senso che era stata realizzata una piantagione di vite a “Romano”
Garibaldi si alzò di buon mattino per bere il caffé. Le cronache - non si sa quanto compiacenti - registrarono che «fischiettava come un innamorato». Dall’altra parte il generale Francesco Landi, con i suoi settanta anni compiuti, le varici alle gambe, la schiena in subbuglio e i calli ai piedi, non potendo correre il rischio di montare a cavallo, raggiunse in carrozza il luogo destinato al combattimento. Con calma. Aveva impiegato sei giorni per coprire una trentina di chilometri.
Le camicie rosse si lanciarono all’assalto con impeto ed entusiasmo, brandendo quei loro fucili del '48, a pietra focaia, che si inceppavano con una percentuale superiore al 50 per cento. Non sparavano ma erano molto pesanti.
L’attacco avvenne senza ordine ne disciplina - alla garibaldina - sul pendio di nove terrazze che andava scalato per raggiungere i nemici, piazzati lassù, ad aspettarli. I Mille dispersero il loro ardore in quella sgroppata in salita che tagliò loro le gambe e il fiato. Chi riuscì ad arrivare sul colmo della collina, si trovò con la lingua di fuori, penzoloni, le gambe molli e gli occhi che - per la fatica - vedevano doppio. Sentirono la tromba che ordinava la ritirata e convennero - i patrioti - che era meglio così: impossibile continuare nell’assalto. Solo che, in quelle condizioni di spossatezza, non era nemmeno semplice fare dietrofront. Appoggiati alle canne dei loro inutili fucili, i pochi atleti capaci di saltare fin sulla gobba di “Pianto Romano”, tentavano di recuperare il controllo del fiato che pompava nei polmoni in modo anche preoccupante. E si meravigliarono, quando si accorsero che il segnale di abbandonare la contesa non era stato lanciato dallo loro tromba ma da quella borbonica che ordinava ai nemici di tornare indietro. Impossibile?
IL TRADIMENTO PER 14MlLA DUCATI
Si disse che il generale Landi contrattò il suo tradimento per 14mila ducati ma che, alla fine della guerra, non riuscì a intascare il denaro perché il documento di credito era stato falsificato. In banca, davanti al cassiere che glielo comunicava, venne colto da un malore dal quale non si riprese più. Le conseguenze di quell’ictus lo uccisero in poco meno di un anno. I cinque figli, però, non ebbero problemi: entrarono tutti come ufficiali nell’esercito dei Savoia e, per un motivo o per l’altro, riuscirono anche a imbandire una discreta carriera nelle gerarchie militari.
Calatafimi venne presentata come il teatro di un duello collettivo ed epico - quello del “qui si fa l’Italia o si muore” - dando a intendere che si trattò di uno scontro all’ultimo sangue. Si affrontavano non soltanto due eserciti ma due civiltà. Da una parte un mondo ormai superato dalla storia - quello dei Borbone - con uomini in giubba nera, simboli di inefficienze e crudeltà, con la testa rivolta al passato, incapaci di immaginare un futuro di progresso, inefficienti, pigri e persino vigliacchi. Dall’altra parte: il sol dell’avvenire con volontari - in camicia rossa - consapevoli protagonisti del “nuovo” che si presentava all’orizzonte, ricchi di altruismo e di ambizioni coraggiose, con una carica aggiuntiva di romanticismo e di energia, di altruismo e patriottismo, desiderosi di cancellare un’epoca oscurantista per entrare, di slancio, nell’era moderna.
NESSUNA VERA BATTAGLIA
Se così fosse stato, si sarebbe trattato di un conflitto epocale dove ognuno giocava tutto quello che aveva a disposizione e spendeva anche l’ultima goccia del proprio sangue. In realtà, una battaglia vera, degna di questo nome, non venne combattuta e, dunque, non ci fu. Solo l’avanguardia borbonica impegnò i garibaldini e diede loro filo da torcere: ma poi rimasero senza rifornimenti e senza munizioni e dovettero abbandonare le posizioni per raggiungere il grosso delle truppe che se ne stava con le armi al piede ad aspettare un ordine di combattimento che non venne mai lanciato.
I garibaldini fecero una corsa podistica - certo faticosa - ma non si scontrarono per davvero con i contingenti del Borbone.
Infatti, il bilancio dello scontro fu di trenta morti e non tutti per colpa del conflitto. Alessio Maironi, per esempio, aveva una gamba che, colpita di striscio, buttava sangue in modo preoccupante. Un compagno gli schiacciò una moneta di rame sulla ferita per tamponargli l’emorragia ma gli procurò un’ infezione di tetano che lo ammazzò in un amen. Luigi Martignoni, invece, decise di farla finita da solo. Era tormentato da una cancrena che gli faceva patire le pene dell’inferno e che, ormai, lo lasciava in pace soltanto se faceva ricorso a pesanti dosi di oppio. Ottenne che gliene lasciassero usare una quantità sufficiente per addormentarsi una volta per tutte, non risvegliarsi più e finire di tribolare.
In campo avverso le perdite furono «leggermente inferiori». I napoletani «ordinatamente, manovrando con garbo e prudenza, iniziarono a retrocedere: si sganciarono dagli avversari per riprendere la marcia in colonna».
LA MAFIA TIFA PER I "ROSSI"
La recita di “Pianto Romano”, insignificante sul piano strategico, risultò però importante perché consenti a tutti - ma proprio tutti - di comprendere che i giochi erano fatti. Alcuni capi della mala-Sicilia - i mafiosi - osservarono quel primo scontro fra eserciti, tifando per i “rossi” ma senza prendere ancora posizione diretta nella contesa.
Nelle settimane precedenti, erano stati avvicinati da Giovanni Corrao il quale era, contemporaneamente, un patriota e un uomo d’onore, capace di contatti solidissimi con tutti quelli che, in Sicilia, erano in grado di adoperare uno schioppo. Proprio lui era riuscito a convincere “gli amici” e gli amici degli amici che occorreva abbandonare il vecchio regime per facilitare la nascita di quello nuovo.
“Picciotti” e “capibastone” con i loro uomini erano pronti e avevano anche riferimenti organizzativi: Pietro Tondù di Carini doveva occuparsi dei rifornimenti; Giovanni Battista Marinuzzi, pure di Carini, teneva la cassa; Giuseppe Bruno di Belmonte Mezzano aveva l’incarico di assicurare i collegamenti fra i gruppi; Salvatore La Barbera e Salvatore Nicolò Ramacca avevano il compito di gestire l’arsenale
Si mossero in migliaia dai 35 paesi della provincia di Palermo e vennero divisi in squadre di venti uomini ciascuna. Stefano Triolo, “barone” di Sant’Anna, fece per conto suo con 350 armati. Il fratello Giovanni arrivò qualche giorno dopo con altri 250 uomini.
Tutta gente disinvolta. Erano in grado di stare a cavallo senza impaccio, portavano lo schioppo di traverso sulle spalle e, nella cintura dei pantaloni, riuscivano a infilare una quantità di rivoltelle e pugnali. Cesare Abba li descrisse come «montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre e certi occhi che paiono bocche di fucili». Non avevano prestato servizio militare ma avevano frequentato la scuola che insegnava come ammazzare il prossimo. Ognuno aveva conseguito risultati appropriati. Spettatori al primo assalto, si unirono ai garibaldini per soccorre efficacemente i vincitori.
Da quel momento, la strada per la conquista del meridione d’Italia, che già appariva abbastanza comoda, poteva considerarsi del tutto in discesa.
CONQUISTA IN DISCESA
Giovanni Corrao presentò a Garibaldi Turi Miceli, coordinatore dei “picciotti” e capo della mafia di Monreale. Fu lui a trascinare all’assalto di Palermo gli ufficiali dello stato maggiore delle camicie rosse che sembravano titubanti. I Borbonici erano tanti, con armamenti adeguati, dotati di buona organizzazione e protetti da sbarramenti di difesa che sembravano difficili da sbaragliare. Tranquilli - li rincuorò - era tutto a posto. I “nemici” non avevano dato battaglia fino a quel momento e non avrebbero cominciato a combattere allora.
A Palermo furono lasciate incustodite le carceri della Vicaria e 2mila tagliagole si lanciarono in vendette sanguinose
I garibaldini potevano decidere, con calma, quando muoversi. Lo fecero il 27 maggio (1860), di mattina, alle sette. Seguirono i sentieri utilizzati dai contrabbandieri e si trovarono dentro le mura della città.
La difesa era stata affidata al generale Giovanni Lanza. Del suo passato si ricordava soltanto l’episodio di quando precipitò da cavallo, in alta uniforme, durante una parata ufficiale, davanti al suo re, direttamente in una pozzanghera. Tenne 18miIa uomini asserragliati a Palazzo Reale, impedendo loro di partecipare al combattimento. Il generale Cataldo, con 4mila uomini, senza avere ancora sentito l’esplosione di una schioppettata, abbandonò la posizione che gli era stata assegnata e si ritirò più indietro. L’ospedale venne perduto per «viltà del comandante e per il tradimento del cappellano». Lasciarono incustodite le carceri della Vicaria: 2mila tagliagole che erano in prigione per rispondere di delitti anche efferati - arrabbiati e inferociti - uscirono dalle celle e si lanciarono all’inseguimento delle divise borboniche perché massacrando gli uomini, credevano di prendersi una rivincita sui presunti soprusi che la legge aveva inflitto loro.
SI SALVI CHI PUÒ
Si salvi chi può...Masini Chinnici di Misilmeri, “il boia borbonico” che, in passato, non era andato per il sottile con i prigionieri politici, cambiò casacca e cominciò a combattere dall’altra parte con identico impegno e accresciuta determinazione. Anche questo atteggiamento finirà per diventare una costante nei periodi di crisi e di transizione.
Non si riesce a comprendere bene come sia possibile: eppure, a ogni ribaltone politico, una quantità di militanti lascia la prima linea dei gruppi che - si capisce - sono destinati a perdere per acquisire posizioni di rilievo nelle fila di quelli che stanno per vincere. Come facciano a cambiare casacca così lestamente e, soprattutto, com’è possibile che gli altri li accolgano come fossero i salvatori della patria resta un mistero e, tuttavia, è impossibile non registrare che da 150 anni rappresentano una costante che ritrova puntuali conferme.
Nel 1860, le bande garibaldine e mafiose scorrazzarono per la città e i borbonici restarono arroccati, in attesa di non si sa che cosa. Anche a Giuseppe Buttà, fedele duosiciliano, testimone di quegli avvenimenti e divulgatore dei suoi ricordi, risultò impossibile spiegare tutta questa idiozia bellica, senza dar credito alla voce che indicava per ciascuno il prezzo del tradimento.
Certo, non tutti. Qualcuno che voleva combattere per davvero e combattere per vincere c’era anche fra i Barbone. Le camicie rosse non avevano più un colpo da sparare e sarebbero state facilmente sbaragliate. Il generale Colonna e il generale Sury stavano contrattaccando vittoriosamente, ma vennero fermati proprio mentre stavano sfondando i nemici da un lato esterno per prenderli in mezzo e massacrarli sotto un tiro incrociato. Dall’altra parte della città, il maggiore Ferdinando Del Bosco stava impegnando i nemici con successo ma pure lui dovette mettere arma al piede. I capitani Bellocci e Nicoletti fecero una corsa per raggiungerlo e - sudati come non era chic per un ufficiale di rango - gli comunicarono l’ordine di non proseguire. Era stata firmata la tregua e non si poteva più combattere.
I BORBONICI DISERTARONO
Lanza - copiando il compare Landi di “Pianto Romano” - con la guarnigione al completo, chiese agli inglesi di proporre un tregua perché lui, personalmente, era a disagio nel trattare con quel filibustiere di Garibaldi. Gli risposero che, essendo diplomatici in terra straniera: non avevano ne titolo ne autorità per proporsi come mediatori in una contesa di quelle dimensioni. Perciò il super-generale borbonico fu costretto ad arrangiarsi scrivendo personalmente a “Sua Eccellenza il Generale Garibaldi”, tutto in maiuscolo, per segnalare la più prona deferenza.
L’esercito duosiciliano venne imbarcato sulle navi che riportarono i soldati a Napoli. Sulla banchina del porto un esercito in piena efficienza stava abbandonando il campo. Un soldato fece un passo in avanti. «Eccellenza... - richiamò l’attenzione del comandante - vè quanti siamo...?! - E ce ne andiamo via.;.?!». Il generale rispose: «Zitto ubriacone...torna al tuo posto!».
Quando Lanza arrivò a Napoli, il re Borbone gli proibì di sbarcare e pretese che venisse confinato nell’isola di Ischia in attesa del processo della Corte Marziale. In realtà, il processo non ebbe la possibilità di svolgersi è il vecchio generale si consolò; risposandosi, in attesa che finisse tutta quella buriana.
LA FEDELTÀ DEI SOLDATI
I soldati, a differenza degli ufficiali, restarono fedeli al giuramento che avevano fatto al Borbone e non accettarono facilmente di servire, i nuovi padroni. Il giornale francese satirico “Charivari” pubblicò una vignetta nella quale comparivano un soldato borbonico, un sottufficiale e un’ ufficiale. Il primo era stato disegnato con la testa di un leone; il secondo d’asino e il terzo, la testa, non l’aveva proprio ma dalle tasche gli uscivano mazzette di denaro.
Negli alti gradi era un rincorrersi fra chi tradiva, chi dava le dimissioni e chi dava le dimissioni per tradire più in fretta.
I comandanti della flotta cominciarono a consegnarsi ai piemontesi portando in dote i pezzi di nave che comandavano e gli ufficiali portarono i loro soldati ad arrendersi.
A rinforzare la file di Garibaldi arrivarono quasi contemporaneamente, il conte Amilcare Anguisola che comandava la pirofregata a due ruote “Veloce” e la contessa Della Torre, che era stata fra le protagoniste delle Cinque Giornate di Milano, aveva dato il suo contributo nei mesi della Repubblica Romana e, ovviamente, non poteva mancare nel meridione d’Italia. Il capitano consegnò se stesso e la sua nave che venne ribattezzata con il nome di “Luigi Tukoy”, uno dei Mille volontario ungherese morto nel corso di un assalto e perciò promosso al rango di eroe. La nobildonna, invece, stivali speroni e cappello con piuniazzo (come nei film di cappa e spada) prese a frequentare gli accampamenti dei soldati, denunciando i suoi spostamenti con il cigolare della sciabola che teneva appesa al cinturone con un fermaglio evidentemente arrugginito.
Sembrava un’opera buffa ma la Sicilia era perduta e Garibaldi si prese anche la Calabria nel senso che glie la lasciarono prendere.
Il piroscafo “Torino”, agli ordini di Bixio, s’incagliò sulla spiaggia ma nessuno impedì lo sbarco.
L’ammiraglio Salazar che, pure, doveva controllare una porzione di mare relativamente modesta e un tratto di spiaggia ancora più piccolo, riuscì a fare meglio del collega, ammiraglio Acton, a Marsala. Condusse la sua flotta così lontano dalla zona strategica da impedirsi di vedere le camicie rosse.
Garibaldi, sul “Franklin”, attraversò i quindici chilometri dello stretto e approdò a Reggio. Nel suo memoriale scrisse che, «aiuto» che gli era stata assicurato dalle navi borboniche e «la protezione discreta» di quelle inglesi era stato «decisivo». Dietro di lui, Bixio sul “Torino” fece forzare le macchine al massimo della potenza e andò a incagliarsi sulla spiaggia. Non si sa se il timoniere era lo stesso che portò il “Lombardo” nella sabbia di Marsala. La differenza con il primo sbarco consistette nel fatto che, questa volta, nessuno si accorse di centinaia di uomini obbligati ad arrancare un paio d’ore a mollo per togliersi da un bastimento inclinato sul fianco di trenta gradi.
LE POSIZIONI ABBANDONATE
Fu l’unica fatica imprevista che dovettero affrontare. Guadagnata la terraferma, ebbero il solo problema di marciare in avanti. Da soli, i nemici si toglievano di torno per non dare fastidio.
Il generale Alessandro Nunziante rinunciò all’incarico di comandante, lo scrisse al re Borbone e si ritirò dalla guerra per partecipare ai pranzi organizzati dagli inviati del conte di Cavour.
Il generale Gullotti, prima ancora che i nemici comparissero da lontano, aveva già telegrafato, de scrivendo la sua situazione come «disperata». Peggio: «Senza pronto intervento, qui, vi è poco da sperare».
Il generale Melendez si fece circondare a bella posta e si arrese con 3mila uomini davanti a una squadra di garibaldini che non sapevano come fare per custodire, da soli, tutta quella gente.
Si arrese anche il generale Briganti che però pagò cara la sua decisione. A cavallo, in borghese, si imbatté in un gruppo di reduci borbonici che lo riconobbero e lo investirono di improperi. Cominciò uno: «Traditore-e!» e tutti gli altri lo seguirono: «Tra-di-tore...tra-di-to-re...». Una fucilata lo abbatté e i soldati, rabbiosi per l’umiliazione di ritirarsi senza combattere, lo spogliarono, trascinarono il cadavere per strada e lo fecero a brandelli.
II generale Ghio firmò la rinuncia al comando ma, siccome non venne sostituito prontamente, si consegnò con tutti gli uomini del reparto al garibaldino Cosenz.
Chi non accettò il nuovo corso prese la strada di Gaeta da dove pensava di difendere un principio e un ideale, prima ancora che un regno. Gli altri si attrezzarono per approfIttare del nuovo corso.
L’eroe dei due mondi (con le camicie rosse) si avviò a passo spedito verso Napoli dove il ministro dell’interno borbonico Liborio Romano si apprestava ad assumere l’incarico di ministro dell’interno sabaudo-garibaldino. Ovviamente, il passaggio di consegne fra se e se e la gestione del nuovo corso richiedevano una quantità di spregiudicatezza e di cinismo che, non mancarono. Per essere certo di sottrarre Napoli al controllo del legittimo re e consegnarla nelle mani di un altro venuto dal Nord, si fece aiutare dagli uomini “di rispetto” .
L’OSTERIA DEI BRIGANTI
Si trattava dei gentiluomini abituati a frequentare la bettola di Marianna De Crescenzo che tutti conoscevano come la “sangiovannara” perché era nata a San Giovanni a Teduccio sulla via di Portici. Quell’osteria, fino a poche settimane prima, era l'indirizzo della criminalità meglio organizzata e meno accomodante ma, in poco tempo, riuscì a trasformarsi nel covo dei patrioti più accesi. Marianna, ingioiellata e inghirlandata come un albero di Natale, attese Garibaldi in prima fila. Con lei Rosa “la pazza” (che doveva essere capace di qualche stranezza), Luisella “lun’a giorno” (perché incontrava i clienti in una stanza dove le candele stavano sempre accese) e Nannarella “quattro rane” (perché con pochi soldi - quattro per l’appunto - accontentava cittadini e forestieri).
Attorno a loro, personaggi già di per se appariscenti, parenti e famigli con la faccia sfregiata ma con la mano lesta.
I Mille si erano alleati con la mafia in Sicilia? E con la camorra a Napoli!
Garibaldi, cui tributavano il titolo di “invitto”, sfilava in città su una carrozza che ospitava anche Demetrio Salazaro, il frate francescano Giovanni Pantaleo, Agostino Bertani e il conte Giuseppe Riccardi.
La “onorata società” sistemò i suoi uomini tutt’intorno per assicurare il servizio d’ordine. In vista Michele “o chiazziere” che, normalmente, si preoccupava di ritirare le tangenti degli ambulanti che piazzavano il banchetto delle loro mercanzie. Sull’altro lato, “o schiavutiello” che sembrava un saraceno. In mezzo, Salvatore, fratello di Marianna, “Tore e Crescenzo”. Ognuno con una fitta corte di uomini fidati, schierati in modo da assicurare ordine e protezione. Nella cintola, il pugnale che era servito per scannare cristiani e rapinarli di quello che avevano: la fascia tricolore annodata sul braccio e la coccarda appuntata sulla giubba.
Guardiani della malavita, padrini dell’Unità d’Italia.
(11 bis - Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di mercoledì 21 ottobre 2009, pag. 12 - 13 -14.
domenica 18 ottobre 2009
La spedizione dei Mille: le truffe, i massoni e la regia britannica
RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
I Mille che partirono da Quarto erano il triplo (abbondante) dei 300 “giovani e forti che sono morti” al seguito di Carlo Pisacane ma ugualmente male in arnese. Non vinsero per la forza del loro spirito, non per la loro capacità di usare le armi, non per una strategia tattica sopraffina e nemmeno per l’audacia delle loro azioni.
Testimonianza di parte piemontese, quella che ha vinto. «Quando si vede un regno di sei milioni di abitanti e un’armata di 100mila uomini, vinto con la perdita di 8 morti e 18 storpiati...chi vuol capire...capisca.....» I numeri che Massimo d’Azeglio comunicò per lettera al nipote Emanuele erano approssimativi per difetto ma, quali che fossero le esatte statistiche belliche, gli risultava chiara che una battaglia vera non c’era stata.
SI RITIRARONO PER L’ORO
Testimonianza di parte borbonica, quella che ha perso: «Scrivo perché mi sdegna vedere travisato il vero». Un affidale napoletano che restò a Messina durante i nove mesi d’assedio, poco dopo la fine delle ostilità, nel 1862, pubblicò un diario di ricordi firmandosi, prudentemente, con le sole iniziali: G.L. « I napoletani si sono ritirati davanti a Garibaldi non per magia ma per l’oro. E questo perché mille non possono batterne l00mila e uno non può batterne cento».
Apparve evidente - fin dall’ inizio e a chiunque - che esisteva una storia letteraria accreditata dall’intellighenzia - alla quale bisognava far mostra di credere - cui se ne contrapponeva un’altra che ribaltava completamente valori e giudizi ma che non era nelle condizioni di lambire le carte ufficiali per correggerne i contenuti più vistosamente retorici.
Come sarebbe finita la spedizione di Garibaldi era chiaro fin dal momento della partenza. Non lo sapeva la maggior parte degli uomini in camicia rossa. Loro credevano di partecipare a un’azione di “commando”, destinata a suscitare una rivolta popolare. Fra tutti, erano intellettualmente onesti - questo sì - perché pensavano che si trattasse di un’iniziativa pericolosa e mettevano in conto che avrebbe potuto anche finire male. Però, chi riteneva che per un ideale valesse la pena rischiare qualche cosa, si rendeva conto che quello era il momento di giocarsi tutto il coraggio che era rimasto. Potevano anche sembrare incoscienti, ma era, impossibile non riconoscergli le stimmate dei patrioti veri.
UN GRAN NUMERO DI MASSONI
Vi partecipò Giuseppe La Masa, 35 anni, veterano dell’ insurrezione del 1848-1849, quando girava con un elmo d’argento e il pennacchio bianco. C’era Gerolamo Bixio, genovese, che tutti chiamavano “Nino” e che il Padreterno aveva dotato del cuore di un leone. Durante la difesa della "Repubblica Romana", aveva fatto prigioniero un ufficiale francese, rincorrendolo a cavallo e agguantandolo per i capelli. Era un pezzo grosso della loggia massonica “Trionfo Ligure” dove era iscritto con tessera numero 105. Si trovava in buona compagnia di “fratelli”.
C’era Francesco Crispi, avvocato con studi in cospirazione. repubblicano inquieto con gli ideali roventi ma poi, sempre più conservatore, fino a diventare primo ministro (colonialista e un po’ forcaiolo) con la monarchia. Crispi s’era portato anche la quasi moglie Rosalie Montmasson: «Fiera savoiarda e disinteressata, piena di coraggio, ardita più di quanto in femmina possa accadere, dall’animo vivace, anzi, di fuoco, dalla parola pronta, nata alla libertà e all’indipendenza». Faceva la stiratrice, a Torino, ma sentiva la vocazione della rivoluzionaria.
C’era il sottotenente Giuseppe Bandi, che si era guadagnato un posto nell’esercito piemontese di Alessandria per aver partecipato all’insurrezione che portò il Granducato di Toscana ai Savoia. Allora, studente di giurisprudenza all’università di Pisa, portava il cappello “alla come mi pare” e scriveva versi taglienti di ispirazione foscoliana con i quali voleva dare fuoco alla dinastia di Leopoldo. Non c’era Luigi Càroli: non per mancanza di coraggio ne perché ritenesse quell’impresa povera di gloria. Si trattava - come dire? - di sensibilità. Meglio saltare un giro, per quella volta. Assente giustificato.
La compagnia che, il 5 maggio 1860, si imbarcò a Quarto per scendere verso la Sicilia, poteva sembrare folkloristica: 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri. Sessanta vennero definiti “possidenti” ma non fu possibile trovare un solo contadino. Ovidio Sermone, fuoriuscito da Salerno, compariva come “prete”; Luigi Gusmaroli come “ex prete”; Giuseppe Sirtori come “prete spretato”. In Sicilia si aggiunse frate Giovanni Pantaleo. Non era difficile morire in pace.
SCAPPAVANO DA MILLE GUAI
Gente anche strana, se vogliamo, su quella banchina del porto, all’ora di partenza: un prestigiatore, un “apparatore di chiese”, un girovago, un causidico. Anche lo scultore Giobatta Tassara che aveva preso se stesso come modello per un Mosè da costruire nel cimitero di Staglieno.
Quasi tutti stavano scappando da qualcuno o da qualche cosa: mogli abbandonate, amanti infuriate, figli illegittimi, conti da regolare con la giustizia e non sempre per ragioni politiche. I ricchi partirono per il gusto dell’avventura. Gli squattrinati perché così, almeno, si assicuravano la pagnotta e un bicchiere di vino. Ognuno aveva obiettivi diversi e, forse confusi, ma quasi tutti alla vigilia della guerra cercarono l’amore di altre sottane: non a caso, appena arrivati a Genova, prima ancora di incontrare l’eroe dei due mondi, si infilarono nelle case di tolleranza della città - le cronache vollero precisare “legali” -, facendo registrare l’over booking.
Simone Schiaffino aveva diritto di portare l’orecchino al lobo dell’orecchio perché aveva doppiato Capo Horn. I bergamaschi di Francesco Nullo lo guardavano come se fosse stato un extraterrestre. Stefano Turr veniva da oltre cortina, silenzioso, altero ma elegante. Fra quella gente sbrindellata, non rinunciava a cilindro e redingote, come fosse uscito da un ritratto di Rubens. Si infilò nel gruppo anche un giornalista francese, Maxime du Camp, e con lui un altro giovanotto pallido e timido, con il taccuino sempre in mano, a prendere appunti: Ippolito Nievo.
Tentarono di imbarcarsi una quantità di ragazzini e i genitori si precipitarono alla partenza per trattenerli a schiaffi. Uno riuscì a convincere la madre a lasciarlo andare: Riccardo Luzzato, 16 anni, partito con il cuore gonfio di emozione ma destinato a scoppiare al primo assalto. Altri tre: Gaspare Tibelli, Angelo Vai e Luigi Adolfo Biffi - 17, 16 e solo 14 anni - ingannarono i parenti, nascondendosi sui vapori diretti in Sicilia. Nemmeno loro arrivarono al compleanno successivo. Il più giovane aveva 11 anni, Peppino Marchetti, di Chioggia, ma lui stava per mano a papà il quale, volendo seguire Garibaldi ma non sapendo a chi affidare il figliolo, prese la decisione di portarselo dietro, come si fosse trattato di una partita di caccia. Il più vecchio risulterebbe Tommaso Parodi, genovese che di anni, ne aveva 69.
Attorno a quella compagnia di incoscienti, prese consistenza un clima di simpatica solidarietà e qualcuno tentò subito di approfittarne. Troppi ideali, solennemente affermati, servirono per coprire speculazioni, traffici, imbrogli e interessi del tutto personali.
LA TRUFFA DEI PIROSCAFI
La prima truffa - alla storia e al bilancio dello Stato - riguardò la vicenda dei piroscafi che servirono per il trasporto dei Mille. La versione più eroica riferì dei contatti avvenuti fra garibaldini e l’amministratore della società di navigazione Rubattino, Giovan Battista Fouché. Gli offrirono 100mila lire per una nave ma quel brav’uomo di patriota, dopo qualche minuto di riflessione a testa bassa, comunicò che avrebbe masso a disposizione il vapore “Piemonte”, senza che fosse necessario pagarlo. Solo una precauzione: occorreva fingere di rapinarlo perché, se la spedizione avesse avuto esito negativo, non poteva correre rischi giudiziari e provocare conseguenze diplomatiche anche importanti. Detto fatto! E poiché, al momento di partire, si accorsero che una sola nave era troppo piccola, gli rubarono anche il “Lombardo”.
Per cent’anni, almeno, l’episodio fu ricordato come un esempio di disinteressato altruismo politico. Poi, poco per volta, cominciarono a emergere particolari contraddittori, sufficienti a costruire un’altra verità, meno nobile e ancor meno intrepida. Risultò che Fouché fu licenziato perché si era permesso delle iniziative personali, avventate e controproducenti. Ma, a festa finita e a vittoria ottenuta, il proprietario della compagnia di navigazione, Raffaele Rubattino, fu tra i primi ad accreditarsi ai nuovi governanti come benemerito per ottenere appalti e prebende. Scrivendo a Bixio reclamò la sua parte. «Caro amico, sento ogni giorno proclamare la massima che chi ha sofferto per il paese debba essere ricompensato. Io non pretendo aver meriti personali ne aspiro a compensi di sorta. Parmi però giusto che un compenso sia dovuto alla mia società il che, più che a me, profitterebbe tanti interessati che vi posero fiducia». Fouché, naturalmente, restò disoccupato e per lavorare dovette cambiare città.
Questa versione che, di per se, consente di degradare i campioni del patriottismo al livello degli approfittatori non è, ancora, tutta la verità. Più recentemente è stato possibile scoprire che i due barconi furono acquistati, con regolare certificato firmato, controfirmato e arricchito da ogni genere di garanzie fidejussorie.
Rubattino incontrò a Modena il re, Vittorio Emanuele II, e il conte di Cavour ai quali chiese che gli fosse garantito il pagamento delle due navi. L’atto venne stipulato, la sera del 4 maggio 1860, alla presenza del notaio Gioachino Vincenzo Baldioli. Il professionista disponeva di un ufficio adeguato al numero 12 di via Santa Teresa, a Torino, ma considerando la delicatezza di quella transazione, preferì ospitare i contraenti nella sua casa di via Po. Mancavano poche ore al momento in cui la spedizione dei Mille doveva prendere il largo.
C’erano Giacomo Medici in rappresentanza di Garibaldi, l’acquirente, e lo stesso Rubattino, il venditore. La certezza che il debito sarebbe stato onorato venne dagli uomini dei servizi segreti piemontesi: l’avvocato Fernando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, che avevano avuto l’incarico dall’ufficio dell’Alta Sorveglianza Politica e dal Servizio Informazioni del presidente del Consiglio. Per evitare chiacchiere, Vittorio Emanuele II e Cavour restarono a Modena, ostentando la loro presenza in riunioni e salotti, dove si fecero notare a bell’apposta.
IL RE E CAVOUR SAPEVANO TUTTO
Il Governo, dunque, era consapevole e responsabile deI progetto d’invasione del Sud Italia. Non solo: era parte attiva nel preparare la spedizione e, per la verità, cominciava anche a mettere mano al portafoglio per finanziare l’invasione.
Il documento del notaio venne redatto con le caratteristiche di uno “speciale atto di vendita temporaneo” riguardo due navi che venivano cedute da Rubattino al Governo del Regno di Sardegna che a sua volta doveva girarle a Garibaldi. L’atto venne sottoposto al, più rigoroso segreto di stato. Per il pagamento le parti in causa concordarono, seduta stante e in contanti, una caparra consistente dalla quale, tuttavia, non è possibile determinare l’ammontare. Per il saldo finale ci sarebbe stata una tolleranza di 180 giorni.
Le barche si staccarono da Quarto, la notte del giorno dopo, 5 maggio 1860. Alcuni trattenevano le lacrime, altri agitavano le mani per sa1utare altri ancora canticchiavano inni patriottici. Negli uffici della compagnia di navigazione contavano i soldi.
I giornali dell’epoca, dapprima, restarono all’oscuro di notizie o, più probabilmente, finsero di non averne. Poi, con le indiscrezioni che arrivavano via mare, cominciarono a sollecitare i lettori a favorire l’impresa da Garibaldi. La Gazzètta del popolo, per esempio, quotidianamente, pubblicò gli esempi di patriottica prodigalità dei torinesi: «Teresa Dominaci, ostetrica della Reale Famiglia, contribuì con 5 lire». La Società operaia di mutuo soccorso «raccolse fra i soci 319,25 lire, cifra consegnata a Barra, presidente», Il Municipio stanziò un contributo di 10 lire. E, da Buenos Aires, mittente Giuseppe Bartarelli, arrivò un vaglia di 100 lire.
I circoli liberali, le associazioni tricolore e le dame della Torino bene raccoglievano contributi per comprare armi e munizioni e mettevano insieme chilometri di bende per curare i feriti. Le ricevute furono regolarmente compilate e nei bilanci comparvero, una per una, spuntate con il segno blu della matita.
FONDI GESTITI ALLA GARIBALDINA
Venne inviato tutto a Genova in via Nuovissima (che oggi è via Cairoli), all’indirizzo dell’abitazione di Agostino Bertani che non si era imbarcato per poter provvedere, da terra, all’amministrazione dei fondi destinati alla spedizione dei Mille. La sua gestione fu un po' “alla garibaldina”. Per questo, al momento del rendiconto, si affastellarono polemiche e sospetti sui tanti che ci avevano marciato facendo la cresta sulle spese.
Quattrini, in effetti, ce n’erano una montagna. L’esistenza di un piccolo tesoro è stata documentata dallo studioso Giulio De Vita il quale, dopo una meticolosa ricerca condotta negli archivi delle logge massoniche scozzesi di Edimburgo, è in grado di dimostrare che venne organizzata una colletta che raggranellò denaro coinvolgendo, addirittura, le comunità inglesi del Nord America. Vennero raccolti tre milioni di franchi francesi convertiti in un milione di piastre turche, la moneta utilizzata nei porti del Mediterraneo per transazioni finanziarie, gli accordi commerciali, i pagamenti “in nero” e gli affari poco puliti.
Si trattava di una specie di dollaro (o di euro) dei mercanti dell’Ottocento che impediva di individuarne la provenienza e quindi - se si doveva mantenere il segreto - evitare di risalire al creditore o al debitore. Quel denaro, che equivale a una trentina di milioni di euro attuali, venne consegnato a Garibaldi e servì per corrompere i comandanti dell’esercito nemico che, con la tasche piene, decisero di suonare la ritirata, dichiarandosi sconfitti, quando sarebbe stato troppo facile attaccare e vincere.
GLI INGLESI COINVOLTI
Semmai è da spiegare il perché di questo impegno degli inglesi. Da tempo, oltre Manica, si impegnavano per il fallimento del Governo del Regno delle Due Sicilie. La ragione principale risaliva a un contenzioso commerciale, esploso agli inizi degli anni Quaranta che aveva duramente contrapposto i Borbone e gli inglesi.
Tra Londra e Napoli esisteva una controversia pluriennale sulla questione dello fruttamento dello zolfo in Sicilia
La Gran Bretagna, attraverso le famiglie dei suoi capitani d’azienda, aveva acquisito un’influenza spropositata nelle province attorno a Palermo. Fra le imprese che gestivano con maggior profitto c’era quella dell’estrazione delle zolfo le cui miniere, sull’isola, erano considerate fra le più ricche e, essendo a cratere a cielo aperto, anche fra le più facili d sfruttare.
Lo zolfo, allora, valeva quanto l’uranio oggi. Alimentava le industrie e, soprattutto, l’industria della guerra. Più della metà del prodotto estratto in Italia meridionale prendeva la strada del mare, diretto a Londra. In un primo tempo, i Borbone avevano garantito agli inglesi una sorta di monopolio. Poi, avendo compreso che quegli accordi commerciali risultavano dannosi per la loro famiglia e per lo Stato che rappresentavano, tentarono di introdurre qualche elemento di concorrenza e affidarono una parte di concessione ai francesi di Marsiglia della compagnia Taix e Aycard.
Fu lord Palmerston il primo a protestare per un atto che considerava una specie di esproprio: contestò con il tono del padrone che esige piuttosto che con quello del governante che chiede ragione. I rapporti si guastarono. Re Ferdinando, alla festa, del suo compleanno, con una quantità di ospiti stranieri, non salutò la delegazione di Londra e riservò le sue attenzioni ai russi, lasciando intendere che là sarebbero approdati gli interessi politici ed economici del sud Italia.
La guerra commerciale rischiò di diventare guerra guerreggiata. Vennero mobilitate le flotte e almeno 12mila soldati si tennero pronti a intervenire. Alla fine, per le premure degli stati della “Santa Alleanza”, un giurì d’onore venne incaricato di dirimere la controversia. Venne pronunciata una specie di sentenza in base alla quale occorreva ripristinare le condizioni di monopolio industriale a favore degli inglesi. I Borbone vennero anche condannati a risarcire il danno.
Quel contenzioso, risolto sulla carta, lasciò uno strascico di rancore e diffidenza che un documento di timbri e di firme non poteva cancellare. I rapporti fra i due Governi erano del tutto compromessi. Gli inglesi stavano aspettando il momento buono per favorire un’iniziativa - qualunque iniziativa- che togliesse di mezzo il Regno del Sud, diventato per loro inaffidabile.
Il QUADRO INTERNAZIONALE
Qualche storico crede di spiegare l’impegno inglese con ragioni religiose. Loro, anglicani per fede di stato non tolleravano gli eccessi cattolici dei sovrani di Napoli, così fedeli al Papa da essere proni a ogni liturgia. E Londra non aveva sopportato la repressione che fra il 1825 e il 1832 venne ordinata in Sicilia nei confronti dei “fratelli” affiliati alle logge massoniche.
Altri studiosi, invece, evidenziano l’importanza del quadro internazionale che si andava delineando. Il Piemonte aveva stretto rapporti di ferro con la Francia, che era pesantemente intervenuta per consentire a quel piccolo Stato di allargarsi in Lombardia. Per l’Inghilterra nei confronti di Torino, si trattava di dimostrarsi un’alleata altrettanto affidabile in modo da non perdere l’influenza diplomatica che era guadagnata nel sud. Il meridione d’Italia, in vista dell’apertura del canale di Suez, avrebbe aumentato la sua importanza strategica e sarebbe diventato uno snodo nevralgico di prima importanza.
Può darsi che tutte queste ragioni, intrecciandosi, si siano fuse dando luogo al vero motivo del contendere. Certo, le questioni in cui contano i soldi sono quelle che - da sempre - valgono di più. Comunque, da tempo si era creato un clima di attesa, in vista dell’occasione propizia.
Nel 1856, a Parigi, si incontrarono Cavour e lord Clarendon, inviato speciale di lord Palmerston. A nome del Governo di sua Maestà e della massoneria venne indicato che le intenzioni di Londra erano, inequivocabilmente, quelle di dare una, spallata al trono dei Borbone. Gli ambasciatori James Hudson, a Torino ed Henry Elliot, a Napoli, erano al corrente dei progetti e si stavano impegnando per la loro realizzazione.
LE MANOVRE DI TORINO
Controprova: Cavour, per lettera, all’ammiraglio Persano spiegò che si doveva tentare «di far esplodere una sommossa anti-borbonica», suggerendo anche il nome del possibile capo della rivolta: «Un amico di lord Russel, di lord Palmerston e dell’ambasciatore Elliot». In altri messaggi sempre indirizzati a Persano, Cavour invitò a mettersi in contatto con l’ambasciata inglese e, in particolare, con un certo Edwin James, esponente della sinistra liberale anglosassone, in Italia su incarico del Governo, «persona in grado di prendere in loco gli opportuni contatti per favorire il trionfo della causa italiana».
Con gli appoggi politici internazionali, la complicità non dichiarata ma efficiente di Torino e i soldi necessari all’impresa, Garibaldi aveva ragionevoli certezze di vincere prima ancora di cominciare a combattere. C’erano tutte le assicurazioni per metterlo di buon umore. L’eroe dei due mondi, durante la traversata, non pensò alle battaglie ma a comporre poesie. Voleva scrivere una marcia che solennizzasse quel momento. «Lo straniero mia terra calpesta \ il mio gregge macella, il mio onor\ vuol strapparmi, ma un ferro mi resta \ un acciar per ferirlo nel cuor». Per l’accompagnamento musicale immaginava i ritmi del coro della Norma di Bellini che gli sembrava sufficientemente grandioso e abbastanza deciso.
l Mille viaggiarono senza intoppi e già questo ha del miracoloso. l comandanti napoletani che avevano l’ordine di fermarli non riuscirono a intercettarli forse perché portavano le loro navi da tutt’altra parte. E la flotta piemontese che, per ragioni diplomatiche, doveva far finta di essere contraria all’impresa, aveva disposizioni di inseguire Garibaldi senza correre il rischio di raggiungerlo.
LE MANOVRE SUI MARE
I nocchieri in camicia rossa erano giusto un grado di tenere il timone nelle mani. Infatti, a Marsala, al momento dello sbarco, uno dei due vapori riuscì a centrare l’entrata del porto mentre l’altro si infilò in un cumulo di sabbia, incagliandosi. Il piccolo - piccolo? - incidente obbligò a correggere la trame del teatro che era già stato preparato. Lo sbarco doveva avvenire lì, e lo sapevano tutti quelli che, in qualche modo, erano parte del complotto. L’ammiraglio inglese aveva spedito due navi, l’Argus, al comando di Winnington-Ingram e l’lntrepid del capitano Marryat, che stavano all’ ancora, giusto di fronte a Marsala. La flotta borbonica - era previsto - doveva andare a caccia di fantasmi, senza trovarli, per comparire sul luogo dello sbarco abbastanza in ritardo per non potere intervenire efficacemente ma sufficientemente a tempo per non perdere del tutto la faccia.
Marsala, luogo dello sbarco, era una specie di colonia inglese: altra prova di quanto Londra fu coinvolta
Invece, per colpa delle secche, che imprigionarono la chiglia del vascello incursore, lo “Stromboli”, orgoglio della marina duosiciliana, si trovò in vista di Marsala troppo presto. Fu indispensabile inventarsi sui due piedi un’altra sceneggiatura per compensare le ore che quell’imbecille al timone del “Lombardo" aveva fatto guadagnare.
Lo “Stromboli” navigava alle dipendenze del comandante Guglielmo Acton, giovane di belle speranze, antica famiglia di origini scozzesi, abituato al tè alle cinque del pomeriggio e padrone di uno splendido inglese, con pronuncia appropriata e senza inflessioni dialettali. Da giorni stava dando la caccia ai “filibustieri” in camicia rossa ma, vedendo quella gente - in camicia rossa, per l’appunto - che tentava di guadagnare la riva aprendosi un varco nell’acqua, - chi boccheggiando con l’onda alla gola, chi un po’ più in là, con il mare sui fianchi e chi, finalmente, verso la spiaggia, con i polpacci sprofondati nella sabbia -, venne colto alla sprovvista. Non gli era chiaro che cosa stesse accadendo e dovette chiedere all’lntrepid «chi fossero quei signori bagnati». Inglesi? «No, non erano inglesi». Tuttavia, dalla nave britannica, ritennero necessario precisare che «molti ufficiali della Union Jack erano presenti a terra».
Marsala era una specie di colonia di Londra: ci abitava, addirittura, il console. Dunque, con raro senso di cavalleria militare, il napoletano pregò che «venisse inviato un dispaccio perché gli uomini della corona venissero richiamati a bordo, in quanto le sue artiglierie erano sul punto di aprire il fuco contro i drappelli che stavano sbarcando». Che, nel frattempo, continuavano ad affannarsi con masserizie sulle spalle, a mollo, fradici e disorientati.
Detto fatto. Venne chiesto alle autorità diplomatiche e in particolare al vice console Cousins di alzare la bandiera della Gran Bretagna su case e negozi appartenenti ad inglesi, dentro e nei dintorni della città. Il tutto con calma e fermezza in modo che le cose venissero fatte per bene. All’inglese.
Sembra il racconto di una gag di spettacolo d’avanguardia ed è invece la testimonianza oculare e firmata del comandante Winnington-Ingram che, anni dopo, quando lo ritenne opportuno, pubblicò le sue memorie autobiografiche. L’autore precisò che, quando il volume stava per essere dato alle stampe, Acton «ricopriva l’incarico di Ammiraglio e Ministro della marina italiana» . Ma anche se non fosse stato così brillantemente promosso, ci voleva tanto per capire che era un venduto?
«Intanto, il comandante Marryat, il signor Cousins e io ci imbarcammo su una lancia per recarci a bordo della nave napoletana. Volevamo pregare il comandante di dirigere bene il tiro dei suoi cannoni». Certo, agli inglesi piacque lo charme del comandante Acton. «Ci parve molto impressionato per la responsabilità che la sua posizione gli creava ma promise di non danneggiare la proprietà britannica, osservando che i suoi cannoni erano puntati in direzione del molo, contro i banditi». Si stavano allontanando per tornare sulla loro nave quando la fregata napoletana lasciò partire una tempesta di proiettili». Finalmente anche l’ultimo di quei poveracci con le ossa bagnate si era tolto dai piedi e si poteva sparare a volontà.
Fuoco! E senza risparmiare proiettili! «I colpi ci passarono sopra la testa ma il tiro era corto e non raggiunse il molo». Il bilancio finale: un ferito da una scheggia e un cane ammazzato.
L'impresa dei mille partiva sotto una buona - buonissima - stella.
(11 - Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato 17 ottobre 2009, pag. 12 – 13 -14.
venerdì 16 ottobre 2009
Giuseppe Garibaldi, rozzo e senza principi saldi, esordì come ...schiavista
RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
Pronto a predare donne di tutte le età e condizioni sociali - fino al punto di macchiarsi dell’assassinio del marito di Anita - il “condottiero Nizzardo” si lasciò sempre trascinare non da una ideologia politica coerente, ma dal senso di avventura che lo portò a incappare in iniziative dall’esito disastroso
Giuseppe Garibaldi? Rubava i cavalli e quando lo catturarono, in Sud America, gli tagliarono un orecchio, secondo il codice gaucho che puniva con la legge del taglione chi toccava gli animali degli altri. Dovette farsi crescere i capelli e lasciarli cadere sulla guancia per nascondere il padiglione che gli mancava.
Fra i tanti mestieri che praticò saltuariamente, fra un’avventura e l’altra, accettò di fare lo schiavista. Riempiva la stiva della nave di cinesi che dovevano lavorare il “guano” destinato a essere utilizzato come fertilizzante. Si segnalò come comandante di buon cuore, rispetto ai colleghi che trattavano quella povera gente peggio delle bestie: i suoi schiavi arrivavano “in buona salute” e persino “grassottelli”.
UCCIDE IL MARITO DELLA BELLA ANITA
E per conquistarsi l’amore di Anita non andò per il sottile: ammazzo direttamente il marito che gli intralciava la strada. Un giorno, a bordo della nave “Rio Pardo” vide, con il cannocchiale, il viso della donna destinata a condividere fino alla morte (sulla spiaggia di Ravenna) la sua vita di guerrigliero. Lo confessò lui stesso, con toni involontariamente trucidi, raccontando la storia del suo innamoramento che compare nell’Edizione nazionali degli scritti di Garibaldi. «Io non avea mai pensato al matrimonio». E, tuttavia, la mancanza di un legame solido e formale non significava rinunciare alla soddisfazione dei sensi. Anzi: «Avea bisogno di chi mi amasse...e subito!». Bastava guardarsi in giro. «Con quel pensiero, dall’alto del cassero, io volgea lo sguardo a terra. Scorgea donne occupate in domestici trattenimenti ma una giovane mi attraeva sopra le altre. Ordinai perciò che mi sbarcassero e mi avviai verso quella casa con una di quelle soluzioni che non falliscono».
II marito della prescelta? Alcuni sostennero che quell’uomo, Manuel Duarte, un calzolaio, si era arruolato nell’esercito dei reazionari. Lontano dalla famiglia e al servizio di un’ideologia meschina, non poteva che attendersi di perdere la moglie. Altri, tuttavia, rettificarono: combatteva, sì, ma con i garibaldini con i quali venne ferito e, in quei giorni, stava in un letto d’ospedale per farsi curare una ferita abbastanza seria. In questo caso l’artigiano non avrebbe avuto colpe “morali”: sarebbe stato, piuttosto, l’amore a cambiare le carte del destino. In realtà, a leggere la prosa dello stesso Generalissimo, si comprende che non sono vere né l’una né l’altra versione. «Un uomo - scrisse, infatti, l’eroe - mi invitò a entrare. Sarei entrato senza invito». Manuel Duarte stava sull’uscio di casa sua, intento a riparare suole di scarpe. «Vidi la giovane! Tu sarai mia!». Quel poveraccio di marito protestò? Tentò di reagire? Cercò di affrontare il rivale? Un giorno non lo videro più in paese e le ricerche non dettero esito: scomparso.
Anita seguì Garibaldi sul battello e vissero come marito e moglie. Con qualche rimorso postumo, il Generalissimo ammise: «Se vi fu colpa, io l’ebbi intera e vi fu colpa». Più esplicitamente: «Si riannodarono due vite ma s’infrangea quella di un innocente».
Anche Giuseppe Garibaldi, abituati come siamo a vederlo seduto su un cavallo di bronzo, con la spada sguainata, lo sguardo dritto e il portamento fiero, ha goduto delle attenzioni favorevoli di agiografi (prima) e storici (poi) che hanno accettato acriticamente il mito del condottiero in camicia rossa. In realtà, anche lui andrebbe studiato con maggiore puntualità, evidenziando il coraggio che, certo, non gli mancava ma senza nascondere magagne e porcherie che, pure, l’hanno accompagnato e di cui è stato protagonista. Più che l’eroe “dei due mondi” sarebbe più corretto discuterne come e l'eroe “dai due volti”.
UN BABBEO, SENZA ATTENUANTI
“Un babbeo”, senza attenuanti. Maxime du Camp, scrittore francese e camicia rossa di complemento, quindi con pregiudizi assolutamente favorevoli, non riconobbe a Garibaldi alcuna intelligenza politica. Lui che, pure, avrebbe dovuto essere incline ai complimenti più risoluti, stroncò l’eroe di entrambi i mondi. Attribuendogli «spirito miope e ingenuo, incapace di illuminazione e di prospettiva». Ancora: «Provava un certo vigore davanti all’ostacolo solo perché poteva investirlo come un cinghiale arrabbiato».
L’unico valore che mantenne costante fu l’avversione alla Chiesa: definiva il Papa «un metro cubo di letame»
Giuseppe Mazzini, in una lettera a Giacomo Daniele, non ebbe esitazione a sostenere che «Garibaldi, quanto a coerenza di idee, è una vera canna al vento». Con l’eccezione di considerare il Papa «un metro cubo di letame», si faceva convincere abbastanza in fretta e abbastanza in fretta diventava risoluto sostenitore di quanto aveva avversato poco prima.
Denis Mack Smith lo considerò «rozzo e incolto». E Indro Montanelli, a più riprese, anche se con accenni inequivocabilmente comprensivi, lo considerò «Un onesto pasticcione». Tuttavia, a nessuno passò mai per la testa di considerarlo un disonesto. Per lui i soldi non contavano perchè non aveva il tempo per pensarci. Quest’uomo, con convinzioni ideologiche traballanti, con un carattere ispido come i suoi capelli, con i reumatismi, l’artrite cervica1e, la tosse e gli sputacchi di catarro, fu la vera stella del Risorgimento. A furore di popolo.
L’AVVERSIONE DI CAVOUR
Mack Smith spiegò che questa sua enorme credibilità rese possibile l’idea stessa del Risorgimento. «Il principale merito di Garibaldi fu quello di convincere gli stati stranieri e molti italiani che il movimento unitario non era un mero strumento di conquiste territoriali dei Savoia. Persino Cavour, suo irriducibile avversario, convenne che questo era stato un grande risultato che nessun altro avrebbe potuto ottenere». Come capitò raramente, fu circondato fin dall’ inizio da un alone di leggenda, capace di amplificare ogni azione e di inventarne anche qualcuna.
Tracagnotto, con le gambe corte veniva descritto come un gigante «alto otto piedi». E si giurava che, dopo ogni combattimento, si scuoteva la giubba per far cadere le decine di palle di fucile, che l’avevano colpito senza ferirlo. Invincibile perché invulnerabile.
In un secolo come l’ Ottocento con i mezzi di comunicazione che appena riuscivano a balbettare, privi di veloci strumenti di trasmissione, Garibaldi fu il protagonista di cronache epiche. Il personaggio era un tipo del tutto eccezionale, anticonformista, sia che si fosse trattato di idee politiche o di religione, di abitudini personali o di abbigliamento. Per qualche anno si vendettero le camicie “alla Garibaldi”, i mantelli “alla Garibaldi”, il cappellino “alla Garibaldi”. Ovunque: immagini, stampe, incisioni, ritratti, disegni, mezzi busto in gesso che lo raffiguravano in pose gladiatorie. Nelle cucine della gente i quadri che lo ritraevano stavano appesi accanto a quelli della Madonna. E la faccia di Garibaldi fu tra le poche cose che vennero imballate e conservate quando quella stessa gente fu costretta dalla miseria a emigrare nel Nord Europa e - più spesso - in Sud America. Piacevano i panni di eroe intraprendente che, da solo, si era cucito addosso: come i protagonisti dei romanzi d’appendice. Generoso, ma squattrinato. Forte, ma mai violento. Appassionato, eppure senza legami sentimentali troppo consolidati. Antesignano delle proteste socialiste e, tuttavia, dichiaratamente favorevole alla dittatura. Combatté per gli oppressi dovunque ne trovasse e finì per apparire un liberatore di professione. Una specie di Che Guevara “ante litteram”, destinato a soccorrere le rivoluzioni del mondo, senza badare troppo alle contraddizioni della politica. Per lui, il patriottismo si mescolò - costantemente - con la ricerca dell’avventura.
SI CACCIÒ SUBITO IN GROSSI GUAI
Garibaldi cominciò a cacciarsi nei guai nel 1834, nel tentativo di partecipare a un movimento insurrezionale di Genova. Agli esordi della sua vita da sovversivo, ebbe un ruolo del tutto marginale. La rivolta avrebbe dovuto essere provocata da un’incursione di rivoluzionari mazziniani. Entrando in armi e in gran numero dalla Savoia non doveva essere difficile scendere per la val di Susa e raggiungere direttamente Torino. Contemporaneamente doveva sollevarsi Genova.
Fantasie: ma facevano finta di crederci. Avevano raccolto qualche milione di allora sufficiente per equipaggiare qualche migliaio di volontari. In realtà servirono, a mala pena, per pagare i debiti di gioco del generale Gerolamo Ramorino (quello della prima “Guerra d’Indipendenza” fucilato per tradimento) il quale, con tutto quel denaro a disposizione, con la scusa di studiare un piano strategicamente appropriato, perdeva tempo per vedere se la roulette si decideva a girare per il verso giusto e se le signorine che lo accompagnavano continuavano a incantarsi per il suo splendido portamento.
Certo, non si poteva ritardare in eterno e venne il momento che, per non perdere la faccia, decise di muoversi. I rivoltosi erano rimasti accampati per troppo tempo e avevano cominciato a levare le tende: chi aveva un affare da concludere chi il raccolto da ritirare, chi un figlio che stava per nascere e chi - la maggior parte - si era semplicemente stancato di non concludere nulla. Restarono poche decine di uomini e quando videro che le armi promesse non c’erano, se ne andarono anche quelli.
L’invasione, perciò, venne tentata da Ramorino con due generali che lo seguivano, un aiutante, un medico e quattro ragazzi. L’azione avrebbe dovuto comprendere anche un’incursione di un altro gruppo di patrioti che, attraversando il lago di Ginevra, dovevano scendere dall’altro lato della montagna. Ma quando spinsero la barca nella corrente, si accorsero che non avevano i remi e sudarono fatica, sciacquettando con le mani nell’acqua, per riguadagnare la riva. Più che un’azione militare, insomma, una gag d’avanspettacolo.
Ci scappò un morto fra le forze dell’ordine: il carabiniere Giovan Battista Scapaccino. Due patriotti, Angelo Volonteri e Giuseppe Borel vennero fucilati. Il Piemonte di allora del Carlo Alberto super-reazionario colpiva i reati politici con una durezza senza attenuanti. Un’altra dozzina di persone vennero condannate a morte ma riuscirono a scappare.
FUGGI' PER EVITARE LA FORCA
Giuseppe Garibaldi, per evitare la forca, si trovò in fuga sulle montagne travestito con abiti di un contadino che un fruttivendolo gli regalò. Gli esordi della sua vita da sovversivo furono perciò maldestri e niente affatto eroici, ma dalle disavventure trasse insegnamento. Campò della liberalità di alcuni amici, fece qualche favore al sultano di Tunisi, prestò la sua opera di volontario nella Marsiglia devastata dal colera e, infine, nel 1835, si imbarcò sul Nautonier e arrivò in Brasile.
A Rio de Janeiro, con due compaesani, si lanciò in un’impresa di trasporti che poco dopo fallì. L’eroe dei due mondi motivò la bancarotta «dalla fiducia in gente che credemmo amica e che incontrammo nientemeno che ladra». Il fatto è che non aveva testa per gli affari e tutte le volte che cercò di fame, si trovò raggirato e derubato.
Altra era la sua voazione: In una notte di luna piena, con sei compagni, rubò una nave ormeggiata nel porto. I pochi marinai di guardia furono gettati in mare e l’eroe prese il largo per combattere la sue battaglie.
Combatte per tre anni contro il Brasile tentando di aiutare Bento Goncacalves che si era proclamato governatore delle province meridionali. Quanto pesassero le ragioni della libertà in quell’impresa resta un mistero perché il signorotto locale era più assetato di potere che di giustizia e aveva avviato una sua personale guerra per conquistarsi il trono. Garibaldi, comunque, era convinto di servire i grandi ideali. Fu ferito e per un solo millimetro la pallottola non gli troncò la carotide. Venne arrestato e finì in prigione anche se il regime carcerario non dovette essere particolarmente duro perché, in quel periodo, imparò a montare a cavallo come un gaucho.
Una volta libero, per altri sei anni - dal 1843 al 1848 - combatté contro l’Argentina. Anche qui è difficile comprendere le ragioni della contesa fra i possidenti dell’Uruguay e il generale Rosas, ma Garibaldi non stette a esaminare la questione troppo da vicino e si convinse di lottare per la giustizia. Assaltava le navi e le depredava. Inutile sottilizzare se si fosse trattato di amici o di nemici: il bottino era lo scopo della sua azione, perché si trattava di ammassare denaro per armare truppe e combattere.
QUELLE DIVISE DA... MACELLAI
Le famose camicie rosse nacquero dal furto di un grosso quantitivo di stoffa destinata ai… macellai
Quei soldati, sedicenti liberatori, piombavano sui villaggi con la foga dei conquistatori, allettati dai vitelli che stavano nelle stalle e dalle donne che stavano cucinando nelle case. Un gruppo così disordinato non avrebbe potuto continuare a lungo. Garibaldi dovette correre ai ripari. Entrò in un magazzino di stoffa, rubò una partita di tessuto rosso destinato a cucire i grembiuli dei macellai - i “saladeros” - e fece imbastire nuove uniformi. Con addosso una camicia di colore uguale, quella banda di testa calde diventò un piccolo esercito: la “legione italiana”. Il capolavoro venne poi da Giovan Battista Cuneo, un tipografo che, avendo qualche dimestichezza con la grammatica,fu in grado di preparare un giornale - Il legionario italiano - voce ufficiale di quei guerriglieri senza patria, con bandiere approssimative e ideali contorti. Più che di informazioni si trattò di disinformazione: alla gente venne offerto un campionario di improbabili atti di valore e di gesta d’altruismo esageratamente amplificate, ma di facile presa sui lettori. Una fabbrica di eroi.
L'unica impresa non millantata dovette essere la vittoria ottenuta a San Antonio sul Salto, in seguito alla quale Garibaldi venne nominato generale della piazza di Montevideo. I giornalisti di Francia e Inghilterra cominciarono a in ieressarsi di quel “rosso malpelo”, con la fronte alta, gli occhi azzurri che riusciva a essere, contemporaneamente, veloce e impavido, coraggioso e altruista.
La sua leggenda, alquanto arricchita, invase l’Europa e i patrioti italiani cominciarono a reclamare il suo rientro in patria. Serviva una spada perché si stavano preparando tempi decisivi. Abbandonò al loro destino i sudamericani e si imbarcò sul brigantino “Speranza”: lui, una sessantina di legionari, Aguyar, un indio gigantesco armato di lancia e scudo, la moglie Anita e i tre figli piccoli che, nel frattempo, erano nati dalla relazione.
DALLA REPUBBLICA ALLA MONARCHIA
«Tutti sanno s’io sia mai stato favorevole alla causa dei regi. Ora sono realista e vengo a esibirmi al re»
La prima guerra d’indipendenza era stata dichiarata - 23 marzo 1848 - e Garibaldi, repubblicano della prima ora (senza capire bene perché) cominciò a convertirsi alla monarchia (senza averne ben chiare le, ragioni). Si giustificò con qualche abilità. «Tutti quelli che mi conoscono sanno s’io sia mai stato favorevole alla causa dei regi. Ma perché i principi facevano male all’Italia. Ora sono realista e vengo a esibirmi al re di Sardegna che si è fatto rigeneratore della nostra penisola».
Il re non fu dello stesso parere. Il “caloroso abbraccio” fra Garibaldi e Carlo Alberto che arricchisce l’oleografia risorgimentale non avvenne mai. E, più tardi, con Vittorio Emanuele II, i rapporti furono altalenanti. Nel senso che il re Savoia cercò di sfruttarne la popolarità per trame degli utili a suo beneficio esclusivo. Garibaldi al contrario, che pure amava atteggiarsi in pose pittoresche, non si affannò per procurarsi vantaggi personali ne badò a chi approfittava del suo nome per arricchirsi. Gli bastava l’odore della polvere da sparo e il profumo dei capelli delle signorine, si accontentava del chiasso delle battaglie e degli affanni delle lenzuola; alternava le cariche a cavallo con quelle sotto le gonne delle cameriere, con identico spirito di conquista. Non stette a badare se erano mogli di amici e non si preoccupò che gli venissero attribuiti una dozzina di figli fra legali, mezzi legali e illegittimi. Amò quanto gli venne consentito dalle sue forze umane che non erano disprezzabili: quando era giovane, affidandosi alla leggiadria del suo profilo greco che incantava - le contadinotte, più in là negli anni, facendo leva sul mito che lo rendeva desiderabile. Da sveglio. Perché quando si, addormentava, perdeva un pizzico di fascino e prendeva a russare. A raschiarsi il catarro con colpi di gola e ad abbandonarsi ad altri rumori corporali. Emma Roberts, la sera, gli suonava musica classica sul cembalo e lui, sulla poltrona, fingeva di ascoltare, appoggiando pensosamente la fronte sulla mano. In realtà era tutto per nascondere gli occhi chiusi. Alla fine era il suo ronfare che lo tradiva e quella, per svegliarlo, doveva attaccare l’inno di Cannata che lo faceva balzare in piedi.
Non fu sempre un gentiluomo e, qualche volta, assunse pose disdicevoli. Il piacere della conquista al femminile lo incantava e nella corsa sopra il letto risultava fra i primatisti italiani.
Certo, anche i ladri corrono il rischio di essere derubati: Garibaldi che, nell’uno e nell’altro mondo, ha fatto fessi tanti uomini si è trovato - anche lui! - con le corna in testa e proprio quando credeva di aver trovato la donna che faceva al caso suo.
Nel dicembre del 1859, l’eroe se ne stava, acquattato in un letto di Villa dell’Olmo, appena sopra il lago di Como, ospite di Giuseppina, figlia illegittima del marchese Raimondi. Era nel letto e ci doveva rimanere quasi immobile perchè si era spezzato una gamba, cadendo da cavallo. Perchè lamentarsi? «lo non potea trovare un luogo più adatto e più caro per sanare la mia ferita», Mentre recuperava le forze è consentiva ai due monconi d’osso di saldarsi, mescolava minestrine e baci, pancotti e carezze, Una convalescenza “en rose.
LE NOZZE RIPARATRICI
Era un’amicizia giovane, quella di Garibaldi e di Giuseppina, sbocciata poche settimane prima, nel pieno della “seconda guerra d’indipendenza” La giovane donna, su un calesse, aveva cercato il generale che comandava i “Cacciatori delle Alpi” per chiedergli una compagnia di rinforzo per Como che, con quel piccolo aiuto, avrebbe potuto ribellarsi agli austriaci e conquistare la propria libertà.
Deludere una richiesta che mescolava le ragioni della strategia militare e gli affetti ancora acerbi di un cuore pronto a innamorarsi? Si affrettò ad acconsentire: «Stasera stessa sarò colà dove mi chiedete di esser». I volontari andarono a difendere la città dall’aggressione austriaca e lui - come informò personalmente - trovò il tempo di fermarsi qualche ora all’ albergo “dell’Angelo”, all’assalto della giovane patriota. L’agiografia risorgimentale non conosce mezze misure: «Vederla e amarla fu tutt’uno».
Non destò meraviglia quando, tempo dopo, al generale infermo, Giuseppina si presentò con il viso pallido e la mano sull’addome appena ingrossato. Niente paura. L’eroe conosceva le regole della buona creanza. Le nozze “riparatrici” si poterono programmare il 24 gennaio 1860, nella cappella privata della tenuta della famiglia Raimondi. Scena stupenda, qualche barlume di commozione e l’impazienza di partire per la luna di miele. A guastare la festa - come la strega che irrompe nella fiaba della Bella addormentata nel bosco - un biglietto anonimo, (scritto probabilmente dal conte Giulio Porro Lambertenghi) nel quale, in poche righe, c’era la sintesi di una verità amara come la morte. A mettere incinta la disinvolta signorina non era stato Garibaldi ma un garibaldino: Luigi Càroli, di casa a Villa dell’Olmo e nelle grazie della marchesina. Il generale afferrò la sposina per un braccio e la trascinò in disparte. Le mostrò il messaggio e pretese una risposta: «È vero?» La donna non ebbe il coraggio di negare ma si limitò a ciondolare il capo in su e in giù per assentire. «Siete una puttana», commentò quel gentiluomo dei due mondi. Brandì una sedia e, quando tutti pensavano che l’avrebbe spaccata sulla schiena della fedigrafa, ebbe un sussulto di galanteria e si limitò a schiantarla per terra. Giuseppina ebbe il coraggio e la forza di sussurrare: «Volevo sposare un eroe, non uno zoticone».
Lui si morse la lingua per evitare di risponderle per le rime e se ne andò lasciando che i pettegoli avessero campo libero. Chissà per quanto tempo avrebbero continuato a sparlare se non avesse offerto un argomento di analogo interesse. Giusto qualche settimana più tardi, infatti, Garibaldi si trovò a Genova, in procinto di capeggiare un migliaio di Camicie rosse, pronte a lanciarsi alla conquista del Sud.
LA VIGILIA DEI MILLE
Anche questa vigilia è tutta da raccontare. L’eroe dei due mondi, amareggiato per un amore andato in frantumi e francamente indispettito per la figura del cornuto tricolore, partecipò alla seduta del Parlamento riunito a Torino che ratificava la cessione di Nizza e Savoia alla Francia. Era il prezzo da pagare a Napoleone III per l’aiuto che aveva appena concesso al Piemonte consentendogli di allargarsi prendendo Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna.
Garibaldi era inviperito per le sue questioni personali che avevano trascinato pelose dichiarazioni di solidarietà e per le vicende politiche che gli ruotavano attorno senza convincerlo. Nizza era la sua terra: alienandola e regalandola a Parigi, lo rendevano “straniero in patria”. Per la verità, Vittorio Emanuele II che era pur sempre un Savoia, cedeva la Savoia per l’appunto e, dunque, anche il re si rendeva “straniero in patria”. Garibaldi pensava che, se a palazzo reale avevano accettato lo scambio, doveva convenirgli. Certo, lui non era disposto a sopportare in silenzio quel sacrificio. Fece una di quelle piazzate memorabili accusando questo e quell’altro di essere parte di un gioco schifoso e infame.
Con i nervi a fior di pelle e le arterie in ebollizione, si trovò sul treno per Genova in uno scompartimento, accanto ad un certo Laurence Oliphant che commentava favorevolmente le proteste del generale e gli suggeriva di tentare qualche cosa per evitare che, Nizza diventasse francese. Il piano? Semplice. I cittadini stavano preparandosi a votare un plebiscito truffa, il cui esito era gia deciso e che avrebbe dovuto giustificare con una consultazione fintamente democratica una decisione di vertice presa fra Governi. Bastava creare: qualche tumulto, impadronirsi delle urne e bruciarle. Poi la guerriglia…
Si promisero reciprocamente di rivedersi per approfondire l’argomento. Oliphant lo cercò e quando riuscì a incontrarlo, a Villa Spinola, vide che c’era tanta gente che gli stava intorno. Tutti ingalluzziti e visibilmente molto determinati. «Partiamo! Quando si parte?». Dapprima si rallegrò. che quella sua idea avesse così tanti estimatori e solo dopo qualche ora si rese conto che la destinazione non era quella cui lui pensava. Non si trattava di invadere Nizza, ma di correre per conquistare la Sicilia. Il programma - grosso modo - era rimasto lo stesso, ma la meta era cambiata.
I “se” e i “ma” non appartengono alla ricerca storica e, tuttavia, come immaginare l’impresa dei Mille con un Garibaldi fresco sposo? I clamori truculenti della guerra preferiti ai morbidi sussurri della giovanissima moglie? I languori della luna di miele trasformati in assalti all’arma bianca?
Probabilmente l’Italia diventò una proprio perché Garibaldi subì l’ingiuria sentimentale della marchesina Raimondi. Niente casa e niente famiglia, si trovò ospite dell’amico Augusto Vecchi, combattente della prima ora in difesa della Repubblica romana (1849) proprio quando volontari assetati di avventura stavano radunandosi per fare un altro pezzo di strada verso l’unità d'Italia.
(10 - Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì 13 ottobre 2009, pag. 12 – 13 -14.
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