sabato 15 novembre 2025

I MONTANARI DIVENTARONO CONTRABBANDIERI MA TONI SBERLARI STABILÌ IL SENSO DI GIUSTIZIA

 



li ultimi tornanti del sentiero che sale la Valbona, le gambe si fanno sentire. Penso ai contrabbandieri camminare per questo sottobosco scosceso di notte, nella neve, portando sulle spalle carichi di trenta, quaranta chilogrammi. Quanta determinazione e quanta fatica. Da Ala fino ai pascoli delle Scorteghere sono più di mille metri di dislivello. Li percorrevano, questi eroi della sopravvivenza, senza scarponcini e indumenti tecnici, che fosse pioggia o neve, vento o gelo.

La Fontana della Veceta è asciutta, sebbene abbia piovuto molto in queste settimane. Che strade sotterranee avrà trovato l’acqua che un tempo sgorgava da questa sorgente a rifornire le borracce dei portatori che salivano al confine? L’alta Lessinia fu per secoli terra di demarcazione tra il Regno Lombardo Veneto e quel dei Cechi. Le chiamavano così i montanari le terre governate dall’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria: Ceco Bepe. 


Il confine, quassù, era stato tracciato prima nel 1753 con il Trattato di Rovereto e poi nel 1815, quando si creò una regione veneta amministrata dall’Austria. Nel 1866, alla fine delle guerre di indipendenza, l’Austria cedette il Regno Lombardo Veneto alla Francia e quindi al neonato Regno d’Italia. Arrivarono i Piemontesi e in Lessinia, scherzando (ma non più di tanto), la chiamarono: l’invasione piemontese. I montanari erano così entusiasti dei nuovi arrivati che cantavano: «Vegnarà Vitorio Emanuele, se patirà na stissa de quele, el vegnarà con mostaci e barbeta, se patirà na fame maledeta». I così detti cimbri, coloni bavaresi presenti quassù fin dal Medioevo, che in cambio della custodia dei confini ottenevano dalla Serenissima esenzioni fiscali e militari, a poco a poco videro svanire i loro storici diritti.

Venne abolito il diritto di pensionatico, ovvero la possibilità di pascolare in inverno i campi abbandonati della pianura, cessarono gli usi civici sui beni comunali, che significava poter falciare erba e fare legna sui terreni pubblici, e infine, nel 1869, venne imposta la Tassa sul Macinato, subito ribattezzata Tassa sulla Fame.

E così i montanari diventarono contrabbandieri. Per ottenere a prezzi abbordabili le merci sottoposte ai vincoli doganali, i così detti generi di privativa, iniziarono a commerciare illecitamente oltre confine. Lo oltrepassavano di giorno, sotto gli occhi delle guardie che non potevano fare altro che lasciarli passare, vi ritornavano di notte, dopo aver comperato ad Ala sali, tabacchi, caffè, zucchero, pepe, cannella, chiodi di garofano e spirito.

L’Osteria della Veceta, nel folto del bosco dell’alta Valbona, era l’estremo luogo per ristorarsi prima di affrontare l’ultima erta. Quando mi appaiono le sue mura diroccate, intenerite dal lenzuolo di muschio che le copre, sento che il cuore sussulta non solo per lo sforzo ma per l’energia del mito che pervade questo luogo. Qualcuno ha messo dei ceppi di legna accanto a dei tizzoni di carbone, a dire che intorno al fuoco qui i contrabbandieri si scaldavano, trovavano un tavolo con un piatto di minestra e un giaciglio per dormire. E cosa importa se il tabellone informativo spiega che non di un’osteria si trattava, ma di un deposito per i beni da vendere ai malghesi e se il nome non fu dato per la vecchietta che l’avrebbe gestita ma per la pianta delle vecce che cresceva in questa valle? La leggenda a volte è più vera della realtà e questo luogo è, e resterà sempre, l’Osteria della Veceta.

I contrabbandieri erano per lo più dei pori cani. I sindaci che scrivevano ai prefetti li difendevano, certificando le condizioni economiche compassionevoli delle loro famiglie. In cimbro li chiamavano de Tragar, i portatori, mentre i finanzieri erano Pinter, dal verbo pinten, legare. Li avevano messi gli uni contro gli altri, come chi comanda sa fare molto bene, in una guerra tra morti di fame. Ma quella volta ci pensò uno strano uomo a ristabilire il giusto confine tra le cose.

La storia dice di un contrabbandiere che era salito da solo da Ala. Giunto all’Osteria della Veceta, sfinito per aver camminato nella neve alta, si vide costretto a desistere e decise di tornare indietro, quando gli si presentò di fronte un uomo mastodontico, con il cappello da tirolese e ai piedi due grosse sgàlmare di legno. «Son el Toni Sberla che no’ porta mai la derla», esordì, e si offrì di portare la pesante carga del contrabbandiere a patto che gli fosse dato per compenso metà del suo contenuto. L’uomo accettò e seguì Toni Sberla nella neve. Quanto questi, per dissetarsi, si bevette metà dell’alcool contenuto nella latta che stava portando, il contrabbandiere pensò che si sarebbe ubriacato e sarebbe precipitato nella Valle dei Ronchi, ma Toni Sberla arrivò senza alcuna esitazione sullo strapiombo sopra i Cordoni. Percorro il sentiero che sale al Monte Aguz. Le cicatrici delle trincee della Prima Guerra Mondiale sanguinano l’insensatezza dei confini e delle guerre. Quassù, quando Toni Sberla vide le guardie di confine, andò loro incontro cantando l’Inno dei Contrabbandieri: «Noantri contrabandieri vegnemo su da Ala e co la carga in spala passemo el confin. No’ ghe sarà Vitorio e gnanca Garibaldi che co i so stronsi caldi i ne possa fermar!» Tentò di fermarlo il brigadiere della Finanza. Gli legò le braccia con delle catene, ma Toni Sberla le spezzò come fossero uno spago marcio. Allora il brigadiere gli sparò, ma i colpi del suo archibugio rimbalzavano sul corpo di quel bestione senza ferirlo. Quando il brigadiere, spaventato e disperato, si inginocchiò davanti a lui implorando pietà, Toni Sberla lo afferrò sotto le ascelle, lo mise in piedi davanti al contrabbandiere, costrinse i due a guardarsi negli occhi e disse: «No’ vedio mia che si du pori cani, tuti du? No’ sarea mia ora che ve spieghessi e che lassessi lì de farve del male l’un con l’altro?». Oltrepasso le postazioni dei cannoni della Grande Guerra a Cima Mezzogiorno.

Un camoscio mi vede avanzare e mi guarda immobile, poi, con tutta calma, scende verso Malga Gasparine. Cima Sparavieri è avvolta dalla nebbia. Nella Valle dei Ronchi, Malga Brusà appare e scompare tre le foschie. Anche da laggiù salivano i contrabbandieri, per attraversare il confine oltre Passo Pertica. Accarezzo il cippo di pietra con la data del 1867 e penso che quegli uomini erano, in fondo, precursori di una civiltà senza barriere e confini. Erano dei disubbidienti, quelli per i quali nelle storie noi quasi sempre parteggiamo, ma quando viene il nostro momento di disubbidire… 

D’altronde, come scriveva Gianni Rodari: «Il mondo sono i disubbidienti a mandarlo avanti».

Fonte: srs di Alessandro Anderloni, da L’Arena di Verona  del 4 giugno 2025 

Nessun commento: