Federico Faggin: Il padre del computer piccolo e maneggevole «Servono idee e risorse» Faggin, è vicentino, ma vive e lavora in California
PADOVA—Il padre del microprocessore è nato a Vicenza (Isola Vicentina nel 1941, Comune dell'Alto Vicentino di circa 8.000 anime ) ha studiato a Padova. Eppure non c'è traccia di accento veneto nella voce di Federico Faggin, 68 anni, il geniale ricercatore emigrato in America che tra meno di un mese riceverà dal Presidente Obama il più prestigioso riconoscimento statunitense riservato agli scienziati, la Medaglia nazionale per la tecnologia e l'innovazione.
Se dopo 42 anni di trasferta l'inflessione se n'è andata, c'è una cosa della nostra regione che Faggin porta ancora con sé. «L’etica del lavoro è alla base della cultura veneta, la devo alle mie origini» ammette il primo italoamericano (ha la doppia cittadinanza) a finire nella Hall of Fame della scienza d'oltreoceano.
Il suo «contributo», come lo chiama lui, è quella rivoluzionaria invenzione che ha reso i computer piccoli e maneggevoli.
Nel 1971, alla Intel, Faggin trovò il modo di concentrare su una piastrina di 4 millimetri per 3 un «supercircuito integrato» con le capacità di calcolo che prima avevano supporti grandi quanto un tavolino.
Nacque così quel microprocessore finito dentro a tutti i calcolatori del mondo. Un po' più di un semplice «contributo », quindi. Ma è tipico di Faggin misurare le parole. Da buon scienziato, pondera quello che dice per non essere frainteso. Gli preme non far passare un'idea negativa dell'Italia, anche se lui dall'Italia se ne è andato.
Lei è partito nel 1968, quando qui da noi c'erano ancora gli effetti del boom post-ricostruzione. «Sì, è vero, ma nell'area di mio interesse, quella dei semiconduttori e della microelettronica, l'America era più avanti dell'Italia. E io volevo lavorare in un ambiente all'avanguardia».
Se tornasse indietro, ripartirebbe? «Assolutamente sì, soprattutto vedendo che fine hanno fatto le aziende italiane che all'epoca non erano così lontane dalla tecnologia americana, come la Olivetti. Sono sparite e non sono state rimpiazzate. Ma non è una critica, è una constatazione. Io avevo iniziato proprio in Italia a lavorare sui semiconduttori, alla Sgs-Fairchild di Agrate Brianza.
Però qui non sarebbe riuscito a inventare il microprocessore.
«Credo di no, per fare una scoperta come questa ci devono essere competizione scientifica, progettisti che realizzino le idee scaturite dalla ricerca e soldi per trasformare un'intuizione in un prodotto spendibile sul mercato. L'invenzione del microprocessore era già nell'aria, il mio contributo ha riguardato il design, cioè il modo per concretizzarla. Questo per dire che la ricerca non basta, è solo la prima fase».
E la ricerca in Italia? Saprà delle proteste contro la riforma dell'Università.
«Conosco troppo poco l'argomento per poter prendere posizione. Ma in generale è un errore pensare che l'Italia non sia all'avanguardia in certi settori, come le nuove tecnologie, perché fa poca ricerca. Anche se ne facesse molta, poi ci vorrebbero le altre due fasi: realizzazione e immissione sul mercato. Negli Stati Uniti c'è un'infrastruttura finanziaria che investe 40 miliardi di dollari l'anno per realizzare le idee di chi fa ricerca, e una propensione ad assumersi rischi economici che in Italia non c’è. Questa è la grande differenza rispetto alla Silicon Valley. Ma al di là del campo tecnologico, ci sono altre eccellenze in Italia, per esempio la gastronomia, il design, la fisica teorica».
Quindi che consiglio dà ai giovani ricercatori? La fuga?
«No, la fuga tout court è ridicola. Il mio consiglio è decidere prima se restare in Italia o meno. Chi vuole rimanere si laurei in uno dei settori in cui l'Italia funziona, come l'ingegneria civile, le biotecnologie, la farmacia. Chi invece vuole occuparsi di settori in cui l’Italia è meno forte metta in conto di andarsene. L’Unione Europea, comunque, facilita questa mobilità: ormai andare dall’Italia all’Inghilterra è come andare dalla Puglia alla Lombardia».
È un caso che sia veneto anche l’inventore dell’algoritmo alla base di Google, Massimo Marchiori, o c'è una qualche specificità regionale?
«Sarà il vino, probabilmente… Scherzi a parte, l'Università di Padova offre una preparazione scientifica molto buona, e poi ci ha sicuramente aiutato l'etica del lavoro su cui si fonda il Veneto».
Lei è il padre di un'invenzione epocale ma non è famoso come Bill Gates. Le dispiace?
«È già tanto che io sia noto mentre sono ancora in vita, spesso la fama arriva dopo morti….E poi il mio obiettivo non era la notorietà, ma lavorare nel settore che mi appassionava. Comunque sono più conosciuto in Italia che negli Stati Uniti… qui sanno chi sono solo in California».
Fonte: srs di Alessandra Dal Monte
da il Corriere del Veneto del 22 ottobre 2010