di Rossano PAZZAGLI.
L’aumento del traffico automobilistico, conseguenza anche del mancato potenziamento dei trasporti pubblici che anzi stanno subendo politiche di tagli e ridimensionamenti, sta riproponendo in misura crescente il problema della sicurezza stradale. Spesso sotto la spinta emotiva di gravi incidenti, dimenticando la responsabilità di errate strategie gestionali della mobilità, come quella delle numerose privatizzazioni e della progressiva introduzione dei pedaggi sulle strade a scorrimento veloce, sono le tradizionali alberature lungo le strade d’Italia a finire sotto accusa. Qualcuno arriva così a proporre l’abbattimento indiscriminato di interi filari di piante, ignorando le funzioni che questi hanno a lungo svolto e che almeno in parte potrebbero ancora svolgere. Lo stesso codice della strada, approvato nel 1992, prevede nei successivi regolamenti di attuazione il divieto della presenza di alberi entro una distanza minima di sei metri dal bordo stradale [1].
Si tratta di un tema molto ampio e ricco di significati, che inevitabilmente tocca diversi ambiti – dalla storia dell’architettura all’agronomia, dalle scienze forestali all’ingegneria – e che ci consegna non pochi interrogativi sul nostro modo di intendere il rapporto tra società, infrastrutture e paesaggio. La prospettiva storica può aiutare a porre correttamente il problema, al di fuori di scorciatoie o soluzioni irrazionali.
LE ALBERATURE STRADALI DALLE CARROZZE ALL’AUTOMOBILE
In gran parte d’Europa i viali alberati sono la più antica forma d’inverdimento ai bordi delle strade, marcando in modo quasi indelebile i tragitti viari. Originariamente le alberature servivano a consolidare e a rendere permanenti e riconoscibili le vie di comunicazione: le radici degli alberi impedivano che la superficie stradale non pavimentata si erodesse, le chiome creavano una piacevole zona d’ombra attutendo il caldo estivo e proteggevano da pioggia e neve nella stagione invernale; quando si impiegavano alberi da frutto, questi davano nutrimento ai viandanti; inoltre fornivano legname da costruzione e legna da ardere, fascine, alimenti per animali, miele ecc. Gli alberi più frequentemente usati per le alberature stradali sono il tiglio, l’acero, la quercia, il platano e l’ippocastano, ma anche il noce, il carpino, il faggio, come pure varie specie di alberi da frutto, e in certe regioni gelsi e cipressi, fino all’impiego di piante esotiche – come le palme – talvolta legate alle avventure coloniali. Per lungo tempo si è usato soprattutto l’olmo, prima che una aggressiva malattia fungina (Ophiostoma ulmi) falcidiasse nel secolo scorso gli olmi europei. Infine, a livello ambientale, i viali alberati offrono con i loro rami, le foglie e i tronchi un habitat adatto molte specie animali e costituiscono elementi di collegamento tra ecosistemi, configurandosi a volte come veri e propri corridoi ecologici.
Nell’age of oil, o età dell’automobile, molte di queste funzioni non risultano più compatibili con gli stili di vita e le modalità degli spostamenti, ma non è fuori luogo domandarsi quante e quali di esse possono essere attualizzate o addirittura rilanciate nell’ottica di una nuova mobilità sostenibile.
Le alberature stradali, simili per certi aspetti alle alberature che segnano i confini dei campi, hanno rivestito dunque, nel corso del tempo, ruoli funzionali e funzioni produttive: legname, foglie, frutti, difesa dal sole, dal vento e dalla pioggia, consolidamento del suolo e creazione di un microclima più adatto agli spostamenti degli animali e delle persone.
PAESAGGIO AGRARIO E PAESAGGIO STRADALE
Dal punto di vista visivo queste formazioni hanno sempre teso a disegnare delle linee e delle interruzioni, in special modo nelle zone di pianura dove prevaleva il paesaggio semplice dei seminativi o dei pascoli, inserendo elementi diversificatori che contribuito ad arricchire paesaggio rendendolo meno omogeneo ed uniforme. Per tutti questi motivi le alberature stradali hanno rappresentato un segno quasi indelebile, un elemento di resistenza al processo di banalizzazione del paesaggio che ha preso piede soprattutto nell’età contemporanea.
Sotto questo aspetto si può dire che la tecnica di costruzione stradale è stata sostanzialmente mutuata dalla più complessiva organizzazione dello spazio rurale, che soprattutto nell’Italia centro-settentrionale assegnava agli alberi un ruolo importante, sia nella forma della piantata padana che in quella dell’alberata toscana e umbro-marchigiana, per riprendere le classiche espressioni coniate da Emilio Sereni [2].
Nelle campagne le strade sterrate, che sono anche alberate, sono generalmente piccole, strette, di costruzione e concezione talvolta molto antica, attraversano i campi, costeggiano colline, evitando salite che non si potevano percorrere con la trazione animale; ai lati di queste strade, gli alberi venivano messi quasi a distanza di chioma l’uno dall’altro. Quando le strade costeggiavano dei corsi d’acqua, il terreno doveva essere più rialzato e le piante ancora più fitte per consolidare il piede della strada e proteggerla da esondazioni o erosioni del fiume o del torrente.
Sono assai note le vicende delle alberature in ambito urbano dove, soprattutto nei giardini e nei parchi storici, i viali alberati venivano usati per creare effetti ottici ad arte o per riqualificare la città e migliorare la vivibilità urbana, come avverrà a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento con lo straordinario piano di George Eugène Haussmann e l’opera di Jean Charles Adolphe Alphand che arricchirà le vie principali della città di oltre 80.000 piante in modo da ricreare anche sulle grandi arterie l’ambiente della passeggiata [3]. Meno nota appare ancora la storia delle alberature in spazi aperti, fuori delle città, sebbene non manchino importanti lavori di storia delle strade e della viabilità [4].
L’ESTETICA DELLA STRADA
Quella degli alberi lungo le strade è una storia molto lunga, che potremmo seguire a partire almeno dagli scrittori latini. D’altra parte fu proprio l’età romana, con la rete delle grandi strade consolari, a porre le basi delle più importanti direttrici infrastrutturali italiane. Con la fine dell’impero anche le strade, come le città, andarono incontro ad un periodo di decadenza, ma il medioevo si configura comunque come un mondo di uomini in cammino [5].
Nei secoli centrali del medioevo e fino al Rinascimento sulle strade italiane viaggiavano numerose persone: mercanti, soldati, corrieri, studenti, ma soprattutto i pellegrini che si recavano a Roma lungo itinerari che collegavano la città del papa al nord Europa, alla Francia e all’importante meta cristiana di Santiago de Compostela; da Roma verso sud tali itinerari proseguivano verso le Puglie da dove si poteva salpare per Gerusalemme [6]. Dal Quattro-Cinquecento il viaggio verso Roma tende a perdere la prevalenza dei motivi religiosi, ma continua come viaggio culturale, trasformandosi in “viaggio in Italia”, alla ricerca delle città d’arte, delle antichità classiche e infine – nell’età dell’illuminismo e del romanticismo – delle bellezze naturali e del paesaggio [7]. Sono i secoli del gran tour, cioè del prolungato viaggio attraverso il continente europeo, avente come meta privilegiata l’Italia, finalizzato al completamento della formazione culturale dei giovani aristocratici inglesi, ma che finì per interessare anche molti esponenti della cultura europea e della borghesia in ascesa. La descrizione delle strade fatta da numerosi grandtouristi europei dedica una frequente attenzione alla condizione delle strade e alla presenza di alberature lungo il percorso, generalmente fatto in carrozza, ma anche a piedi e a cavallo.
Nel corso dell’età moderna in vari stati regionali anche le leggi italiane favoriscono il diffondersi e il mantenimento degli alberi lungo le strade. A Roma i primi viali accompagnati da filari verdi nascono alla fine del Cinquecento, quando Sisto V fece piantare gli alberi lungo le ampie vie che collegavano tra di loro le chiese principali, in modo che i pellegrini trovassero po’ d’ombra lungo il percorso. Altre piantumazioni seguirono nel corso del 600. Si trattava prevalentemente olmi, tanti da formare le olmate che divennero perfino un simbolo della città [8].
Tuttavia prima del ‘700 la costruzione di strade secondo tracciati nuovi è del tutto eccezionale, se non si risale all’epoca delle grandi colonizzazioni medievali o addirittura a Roma antica, mentre è proprio nel secolo dei Lumi che si verifica una profonda trasformazione delle funzioni e delle tecniche stradali: si apre definitivamente l’epoca delle carrozzabili, il passaggio dal trasporto someggiato a quello con i carri e le carrozze – dal mulo alla diligenza, come è stato efficacemente sintetizzato [9] – che comporta a sua volta il passaggio dai lastricati e acciottolati ai fondi inghiaiati o gettati. Inoltre, coerentemente con il pensiero razionale dell’illuminismo, si cominciano ad adottare i moderni sistemi di classificazione delle strade. Il ‘700 fu – come è stato detto – il secolo del risveglio stradale [10]. Ed è in questo periodo che si afferma anche quella che possiamo definire una estetica della strada, in aggiunta all’idea del viale alberato rinascimentale, prevalentemente urbano o collegato alle ville o ai parchi e giardini. L’attenzione si sposta anche sul paesaggio rurale, nel quale le strade grandi e piccole assumono un ruolo di spicco. Ciò vale sia per le regioni dove prevale la coltura estensiva cerealicola e pastorale, sia per quelle dove invece predomina il sistema della coltura promiscua, come è nelle aree mezzadrili dell’Italia centrale e della Toscana in particolare.
Poco dopo la metà del ‘700 l’inglese Joseph Spence percorrendo il Valdarno dalla parte di Pisa lo trova “una delle più belle valli del mondo”; una delle ragioni di questa bellezza era che “il margine della strada è pieno di viti, e i grappoli pendono da gelsi e olmi, e, a volte, si vedono un albero di uva rossa e uno di uva bianca insieme per un lungo tratto” [11]. Le testimonianze in tal senso da parte dei viaggiatori stranieri non riguardano solo la Toscana, ma sono rintracciabili un po’ per tutta la penisola. A proposito di Napoli – siamo intorno al 1780 – Joseph-Jerome de Lalande, collaboratore dell’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, scriveva che “si giunge in questa bella capitale per una strada affascinante (charmante), larga, diritta, bordata di alberi alti che fanno un’ombra piacevole, e che sono legati da ghirlande di viti” [12]. Negli stessi anni il marchese De Sade, in fuga dalla Francia per i guai giudiziari connessi ai suoi costumi libertini, confermava che a Napoli si arriva per “una strada superba, fiancheggiata su entrambi i lati da alti pioppi e ornata di pampini. Tutto, insomma, dà l’impressione di una festa” [13].
DALLA FRANCIA ALLA TOSCANA
Parco di San Rossore
Un ruolo di primo piano nello sviluppo di questa nuova sensibilità e nella realizzazione di grandi strade alberate spetta alla Francia, che proprio a partire dal ‘700, grazie all’impegno e alla preparazione del corpo degli ingegneri di ponti e strade, vede la creazione di un vero e proprio sistema stradale. La stessa legislazione in materia si fa più sempre più fitta e in età rivoluzionaria e napoleonica vari decreti affinano e aggiornano continuamente la normativa stradale, comprese le disposizioni relativamente agli alberi piantati sulle strade: si susseguono infatti vari decreti, fino alla legge del 1812 secondo cui anche le strade dipartimentali, oltre a quelle imperiali, dovevano essere alberate e si incaricavano a tale scopo prefetti, ingegneri e maires [14]. Secondo questo decreto, tutti gli alberi piantati fino ad allora sulle strade regie appartenevano allo Stato, mentre veniva prevista la redazione di un piano generale delle strade “non piantate e suscettibili di piantagione”.
Durante la realizzazione dell’imponente sistema stradale francese l’aspetto estetico non viene tralasciato e le alberature sono attentamente scelte in base al loro portamento e allo sviluppo della chioma, mentre la loro disposizione è stabilita in relazione al paesaggio attraversato ed al significato che esse devono sottintendere: “Queste grandi architetture vegetali testimoniano l’aspirazione degli ingegneri ad abbellire il paese… gli alberi fastigiati come il pioppo italico segnalavano i punti rimarcabili del percorso, i ponti, l’incontro con un’opera d’arte; gli alberi più monumentali, dalle chiome dense e arrotondate o coniche, come i castagni, annunciavano gli ingressi nei paesi…, mentre si riserveranno i tigli, potati, alla scala degli edifici circostanti, all’attraversamento dei paesi e della città, e gli alberi da frutto per gli edifici pubblici” [15].
In Italia la presenza degli alberi sembra più timida, a dispetto del clima più caldo e soleggiato, come farà notare di lì a qualche anno Stendhal che in occasione della sua promenade a Roma del 1829 annotava: «Dès qu’on voit une promenade plantée d’arbres en Italie, on peut être assuré qu’elle est l’ouvrage de quelque préfet français. … Les Italiens modernes abhorrent les arbres; les peuples du Nord, qui n’ont pas besoin d’ombre [que] vingt fois par an, les aiment beaucoup» [16]. Aveva certamente ragione a sottolineare l’influsso francese, e in particolare dei prefetti napoleonici, nella costruzione di questo tipo di paesaggio e anche nell’affermarsi di una tradizione che si consoliderà nel periodo della Restaurazione e ancor più nel secondo ‘800.
Nel 1827 viene pubblicato in Toscana il Ragionamento sui boschi di Gaetano Savi, professore di botanica Università di Pisa, direttore dell’Orto botanico e autore anche di un Trattato degli alberi della Toscana (1801). Uscito sul “Giornale agrario toscano”, questo corposo articolo fu ripreso anche sulle pagine di altri periodici italiano, come il “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia” [17]. Quello proposto da Savi era un saggio sull’utilità degli alberi e delle alberature. In Toscana – scriveva – “Ci è sempre da piantarne un’ infinità lungo le strade, tanto maestre che comunali, e questi tutti, adulti che fossero, colle potature annue darebbero molte legna minute… e tagliati poi regolarmente ne’ tempi debiti legname grosso, buono per molti usi.” Faceva poi riferimento a un provvedimento legislativo del 1750, “la quale ordina una piantata di alberi, e a preferenza di gelsi, nei margini delle strade del territorio pisano , invita a farla i possessori dei terreni confinanti, dichiarando che il frutto dell’albero apparterrà per metà al padrone del terreno, e per metà al lavoratore, e quando i possessori ricusino di farla, ne addossa la cura all’Ufizio dei Fossi cui per intiero n’è rilasciato il profitto.” La stessa normativa prescriveva la pena di 40 lire per chi tagliasse un gelso e di 20 lire per le altre piante, stabilendo “che l’Ufizio dei Fossi faccia fare una visita annua generale, per prender nota delle piante deperite, e farle ripiantare a chi spetta”.
Una legge simile era stata emanata per il pistoiese nel 1752 e nello stesso anno un altro provvedimento “ordinò la piantagione di alberi lungo le strade del territorio aretino, che affidata fu all’Ufizio dei viari”. “È da desiderarsi – scriveva Savi – che tali leggi siano tenute in esatta esecuzione, e che siano estese a tutte le altre strade della Toscana: e qualora il bisogno per l’educazione dei bachi da seta non prescrivesse il piantar gelsi, meglio sarebbe scegliere alberi di crescimento più sollecito, come l’acacia, l’ailanto e le diverse specie di pioppi, fralle quali è raccomandabile il pioppo angolato che cresce con una rapidità sorprendente”. Gli alberi, a partire dal gelso che in certi territori veniva definito l’albero d’oro per la sua fondamentale importanza nella sericoltura, aveano una funzione produttiva, ma non solo: “l’ombra e la traspirazione degli alberi spargono nell’estate una frescura e un’ umidità favorevole , e l’irradiazione da essi dipendente ci diminuisce il freddo dell’inverno. Così un albero dev’esser considerato come un centro vivente, che emana e diffonde per tutte le parti influssi benefici per la vita vegetabile…”
Lo scritto del Savi fu subito commentato da un altro naturalista, Ottaviano Targioni Tozzetti, che stigmatizzava “l’atterramento di laute rigogliose querci ed altri alberi coltivati lungo le pubbliche strade del Mugello e dei monti contigui”; così – continuava – si privano di pastura i maiali, e si abolisce il legname da costruzione e da fuoco, del quale è tanto cresciuto il consumo modernamente” [18]. Per lui “Buonissimo [era] il progetto del sig. Savi, di piantare alberi di ogni sorte lungo le strade maestre. Nella Romagna papale, nel Bolognese, e Ferrarese, sono bellissime strade con file d’alberi da una parte e dall’altra, e talvolta a due file per parte, di pioppi cipressini , di salcio arboreo e altri alberi, i quali rendono delizioso il viaggio, e non troppo ombroso. Molte sono le strade in Toscana, specialmente del Pisano , del Valdarno e del Pratese e di altri piani, le quali sono assai larghe, e dove si potrebbero piantare utilmente tali alberi, dandone cura e responsabilità, e parte del profitto ai possessori dei campi contigui alle strade”. Poiché gli alberi a grande chioma trattenevano l’umidità e con la loro ombra mantenevano fangose le strade rotabili, Targioni Tozzetti sponsorizzava il cipresso e altre piante che tendono a svilupparsi in altezza: i pioppi cipressini, che si alzano diritti e non allargano i rami, come pure i comuni pioppi, conosciuti col nome di albaro o albero, che si puliscono da’ rami ogn’anno … che fanno ombra non folta, e lasciano passare sufficiente luce e vento fra l’uno e l’altro”. L’ 800, in effetti, è il secolo in cui si moltiplicarono i filari di cipressi lunghe le strade toscane, da quelle poderali a quelle di collegamento tra borghi e città.
Non solo Toscana, come abbiamo visto. Anche a Napoli si riprende l’esperienza amministrativa francese: un decreto del 25 gennaio 1842 , relativo proprio alla piantagione e conservazione degli alberi lungo le vie .provinciali e comunali, affermava all’articolo 1 che “Le piantagioni lungo le pubbliche strade sono sotto la particolare cura e protezione del Governo” e che alla loro custodia e manutenzione provvederanno, oltre agli appaltatori delle piantagioni, tutte le istituzioni locali e i “proprietari ed i coloni dei fondi limitrofi alle strade” [19].
I CIPRESSI DI BOLGHERI
Viale dei Cipressi di Bolgheri
I viali alberati non nascevano all’improvviso, né secondo progetti chiaramente predefiniti. La creazione del Viale dei Cipressi di Bolgheri, ad esempio, durò parecchio tempo. Si trattava di una lunga strada che si diramava dalla via Emilia (Aurelia) verso l’entroterra dell’Alta Maremma toscana. L’antica via Aurelia, ricostruita fra il 1828 e il 1841, fu bordata di filari di pioppo, che era considerato una pianta in grado di sopportare l’umidità delle zone pianeggianti e acquitrinose. I giovani alberi erano protetti da palizzate in legno che ne impedivano il danneggiamento da parte del bestiame brado (in particolare dei bufali vaganti, i cosiddetti “malandroni”). Nel 1831 il conte Guido Alberto Della Gherardesca, il più grande proprietario dell’area, decise di piantumare con i pioppi anche una parte dello stradone che collegava San Guido, piccola località lungo la via principale, all’abitato di Bolgheri; ma non avendo realizzato la staccionata di protezione le giovani piante furono distrutte dai bufali, ripiantate e ancora mangiate e divelte dai malandroni, finché un tecnico agrario della tenuta, Casimirro Giusteschi, suggerì di sostituire i pioppi con i cipressi, non appetibili per le bestie. Il completamento del viale alberato, con la piantagione di cipressi fino a Bolgheri, avverrà comunque nei primi anni del ‘900, quando ormai era già stato celebrato e reso noto dai versi di Giosuè Carducci (Davanti a San Guido, 1874). [20]
Le strade di pianura assumono un significativo rilievo nel paesaggio proprio quando sono alberate: l’Aurelia di metà ‘800 presentava per lunghi tratti doppi filari di platani, che si intensificavano in prossimità dei nuclei insediativi. Finché erano giovani, queste piante erano per certi tratti protette da staccionate perché gli animali bradi non potessero danneggiarli. Il territorio della Toscana, costruito sulla base di un peculiare rapporto città/campagna che si concretizzava nell’organizzazione mezzadrile dell’agricoltura, si presenta molto ricco di alberi. Colture arboree nei campi e alberi lungo le strade. Si mettevano gli alberi per ragioni pratiche, ma anche per rendere certo il tracciato stradale, per fissarlo come una linea nel paesaggio e nel tempo.
DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLE AUTOSTRADE
A livello italiano, nell’ambito della “Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia”, emanata il 20 marzo 1865, furono stabilite le norme sulla competenza, la costruzione, la manutenzione e conservazione delle strade, che vennero suddivise in quattro grandi categorie: nazionali, di competenza dello Stato; provinciali; comunali; vicinali, di competenza dei consorzi formati dagli utenti privati, con o senza la partecipazione degli enti locali [21]. Questa classificazione rimarrà immutata fino al ‘900, almeno fino al periodo fascista quando, nel 1923, il Regio Decreto n. 2506 ripartì le strade in cinque classi oltre a quelle vicinali: strade di prima classe, di competenza dello Stato (circa 20.000 km di strade importanti, molte delle quali, nel Mezzogiorno, finivano per costituire la sola risorsa viaria); strade di seconda classe, cogestite dallo Stato e dalle province, che collegavano tra loro i capoluoghi di provincia e questi con i capoluoghi di circondario e con le città portuali; strade di terza classe, che collegavano i capoluoghi comunali con i capoluoghi provinciali, di competenza delle province; strade di quarta classe, che collegavano i vari centri comunali, di competenza dei comuni; strade di quinta classe [22].
Negli anni ’20 inizia anche la storia delle autostrade, con l’inaugurazione nel 1924 del primo tratto della Milano-Laghi, la prima autostrada italiana seguita dalla Milano-Bergamo (1927), Napoli-Pompei (1929), Bergamo-Brescia (1931), Torino-Milano (1932) e Firenze-Mare (1933). Anche le prime autostrade sono spesso costeggiate da lunghe e imponenti file di piante. Proprio lungo la Firenze-Mare, ad esempio, nel tratto compreso tra Prato e Pistoia e poi dopo Montecatini fino alla Pineta del Parco di Migliarino, si trovavano filari di pini disposti ad una distanza di quindici metri. L’impianto arboreo è rimasto per lo più immutato fino agli adeguamenti, causati dall’aumento di traffico, degli anni Sessanta. Successivamente a causa dei vari danni all’apparato radicale e ad altre problematiche legate alla sicurezza, la Società Autostrade ha progressivamente eliminato queste alberature. Oggi rimangono solo pochi individui sparsi, mentre un tratto a galleria è riscontrabile ancora nell’accesso alla città di Prato, strada declassata ma un tempo facente parte del tratto autostradale.
Il principio di realizzare piantagioni di alberi a fianco delle autostrade era in parte mutuato anche dall’esperienza della Germania, dove le alberature non erano però disposte in fila, ma con l’intento di valorizzare le aperture visive sul paesaggio, rispettando così la tradizione della paesaggistica romantica tedesca. In Italia, invece, i grandi filari che seguivano le autostrade erano costituiti principalmente da una unica specie arborea, che tende ad esaltare il segno stradale nel paesaggio [23]. Le file di alberi sono diventate un elemento ambientale di pregio e un tratto paesaggistico dell’Italia. Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia (1953-56) richiamava “le file dei pini che rigano le campagne” della Maremma, nel paesaggio della bonifica e della riforma agraria, mentre giudicava come “il più bel viale d’Italia… quello di platani tra Pisa e Bocca d’Arno costeggiante il fiume: nelle giornate calde le fronde sembrano soffiare, come geni animati, un venticello su chi passa” [24]. È una delle tante testimonianze dell’alberatura stradale come benessere, prima che cominciassero gli atti di accusa verso gli alberi ai bordi delle strade.
LA STRAGE DEGLI ALBERI
Come abbiamo visto, storicamente il viale alberato era nato per delimitare meglio la strada, talvolta per dare ombra agli uomini e alle bestie, par favorire la tenuta idrogeologica della carreggiata, per assicurare materiali vegetali. Ad un certo punto, tra la seconda metà del ‘700 e il primo ‘900, questa pratica si intensificò anche per dare alla strada, con alberi di maestosa grandezza, un’architettura monumentale, per disegnare sul paesaggio segni caratterizzanti.
Dove sono finiti i grandi viali alberati? Perché sono soffocati dall’incuria e dall’ invasione delle macchine? Se lo chiedeva qualche anno fa lo scrittore Pietro Citati, che lanciava il suo j’ accuse per le fronde messe a repentaglio dallo smog e dalle malattie. Ma si deve pensare soprattutto alle battaglie di Antonio Cederna, uno dei padri dell’ambientalismo, ispiratore delle principali battaglie di Italia Nostra: egli inserì un apposito capitolo, intitolato “La guerra agli alberi”, nella sua opera su La distruzione della natura in Italia, pubblicata da Einaudi alla metà degli anni ‘70 [25]. Si tratta di un libro fondamentale, e sostanzialmente inascoltato, nella genealogia della cultura ambientale italiana. Cederna denuncia qui il malgoverno del territorio, il disfacimento delle città, l’abrogazione del paesaggio, la distruzione della natura, l’eliminazione dello spazio fisico necessario alla salute pubblica, lo smantellamento di un’immensa e insostituibile eredità di cultura, la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria. Un altro capitolo del libro era significativamente intitolato “Perché l’Italia frana quando piove”… tutti i temi ancora oggi, a distanza oltre trent’anni, di stringente attualità e che sembrano anzi essersi aggravati nel tempo, con la sostanziale sconfitta dell’urbanistica pubblica [26]. Tra tutti questi problemi, allora già ampiamente visibili, inseriva appunto la denuncia dei tagli avvenuti tra gli anni ‘50 e ‘60, dei filari di alberi che “senza colpa né peccato” ombreggiavano le strade statali della disgraziata penisola.
L’attacco alle alberature stradali ebbe un’impennata tra il 1962 e l’inizio del 1964, quando furono abbattuti più di 100.000 alberi, mentre nel ’64 l’Anas decise di eliminare quelli che sorgevano a meno di 150 metri dalle curve e a meno di 80 centimetri dal ciglio della carreggiata, per il resto risparmiando un albero ogni trenta metri. In un magistrale articolo uscito su “L’Espresso” nel 1966 era lo stesso Cederna a stigmatizzare l’arretratezza tecnica dell’Anas che “da un lato pretendeva di adeguare la rete stradale italiana al traffico crescente rubacchiando qualche centimetro a destra e a sinistra a spese degli alberi; dall’altro mostrava di ignorare completamente sia i dati sulla minima responsabilità degli alberi negli incidenti, sia il parere di paesaggisti, naturalisti ed esperti in comportamento stradale circa l’utile funzione degli alberi proprio agli effetti della sicurezza di guida” [27].
L’abbattimento delle alberate sopravvissute fuori dai centri urbani venne fermato nel 1966 da una circolare del Ministero dei Trasporti che prevedeva anche il reimpianto nei filari esistenti. Ma il nuovo Codice della Strada del 1992 ha trascurato la problematica, relegandola ad una presunta ed esclusiva questione di sicurezza automobilistica e ad un approssimativa quanto burocratico calcolo della cosiddetta “fascia di rispetto”: con il successivo regolamento di attuazione, infatti, la distanza da rispettare per l’impianto di alberi lateralmente alle strade extraurbane “non può essere inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 metri” [28]. Ciò ha posto evidenti problemi interpretativi, sia in ordine alla determinazione della distanza (a seconda del tipo di albero, l’altezza può raggiungere 20, 30 o 40 metri), sia in merito alla retroattività o meno della normativa, che nel 2011 hanno portato a una sentenza della Corte di Cassazione del 2011 che ha fatto addirittura ripartire gli abbattimenti, ritenendo tale norma applicabile anche alle alberature già esistenti prima dell’emanazione del nuovo codice. Un correttivo a questa determinazione è rappresentato dalla circolare 3224 del Ministero dei Trasporti, che consente di mantenere gli alberi piantati prima del 1992, pur rimanendo il divieto di reimpianto. Fin dai primi anni ‘60 la demolizione delle alberature stradali era stata motivata dalla necessità di aumentare la sicurezza della circolazione e di prevenire gli incidenti automobilistici, ma secondo un documentato dossier di Legambiente “non esiste alcuno studio che abbia messo in evidenza come la sola presenza di alberi lungo le strade provochi un aumento degli incidenti stradali e, contrariamente all’Italia, le norme di altre nazioni europee permettono di mantenere e ripristinare le alberate.” [29]
DALLE ALBERATE ALLE ROTONDE: USO E ABUSO
Il paesaggio stradale è molto cambiato e sempre più, al posto degli alberi sono stati inseriti altri elementi. La strada contemporanea ha visto affermarsi in modo sempre più massiccio i tunnel a ogni minimo rilievo del terreno, le palizzate fitte dei lampioni e dei tabelloni pubblicitari, le barriere antirumore, le scarpate cementificate e soprattutto le abusate rotonde. Sono questi ormai i principali ma improbabili strumenti di inserimento delle infrastrutture nel paesaggio circostante. Le rotonde, in particolare, si sono moltiplicate in modo quasi selvaggio negli ultimi decenni, mutando il paesaggio sotto i nostri occhi in modo tanto profondo e in tempi tanto rapidi che non ce ne siamo nemmeno accorti. Se in molti casi esse hanno effettivamente svolto, al posto dei tradizionali semafori, una funzione utile nella fluidificazione del traffico e nel rallentamento della velocità, in tante altre situazioni si è assistito a un abuso del loro impiego e anche a un aumento della pericolosità nella misura in cui costituiscono una improvvisa interruzione di carreggiate rettilinee, un ostacolo che di notte o in particolari condizioni di traffico può essere “dimenticato” dagli automobilisti: “Da qualche tempo – ha scritto pochi anni fa Ilvo Diamanti – la rotonda si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti. Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde “alla francese”, le chiamano. Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola” [30]. All’interno delle rotonde sono spesso sorti prati, giardini, alberi tropicali o sculture ardite: un non luogo con presunzioni paesaggistiche, uno spazio interdetto e inibito a ogni uso, uno dei tanti emblemi del consumo di suolo in Italia. Le rotonde hanno cambiato in poco tempo non solo la circolazione, ma anche il modo stesso di guardare e di pensare il territorio, divenendo metafora della stessa nostra società: “Pochi oggetti – conclude lucidamente Diamanti – sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo”.
Forse è giunto il momento di ripensare a una estetica delle strade che parta dalla lettura del territorio e non dalla priorità dell’automobile, dalla qualità del viaggio e non dall’ansia della meta. In questo senso lo studio delle alberature tradizionali, dei ruoli e delle funzioni che esse hanno svolto nel tempo, può rappresentare un aspetto per ricostruire un rapporto equilibrato tra infrastrutture e paesaggio, nel quale esse costituiscono certamente una utile mediazione. Per questo le alberate e gli alberi isolati sopravvissuti ai bordi delle strade italiane sono da salvaguardare come parte significativa del patrimonio arboreo del Paese, considerando tutte le possibili soluzioni alternative all’abbattimento. Dobbiamo ritrovargli un senso, una dignità e un’utilità, senza trascurare – come in dica chiaramente l’esperienza storica – che la strada è anche un segno culturale impresso sul territorio.
Note al testo
1 Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n. 285, Nuovo codice della strada.
2 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1979, p. 177 ss.
3 F. Panzini, Per i piaceri del popolo. L’evoluzione del giardino pubblico in Europa dalle origini al XX secolo, Zanichelli, Bologna, 1993.
4 Per l’Italia cfr. tra gli altri la sintesi di J. Day, Strade e vie di comunicazione, in Storia d’Italia, vol. 5, I documenti, t. I, Torino, Einaudi, 1973, pp. 87-120; L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, in Storia d’Italia, Annali 8, Insediamenti e territorio, a cura di C. De Seta, Torino, Einaudi, 1985, pp. 287-366.
5 H. C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Bari, Laterza, 2009.
6 F. Cardini, Il pellegrinaggio. Una dimensione della vita medievale, Roma, Vecchierelli, 1996.
7 A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale, Bologna, il Mulino, 2008.
8 Cfr. la sintesi di C. Redina, Poveri viali alberati, due secoli di distruzioni, “La Repubblica”, Roma, 7 giugno 2001.
9 J. Day, Strade e vie di comunicazione, cit., p. 98.
10 L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, cit., p. 302.
11 M. Meini, Paesaggio e territorio nella Toscana di ieri: in viaggio con il Grand Tour, in Itinerari in Toscana. Paesaggi e culture locali, risorse per un turismo sostenibile, a cura di M. Azzari, L. Cassi e M. Meini, Firenze, Edizioni PLAN, 2004, pp. 31-78.
12 I. Agostini, Il Paesaggio antico. Res rustica e classicità tra XVIII e XIX secolo, Firenze, Aiòn, 2009, p. 92.
13 Ivi, p. 93.
14 M. Ambrosoli, Alberate imperiali per le strade d’Italia : la politica dei vegetali di Napoleone, « Quaderni storici », 99, a. XXXIII, n. 3, 1998, pp. 707-738.
15 E. Morelli, Disegnare linee nel paesaggi. Metodologie di progettazione paesistica delle grandi infrastrutture viarie, Firenze, Firenze University Press, 2005.
16 Stendhal, Promenades dans Rome, Paris, Calmann Lévy, 1883, pp. 172-173.
17 G. Savi, Ragionamento sui boschi, “Giornale agrario toscano”, I, 1827, pp. 43-70; anche in “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia”, XXI, 1828, pp. 113-138.
18 O. Targioni Tozzetti, Intorno al Ragionamento sui boschi del prof. Savi, “ Giornale Agrario Toscano”, I, 1827, pp. 295-304. Anche questo scritto fu ripreso dal “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia”, XXII, 1828, pp. 20-28.
19 P. Petitti, Repertorio amministrativo, ossia collezione di leggi, decreti, reali manoscritti, ministeriali di massima, regolamenti ed istruzioni sull’amministrazione civile del Regno delle Due Sicilie, Napoli, Migliaccio, 1851, vol. III, p. 590.
20 M. Agnoletti, Il paesaggio come risorsa. Castagneto negli ultimi due secoli, Pisa, ETS, 2009, pp. 68-71.
21 Legge n. 2248/1865, art. 9: “Le strade ordinarie d’uso pubblico sono distinte in nazionali, provinciali, comunali e vicinali”.
22 R.D. 15 novembre 1923, n. 2506, Norme per la classifica e la manutenzione delle strade pubbliche.
23 E. Morelli, Strade e paesaggi della Toscana. Il paesaggio dalla strada, la strada come paesaggio, Firenze, Alinea, 2007.
24 G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Baldini&Castoldi, 2003, pp. 401 e 414.
25 A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino, 1975, pp. 57-58. Tema poi ripreso e ampliato dallo stesso Cederna in Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese: sventramento di centri storici, lottizzazioni di foreste, cementificazione , Roma, Newton Compton, 1991, pp. 182-185.
26 V. De Lucia, Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia, Parma, Diabasis, 2010.
27 L’articolo è ripreso in A. Cederna, Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese, Roma, Newton Compton editori, 1991, pp. 183-85.
28 Regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada D.P.R. 16.12.1992 n° 495.
30 Diamanti, Società rotonda, anzi rotatoria, “La Repubblica”, 23 gennaio 2009.
Fonte: srs di Rossano PAZZAGLI, da “Scienze e ricerche”, n. 5, marzo 2015, pp. 59-65
Fonte: da Officina dei saperi del 11 maggio 2018
SEMPRE MENO ALBERI FIANCHEGGIANO LE NOSTRE STRADE. LA POSIZIONE DEL WWF
Verona statale 11
Si continuano ad eliminare gli alberi che fiancheggiano le nostre strade. Recentemente ne sono stati tagliati parecchi lungo la strada che va da Peschiera a Verona.
Il codice della strada prescrive: "La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per impiantare alberi lateralmente alla strada, non può essere inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 m".
Perciò se si volesse piantare un platano o un tiglio bisognerebbe stare a oltre i 30 metri dal ciglio stradale!
Pubblichiamo la presa di posizione del WWF su questo argomento.
I filari di alberi lungo le strade sono destinati a sparire?
E così un altro pezzo del nostro paesaggio se ne è andato! Ci sono stati tolti altri 120 grandi platani che crescevano lungo la Strada Statale 11 (ora Strada Regionale), nei comuni di Sona e Bussolengo. Leggendo i giornali veniamo a sapere che erano stati ritenuti pericolosi per chi ci transitava a fianco. Se ne stavano lì, immobili e in bella vista, da oltre un secolo, ma «costituivano un pericolo per la pubblica incolumità», come ha spiegato il presidente di Veneto Strade. Gli alberi sono diventati una grande responsabilità per chi deve occuparsi delle strade italiane, se succede un incidente si rischiano pesanti accuse e, come è già successo, condanne confermate in Cassazione. La soluzione più veloce è quella di spostarli altrove ... dopo averli tagliati a pezzi. Così stiamo perdendo non solo quel che rimane del paesaggio padano ma anche pezzi di storia e di cultura. Le alberature stradali mitigano il clima, riducono il rumore del traffico, e assorbono sostanze inquinanti. Producono ossigeno e danno ospitalità a molte forme di vita. I francesi, già nel ‘700, avevano emanato leggi e regolamenti per l’alberatura delle strade principali e, nonostante l’opinione espressa da Stendhal*, anche in Italia, fino alla metà del XX secolo, si favoriva la costituzione di filari di alberi lungo le strade statali, ma anche lungo le prime tratte autostradali. Poi arriva il boom economico, le automobili diventano sempre più numerose, vogliamo andare più veloci, non abbiamo bisogno dell’ombra perché c’è l’aria condizionata e le nostre belle piante diventano un impiccio. Ci si può sbattere contro e «possono perdere pezzi e rami in ogni momento». Nascondono i cartelli stradali, i cartelli pubblicitari, le insegne di negozi e ristoranti, di fabbriche e supermercati. In molti casi fanno ombra alle coltivazioni delle nostre “eccellenze alimentari”. Se non si trovano sufficienti scuse per segarli, si trovano metodi per farli morire. Nel 1992 arriva infine la riforma del Codice Stradale e, di seguito, le sentenze della magistratura a carico dei responsabili delle manutenzioni stradali: gli alberi sono pericolosi! Ci chiediamo se è giusto che sia il codice della strada a determinare le caratteristiche del Paesaggio Italiano! Lungo le strade extraurbane, tutti i tipi di strada, gli alberi devono stare a distanza di sicurezza, quelli presenti prima del 1992 possono restare ma non possono essere piantate nuove piante se non a distanze troppo elevate. Così, anno dopo anno, vedremo inesorabilmente diminuire il numero dei grandi, spesso magnifici, alberi che un tempo segnavano il paesaggio padano. Finché il codice stradale rimane così questa prospettiva sarà inevitabile, ma si dovrebbe cercare di limitare i danni prendendosi cura con attenzione di questo patrimonio storico. Spesso gli alberi non sono in condizioni ottimali a causa di azioni umane: potature non corrette, danni provocati alla corteccia e alle radici, uso di sostanze chimiche nei loro pressi e altro ancora. È importante quindi la prevenzione: l’ente che gestisce strade alberate dovrebbe fare periodiche ispezioni per controllarne la salute e intervenire rapidamente quando si trovasse una pianta in sofferenza. Le attuali metodologie fitosanitarie consentirebbero, se applicate tempestivamente, di salvare la maggior parte degli alberi. La manutenzione adeguata degli alberi ha un costo, che deve essere riconosciuto e sostenuto dalla comunità così come avviene per qualsiasi manufatto di importanza storica o architettonica. Per questo abbiamo scritto a Veneto Strade, in primo luogo per chiedere la prevenzione e la cura delle piante in “non ottime condizioni”, ma anche per fare la seguente proposta. Veneto Strade dovrebbe cercare di piantare nuovi alberi e siepi in tutte le aree di sua pertinenza che siano adatte allo scopo. Ci sono, ad esempio, quei terreni marginali che rimangono inutilizzati quando si costruiscono le nuove grandi strade o i vari raccordi. Un intervento di questo tipo è stato recentemente attuato lungo la “Nuova Grezzanella” nei comuni di Villafranca di Verona e Povegliano Veronese. Ci sono anche le aree all’interno di alcuni grandi svincoli dove, al posto dei prati che vengono regolarmente falciati, ci potrebbero stare, senza intralci alla circolazione, dei piccoli boschi che, oltretutto, richiederebbero una minore manutenzione.
Associazione WWF VERONESE
via Risorgimento 10 37126 – Verona
verona@wwf.it
Fonte: da radio popolare Verona del 12 febbraio 2016