Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio
dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica
dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il
cui capostipite fa parte del B’nai
B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario.
Lo afferma l’avvocato Gianfranco
Pecoraro, alias Carpeoro, che
pubblica su Facebook
una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste»,
scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la
Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica.
Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per
aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un
religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente
islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi».
Il 15 novembre e’
l’anniversario della morte di Edoardo Agnelli. Se le fonti sono giuste, questa
foto e’ stata scattata a Tehran il 27 Marzo 1981 durante la preghiera del
Venerdi’ condotta dall’Ayatollah Seyyed Khamenei. Edoardo e’ in prima fila
sulla destra.
Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli,
trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa.
Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue
inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta
web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che
risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».
L’impatto sulla famiglia, di una scelta così radicale? «Per
l’Avvocato, bastava che Edoardo non mettesse piede in azienda», dichiara
Carpeoro a Fabio Frabetti di “Border Nigths”. «Poi lì
c’è un entourage, però, che mal sopportava questo, sicuramente». E aggiunge:
oggi siamo passati da un Sufi a una famiglia il cui capostipite, «che poi è il
marito di Margherita Agnelli», cioè lo scrittore e giornalista Alain Elkann, appartiene al B’nai
B’rith, espressione «di un certo sionismo reazionario che ha fatto tanti danni
alla cultura israeliana».
Il primo che si è scagliato contro questo tipo di potere «è un grande
personaggio della cultura ebraica che si chiama Moni Ovadia», dice Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al
terrorismo”. B’nai B’rith? Per Wikipedia, si tratta
di una innocua loggia di ebrei, di prevalente origine tedesca, nata un secolo
prima dello Stato di Israele: fondata il 13 ottobre del 1843 a New York. Da
allora, i “figli dell’alleanza” hanno una missione ufficiale: assistere i
poveri. «L’organizzazione partecipa a numerose attività legate ai servizi
sociali, tra cui la promozione dei diritti degli ebrei,
l’assistenza negli ospedali e alle vittime dei disastri». Inoltre, la “lega dei
fratelli” stanzia premi per gli studenti di scuole ebraiche e combatte
l’antisemitismo tramite il suo Center for Human Rights and Public Policy.
Oltre alle sue attività sociali, continua Wikipedia, il
B’nai B’rith è anche un sostenitore dello Stato di Israele: insieme all’Aipac, potente lobby ebraica di
Washington, la super-massoneria ebraica ha finanziato associazioni giovanili e
studentesche.
Ma, secondo Carpeoro, non sono soltanto umanitari gli scopi
del B’nai B’rith, che apparterrebbe a pieno titolo al panorama delle
potentissime superlogge internazionali, in strettissimo contatto con il Mossad,
l’intelligence di Tel Aviv: sempre secondo Carpeoro, al B’nai B’rith
apparteneva anche l’anziano Lion
Klinghoffer, ucciso dal commando palestinese che dirottò la nave la
crociera Achille Lauro nel 1985, da cui poi la crisi di Sigonella, con i
carabinieri inviati da Craxi a proteggere i dirottatori, che i marines volevano
catturare.
Una tensione senza precedenti, in ambito Nato, che probabilmente costò il
futuro politico dello stesso Craxi: «La sua telefonata con Reagan – racconta
Carpeoro, allora vicino al leader socialista – fu deliberatamente mal tradotta,
in diretta, dal politologo statunitense
Michael Ledeen: cosa che Craxi non gli perdonò mai, perché compromise i
suoi rapporti col presidente Usa».
Di Ledeen,
Carpeoro ha parlato spesso, anche nel suo saggio (uscito nel 2016) che denuncia
la manipolazione atlantica dell’opaco neo-terrorismo europeo targato Isis.
Ledeen?
«All’epoca era vicino a Craxi, ma al
tempo stesso anche a Di Pietro. Poi,
in tempi assai più recenti, è stato al fianco di Renzi ma anche del grillino Di
Maio».
L’altra notizia? «Lo stesso Ledeen è un autorevole esponente del B’nai B’rith».
Dunque il giovane Edoardo Agnelli, già scomodo anche per la
Fiat (durissima una sua lettera al padre, all’epoca di Tangentopoli) poteva non
essere più facilmente tollerato in una famiglia con componenti fortemente
sioniste? La verità è più complessa, spiega Carpeoro, ricordando che Gianni
Agnelli ha sposato la principessa Marella Caracciolo, sorella del fondatore de
“L’Espresso”: «La linea materna di Edoardo è particolare: colta, raffinata, un
po’ decadente». Il giovane Agnelli, semplicemente, «era molto più simile al
ramo di sua madre che non a quello di suo padre».
Lo conferma, nel modo più estremo possibile, il motto dei
Sufi: “Nel mondo, ma non del mondo –
nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”.
Quando a Torino si impose il ramo Elkann, ricorda Lapo in
un’intervista rilasciata a Giovanni Minoli per “La Storia siamo noi”,
Edoardo Agnelli era già stato “bruciato” una prima volta dalla scelta del
cugino Giovannino (Giovanni Alberto, figlio di Umberto Agnelli) come successore
dell’Avvocato al vertice dell’impero Fiat.
Poi Giovannino morì e al suo posto, pochi giorni dopo il
funerale nel dicembre 1997, ricorda Gigi Moncalvo su “Lo Spiffero”, nel
consiglio di amministrazione della Fiat venne nominato John Elkann, che di anni ne aveva appena 22 e nemmeno era laureato.
Nella sua ultima intervista, rilasciata a Paolo Griseri per il “Manifesto”, il
15 gennaio 1998, Edoardo Agnelli boccia la designazione di “Jaky”: «Considero
quella scelta uno sbaglio e una caduta di stile, decisa da una parte della mia
famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre». E
aggiunge: «Non si nomina un ragazzo pochi giorni dopo la
morte di Giovanni Alberto, per riempire un posto». E ancora: «Si è preferito
farsi prendere dalla smania con un gesto che io considero offensivo anche per
la memoria di mio cugino».
Nel documentario di Minoli, è lo stesso Lapo Elkann – non
ancora travolto dal suo secondo scandalo sessuale, quello di New York – ad
avere parole umanissime per Edoardo Agnelli: «Era una persona bella dentro e
bella fuori. Molto più intelligente di quanto molti l’hanno descritto: un
insofferente che soffriva, che alternava momenti di riflessività e momenti
istintivi». Nella villa di famiglia a Villar Perosa, in val Chisone, non
lontano dal Sestriere, «ci sono state tante gioie ma anche tanti dolori». Dice
Lapo, di Gianni Agnelli: «Con tutto l’affetto e il rispetto che ho per lui e
con le cose egregie che ha fatto nella vita, mio nonno era un padre non facile.
Quel che ci si aspetta da un padre – dei gesti di tenerezza, non parlo di potere: i gesti normali
di una famiglia normale – probabilmente mancavano». Lapo Elkann riconosce
quanto abbia pesato, su Edoardo, l’indicazione di far entrare suo fratello,
John Elkann, nell’impero Fiat: «Credo che la parte difficile sia stata prima,
la nomina di Giovanni Alberto. Poi, “Jaky” è stata come una seconda costola
tolta. Ma Edoardo si rendeva conto che non era una posizione per lui», così
portato per l’introspezione filosofica e religiosa – addirittura pervasa dal
misticismo Sufi, quello dei Dervisci rotanti, la confraternita iniziatica
fondata dal sommo poeta afghano Rumi nel 1200.
A ben altra scuola esoterica, secondo Carpeoro, appariene
invece l’ebreo Alain Elkann, classe 1950, nato a New York da padre
francese e madre italiana, giornalista e scrittore, docente universitario in
Pennsylvania. Suo padre, il rabbino Jean-Paul
Elkann, banchiere e industriale, è stato presidente del Concistoro ebraico
di Parigi. La madre di Alain, Carla
Ovazza, discende da una famiglia di banchieri torinesi (e nel 1976 fu
vittima di un sequestro di persona). Un suo zio, il banchiere Ettore Ovazza,
fascista fino al 1938 e amico di Mussolini, aveva fondato il giornale ebraico
antisionista “La Nostra Bandiera”, prima di essere assassinato nel 1943 dai
nazisti.
Giornalista e scrittore, Alain Elkann è stato sodale di
Alberto Moravia e Indro Montanelli. Ha scritto romanzi e saggi, anche in
collaborazione con personaggi prestigiosi come Elio Toaff, storico rabbino capo
emerito diRoma, nonché l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e il Re di
Giordania Abdullah. Tema a lui caro: la fede ebraica in rapporto alle altre
religioni, e l’essere ebrei oggi. Dal 2004 è presidente della Fondazione del
Museo Egizio di Torino, e ha collaborato con l’allora ministro Sandro Bondi
(beni culturali).
Alain Elkann è membro della Fondazione Italia-Usa e fa parte del comitato
scientifico del Meis di Ferrara, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e
della Shoah, nonché di istituzioni universitarie italo-americane. Nel 2009 è
stato anche insignito della Legion d’Onore, massima onorificenza francese. Ma
ovviamente nel suo curriculum non c’è traccia dell’appartenenza al B’nai
B’rith.
Suo figlio, John, è oggi il reggente dell’impero industriale
Fca, Fiat-Chrysler. Suo cognato Edoardo Agnelli morì suicida, senza un cenno di
addio, o fu assassinato? E’ la domanda irrisolta a cui cerca di rispondere
Minoli, nel suo reportage televisivo. «Se qualcuno mi dimostrasse che Edoardo è
stato ucciso ne sarei in qualche modo felice, perché significherebbe che non
era così disperato da fare questo gesto», dice il cugino, Lupo Rattazzi,
convinto però che Edoardo fosse proprio deciso a farla finita. «L’inchiesta
giornalistica sulla figura dell’erede mancato della famiglia Agnelli, e sulla
sua tragica scomparsa – scrive Mario Baudino sulla “Stampa”
– mette in fila tutti gli elementi, anche quelli controversi, di un avvenimento
che, data la notorietà del protagonista, ha avuto negli anni anche
interpretazioni assai dietrologiche».
Soprattutto, aggiunge il giornalista, Minoli ricostruisce
una personalità complessa e tormentata, e una vicenda umana dolorosa. A tenere
aperto il giallo sulla fine di Edoardo Agnelli è la testimonianza di un
pastore, che la mattina del 15 novembre
del 2000 pascolava i suoi animali sulle rive del fiume Stura di Demonte: l’uomo
sostiene di aver visto il cadavere di Edoardo Agnelli verso le 8.30, cioè molto
prima che l’auto – abbandonata sul viadotto soprastante – avesse varcato il
casello autostradale. Ma l’ex capo dei Ris di Parma, Luciano Garofalo, non dà credito alla testimonianza: la ritiene un
tipico caso di auto-inganno della memoria. Se invece il pastore avesse ragione,
scrive Baudino, «bisognerebbe pensare che sulla Croma di Edoardo Agnelli ci
fosse, in quel momento, qualcun altro; anzi, che ci fosse sempre stato qualcun
altro a bordo. Un giallo troppo complicato e inverosimile».
C’è poi la tesi di una televisione iraniana, che aveva fatto
scalpore con un documentario in cui prospettava l’ipotesi di un omicidio
“sionista”, «commesso per eliminare un erede della dinastia italiana
convertitosi all’Islam».
Edoardo Agnelli, ricorda Baudino, era affascinato dalle
fedi: si era laureato in storia
delle religioni, con una tesi su quelle orientali. Era «affascinato dalla
mistica Sufi», anche se «nessuno degli amici più intimi ha mai avuto il più
lontano sentore che fosse diventato musulmano». A ricordarlo, oggi, c’è invece
quella foto inequivocabile, postata su Facebook da Carpeoro.
Fonte: da Libre del 13 novembre 2017