La PIANTA ANGELICA è
una grande pianta prospettica della città di Vicenza, realizzata in epoca
rinascimentale e conservata presso la Biblioteca Angelica di Roma, da cui
prende il nome. Si rifà alle vedute di città in voga nel Cinquecento, in primis
quella di Venezia realizzata da Jacopo de' Barbari nel 1500.
di Andrea Kozlovic
[saggio di Andrea Kozlovic con l’avvertenza che era già
stato pubblicato nel numero 2 di Storia Vicentina del giugno/luglio 1994]
Vicenza, municipium di diritto romano dal
49 a.C., fu, durante i secoli d’oro dell’impero, piccola città della X^
Regio Venetia et Histria, ricca però per industrie, commerci, agricoltura.
Testimonianza di questa opulenza, legata anche al fatto che la città era
attraversata dalla via Postumia, la presenza di un acquedotto della lunghezza
di più chilometri ed i cui resti sono ancora visibili poco lontano dalla città,
in contrà Lobia, di un grande teatro, di ricchi mosaici pavimentali, di
iscrizioni a carattere pubblico e privato. Ma anche Vicenza romana, i cui
termini andavano all’incirca dall’attuale Porta Castello all’altura di Santa
Corona e dalla fine di contrà Porti, dove inizia la bassura di Pusterla, a
ponte San Paolo, verrà colpita come il resto dell’impero dalla crisi del IV-V
secolo. Nel 451 d.C. la città verrà a trovarsi lungo l’itinerario di Attila,
subendo, come molte altre città dell’Italia nord-orientale, un saccheggio che
la tradizione ricorda tremendo. Vicenza farà parte poi, dopo la fine
dell’impero romano d’occidente, del regno gotico e puntualmente la tradizione
ricorda una visita di Teodorico alla città dove nel teatro romano di Berga
concedeva contributi per il restauro di edifici in rovina.
Del successivo, breve, periodo bizantino seguito alla guerra
greco-gotica, a Vicenza non rimangono tracce. Solamente un’iscrizione, nella
basilica di San Felice, ricorda un ufficiale di nome Johannes, originario della
lontana Armenia e che morì nella città berica in epoca imprecisata attorno alla
metà del VI secolo. Secondo quanto scrive Paolo Diacono, i Longobardi – sotto
la guida di re Alboino – lasciarono la Pannonia il 2 aprile del 568, lunedì di
Pasqua – diretti in Italia. Forum Julii, l’odierna Cividale, Cèneda e Treviso
furono le prime città conquistate; fu poi la volta di Vicenza che divenne così
il quarto ducato della provincia longobarda di Austria che comprendeva l’Italia
nord orientale con centro principale Verona.
Sono poche le notizie che le fonti storiche hanno tramandato
su Vicenza Longobarda: i nomi del nobile Vettari “de vicentina civitate”,
divenuto poi nel 670 duca del Friuli, e di Peredeo, caduto combattendo a
Ravenna nel 735; e poi Oronzio vescovo, presente al Sinodo di Marano Lagunare
nel 590, primo vescovo di Vicenza ad essere ricordato e forse essendo Padova
ancora bizantina, primo vescovo della diocesi berica.
Se le fonti storiche sono piuttosto parche di notizie, un
po’ più ricche sono le fonti archeologiche, anche se purtroppo molto è andato
perduto. Rimangono i resti della curtismaior, sede del duca longobardo, nelle
cantine del palazzo vescovile: un lungo muro massiccio, con uso anche di
materiale di recupero da edifici antichi. Vi è poi la vasca di Radoaldo, oggi
nella prima cappella a destra del Duomo, usata fino al 1823 come fonte
battesimale e che testimonia della presenza e dell’evergetismo di questo
gastaldo, cioè di un funzionario regio che affiancava il duca, nella Vicenza
del VII-VIII secolo. L’iscrizione radoaldvirmagnificusgastaldiuslavellumhunc et
potiale fieri ordenavet indica le funzioni del manufatto, abbeveratoio di acqua
potabile, posto forse nelle vicinanze del Duomo. Esistono poi numerosi
frammenti marmorei, iscritti e no, di età altomedioevale, spie preziose delle
attività in campo artistico, ritrovati nel corso degli scavi nella basilica di
San Felice e Fortunato e in Duomo.
Del più antico complesso architettonico dedicato ai santi
Felice e Fortunato, martiri sotto Diocleziano, e sorto fuori della città, extra
moenia, in un’area cimiteriale pagano-cristiana, rimangono molte tracce nei
mosaici pavimentali e nella pietra funeraria con l’iscrizione BEATI MARTURES
FELIX ET FORTUNATUS. Alla chiesa primitiva, verso la metà del V secolo, si
sostituì una basilica a tre navate, detta “teodosiana” per circoscriverne il
periodo di costruzione, di cui rimangono oggi alcuni tratti dei muri
perimetrali, specie lungo la parete destra e la parte inferiore della facciata.
A questa è contemporaneo il sacello, martyrion, di Santa Maria Mater Domini
dedicato al culto dei santi. E’ un piccolo edificio a croce inscritta, di poco
meno di 10 metri per lato, la cui struttura architettonica è ben conservata,
mentre della decorazione originaria, rimangono solo frammenti: un leone di San
Marco evangelista ed il ritratto clipeato di una Santa. Distrutta dagli Ungari
alla fine del IX secolo, il “Privilegio” del vescovo Rodolfo nel 983 la ricorda
ancora in rovina destitutum ac desolatum ob devastationem barbarorum
gentium quae nuper in Italiam irruerunt. E’ quindi successiva a questa data
la struttura attuale a tre navate con un sistema di sostegni a pilastri e
colonne, già del quadriportico, ricche di iscrizioni di età longobarda e
carolingia, e reimpiegate nella chiesa romanica.
Di questo periodo è pure la base della torre campanaria
ritoccata poi, nella parte alta, in età scaligera. Il portale è del 1154, opera
di Pietro Veneto, mentre gli affreschi ai lati della parte superiore dello
stesso, con scene dell’Apocalisse, della prima metà del secolo XI,
rappresentano l’unico frammento di una certa rilevanza della pittura romanica
in Vicenza.
Interessante problema era stabilire se accanto alla basilica
extraurbana di San Felice, ve ne fosse una urbana. Gli scavi compiuti dopo il
1945 hanno permesso di dare delle risposte plausibili. A metri 2,85 sotto il
livello attuale, sopra resti di costruzioni romane, vennero rinvenuti frammenti
musivi, pavimento di un edificio di culto cristiano, con il nome del donatore
CARPILIO SEN., databile per i caratteri stilistici tra la fine del IV e
l’inizio del V secolo. In questa epoca era quindi presente una chiesa urbana
che continuò ad essere utilizzata per tutto l’alto medioevo, come dimostrato
anche dai numerosi frammenti di arredo scolpito rinvenuti nello scavo:
transenne e capitelli databili VIII e IX secolo.
E’ questa la chiesa che Teodorico di Metz, poco prima del
Mille, ricorda essere sedem episcopalem infra urbem dove sub
altari depositi sunt i corpi dei Santi Lenozio e Carpoforo qui portati
dalla chiesa di S.Felice al tempo degli Ungari. Sopra questa basilica di età
tardo antica venne poi edificata una seconda chiesa il cui muro coincide con
l’attuale, ma più corta di 15 metri verso l’ingresso. Caratterizzata da quattro
file di pilastri, a croce i più interni ed a T i più esterni, era un edificio a
cinque navate con cripta ed atrio. Subirà poi una radicale trasformazione nella
seconda metà del Duecento assumendo una forma a tre navate. Alla fine del
Trecento il Duomo assumerà la forma attuale con un’unica grande navata e
cappelle aperte sui fianchi.
I Longobardi erano ariani al momento della loro discesa in
Italia, e della loro fede primitiva rimane forse testimonianza in un sarcofago
ritrovato a Sandrigo – oggi nell’atrio di palazzo Schio a Vicenza con dedica in
acrostico alla vergine Macrina, e che richiama nella dedica motivi ariani e
giudaizzanti. Si convertirono al cattolicesimo soprattutto per merito della
regina Teodolinda. Alla nuova fede eressero, soprattutto nei luoghi dove erano
le loro fare, cioè i gruppi di famiglie destinate a presidiare un determinato
territorio, chiese dedicate ai santi loro più cari: San Giorgio, San Michele,
San Martino, ed alla Vergine.
Ben poco rimane in città dell’architettura religiosa
altomedioevale: l’abbazia di San Pietro, del IX secolo, venne completamente
rifatta nel Quattrocento; la chiesa di San Giorgio in Gogna, ricordata in un
documento del 983, ma di certo più antica come testimoniato da un frammento
scolpito dell’VII-IX secolo, ancora conservato. Per San Silvestro, ai piedi di
Monte Berico, la tradizione l’afferma costruita per volere di Anselmo duca del
Friuli verso la metà dell’VIII secolo. Si può ritenere che la sua costruzione
sia di poco anteriore alla consacrazione dell’altare maggiore nell’anno 1182,
come ricordato dalle fonti.
In provincia ricordiamo San Giorgio di Caltrano, luogo di
culto di una fara che controllava la strada romana dell’Astagus ed il vicus
caltranese; San Giorgio di Velo d’Astico con interessanti affreschi romanici
con scene di cavalieri; San Martino di Brogliano con sculture sulla facciata:
la prima rappresenta un guerriero longobardo con lancia, lunga veste e lunghi
capelli, della prima metà del VII secolo, l’altra mostra due pavoni chinati
verso un chantarus. Murate nell’edificio di età romanica, provengono forse da
una necropoli longobarda dei dintorni.
A poca distanza da Vicenza abbiamo la chiesetta di San
Martino al Ponte del Marchese, con elementi decorativi di età longobarda
inseriti nella facciata, e quella di Santa Maria Etiopissa, sulla strada per
Bassano, con un pluteo di marmo greco, testimonianza della continuità, in pieno
secolo VIII, della cultura classica a Vicenza e molto vicino, nel concetto ed
esecuzione, alla lastra del sarcofago della badessa Teodata a Pavia. Numerosi
anche i reperti archeologici. Ricordiamo le necropoli di Villaraspa di Mason,
di Sandrigo, di Dueville e Sovizzo. Da quest’ultima provengono gli scheletri di
guerrieri – arimanni – oggi al Museo di Vicenza, le spade, gli oggetti della
vita di tutti i giorni: fibule, placche, borchie, pettini, vasi, vetri, punte
di lancia in ferro ed umboni di scudo. E sempre al Museo di Vicenza, una
crocetta aurea proveniente da Dueville, esempio notevole di oreficeria
barbarica.
Verso la fine del regno longobardo Vicenza fu sede di una
zecca reale; ne è testimonianza un tremisse d’oro con l’iscrizione
flaviaincencia, trovato in un tesoretto presso Ilanz nei Grigioni. All’ultimo
periodo longobardo, e precisamente al settembre 771, appartiene il primo
documento in cui viene citata una località del vicentino: un certo Aginperto
cede ad un monastero alcuni suoi beni in località Axegiatula, l’odierna Secula.
Nel 774, nonostante la strenua resistenza di re Desiderio e dei duchi
longobardi, tra cui Gaido duca di Vicenza, Carlo Magno diventa padrone d’Italia
e, più tardi, Sacro Romano Imperatore. Il sovrano franco fu a Vicenza nel
giugno 776, quando in città si era già insediato un conte franco.
Di questi conti non conosciamo il nome: i primi attestati
sono Adalberto ed Uberto nel febbraio 995. Carlo ed i suoi successori furono
generosi con Vicenza, facendola centro di gravitazione di un vasto territorio.
Ad esempio Lotario, con il Capitolare di Olona dell’825, istituiva a Vicenza
una pubblica scuola dove venivano a studiare i giovani di Padova, Treviso,
Ceneda ed Asolo. Alla fine del IX secolo e nel corso del X nella crisi
dell’impero carolingio, il passaggio a quello germanico e nelle vicende del
regno d’Italia, forse venendo meno l’ufficio comitale, il potere tende,
sconfinando in campo politico e temporale, ad accentrarsi nelle mani del
vescovo tanto che l’Assemblea cittadina viene ad avere la sua sede nella
cattedrale. Al vescovo, come appare da documenti che vanno da Berengario a
Corrado il Salico, spettava anche il compito di erigere castelli (il primo documentato
è quello, nel 1026, di Malo) e fortificazioni assieme alle nobili e ricche
famiglie che avevano vasti possedimenti in provincia: Maltraversi, da Sossano,
da Sarego, da Breganze, Trissino, da Vivaro poi presenti anche in città.
Famiglie potenti ma che, caso unico nel Veneto, non riuscirono a creare a
Vicenza una signoria cittadina.
Campanile medievale
della Cattedrale di Vicenza. Il basamento è parte di una fortificazione del X
secolo e la sopraelevazione è del XII secolo.
A questo periodo, fine X secolo, appartengono le torri del
Duomo e di San Felice e le prime fortificazioni cittadine: Porta Nova alle
Beccariette è ricordata in un documento del 1074. Esempio di castello, ai
limiti del territorio vicentino, è quello di Valbona, con torri, alte muraglie,
ponte levatoio, corte d’arme e camminamenti di ronda. Simile doveva essere il
castello di Montegalda, trasformato successivamente in villa. La necessità di
queste fortificazioni nasceva dalla drammatica esperienza delle invasioni
ungare. Qui a Vicenza la basilica di San Felice, allora isolata nella campagna,
ne era uscita distrutta.
A partire dal secolo XI, accanto al potere religioso, inizia
ad affermarsi un governo civile, laico, espressione delle classi emergenti dei
mercanti e degli artigiani, base di quella borghesia aggressiva, organizzata ed
insofferente ad imposizioni esterne che porterà la città a far parte della lega
veronese, nel 1167, e poi, per opera del podestà Guasco di Guasco, di quella
lombarda. Prima conseguenza di questa nuova situazione lo spostamento del
centro politico e commerciale della città dalla zona del Duomo alla Plathea
magna, l’attuale Piazza dei Signori, dove sorgeranno i palazzi delle sedi
comunali. A Vicenza i primi rectores o consules, in numero di 7 delegati al
governo cittadino, sono documentati nel 1147; il primo podestà, Widoda Vivaro,
non molto più tardi, nel 1180. Essere vescovo a Vicenza non era talvolta
facile: Cacciafronte viene colpito a morte da sicari nel 1184 mentre dal
vescovado si recava al Duomo; il suo successore Pistore verrà ucciso da una
freccia sotto il castello di Belvicino nei pressi di Schio qualche anno più
tardi.
Il ponte Furo,
scavalca il Retrone all’altezza del viale Eretenio e fino alla fine dell’800
dava accesso a Porta Lupia abbattuta in quegli anni. Di impostazione forse romana
del I secolo d.C, ma si rifà di certo a strutture antiche che davano garanzia
di solidità. Pare che la sua costruzione risalga all’Alto Medioevo
Vicenza, nell’alto medioevo in età longobarda e carolingia,
mantiene in linea di massima l’impronta romana a pianta quadrata incentrata sul
decumano massimo, la Strata Major, l’odierno corso Palladio, e
sul Cardo che da Contrà Porti scendeva verso la Piazza e Ponte
San Paolo, uno dei ponti romani sui fiumi che avvolgono parzialmente la città.
Gli altri ponti, da nord, erano quello degli Angeli, abbattuto nel 1882, quello
delle Barche, ancora esistente anche se fortemente rimaneggiato e Ponte Furo
del I secolo dopo Cristo, in pietra dura di Piovene, rimasto abbastanza integro
nelle sue strutture originali. Su questa città quadrata che dopo il Mille tende
ad ingrandirsi sulla spinta di quella che è una generale tendenza
all’urbanizzazione, si inserisce, a partire dalla fine del X secolo, una cinta
muraria oggi in gran parte scomparsa ma che Silvestro Castellini nella sua
descrizione di Vicenza, scritta poco prima della morte dell’autore nel 1630,
ricorda ancora intatta a separare la città vera e propria dai borghi. D’altra
parte la forma urbis del 1578, dono alla Vergine per la
passata peste del 1576, mostra Vicenza – quando la città si avviava ad avere
quell’impronta palladiana che la caratterizzerà fino a definirla “città
d’autore” – entro la cerchia medioevale con muraglie altissime, porte,
campanili e torri. Perduto l’originale, fuso dai francesi, noi oggi possiamo
ricostruirla tramite le immagini del Maganza che riprende la città da sud e del
Maffei che la mostra da nord.
Le mura più antiche tracciate a partire dal X secolo, quelle
che le autorità si impegnavano a costruire centum pedes de optimo muro
circum civitatem per annum, sono ancora bene riconoscibili nella Carta Angelica, una grande mappa di
Vicenza, oggi alla Biblioteca Angelica di Roma. La carta, datata 1580, mostra
la città in scala 1/1550 vista ad occhio d’uccello da un’altezza di alcune
centinaia di metri dalla verticale dell’attuale ex-aeroporto. Si riconoscono:
Porta Castello, con il poderoso torrione del 1343, sorta sopra una
fortificazione innalzata da Ezzelino nel luogo di una residenza appartenente ai
Maltraversi; la Porta Feliciana attraverso cui si usciva per raggiungere il
borgo di San Felice, porta ben visibile anche nella veduta della città nel
frontespizio della Nobiltà di Vicenza di Giovan Battista Dragonzino da Fano del
1525. Di questa porta rimangono solo poche tracce nella torricella che si
scorge subito a meridione di Porta Castello, molto rimaneggiata nell’800 ma ben
visibile nelle vedute settecentesche del castello scaligero.
Porton del Luzzo, casa torre della famiglia dei Lucii,
estinta verso la fine del secolo XIV, Torresin del Luzzo, ancora aperto nel
1262, poi chiuso a favore della vicina Porta Bericana e da ultimo ancora
riaperto nel 1544, quando agli abitanti del borgo di San Silvestro venne
concesso di rompere il Torresino et fare una Porta et Ponte. Porta
Berica, in contrà del Guanto, costruita presso le turrite case dei Dalesmani ed
attraverso la quale si prendeva la strada per Noventa. Abbattuta nel 1800, di
essa rimane oggi traccia nello strozzamento della strada e nel ricordo del
fossato, Seriola, che scorreva fuori le mura. Vi era poi la Porta di Ca’ Marzo,
ai limiti della contrada di San Pietro, sul Bacchiglione, verso le marcite, le
marze, di Casale.
Importante, all’imbocco della strada per Padova e Treviso,
era Porta San Pietro che finirà inglobata nel torraccio che serviva per
cappella maggiore e campanile della Chiesa di Santa Maria degli Angeli,
abbattuta nel 1880, ma ben visibile in un dipinto del Madonetta. Era alla
testata occidentale del ponte sull’Astico, e dal 1074, anno in cui viene
nominato per la prima volta, sul Bacchiglione, dopo che le acque del
capriccioso Astico che si allargava a formare il grande lago di Pusterla, a
nord della città, erano state deviate verso il Tesina. L’opera veniva
completata nel 1116 e dell’antico Astico rimase soltanto il ricordo del ben più
modesto Astichello che corre nel vecchio alveo del fiume deviato. Nulla più
rimane della Porta di Pusterla, a doppia struttura, al di qua ed al di là del
fiume, quest’ultima decretata super pontem nel 1254. L’alta
torre, che controllava il Borgo di Pusterla dove, nel 1217, erano stati fondati
il monastero e la chiesa di San Bartolomeo, già nel ‘600 era crollata senza
venire più ricostruita, come appare da mappe ed immagini di fine Settecento.
Uguale sorte toccava alla Porta Nova di San Lorenzo, così chiamata perché
costruita cum turri et domo merlata et zironata su una più
antica. Cadeva il 29 luglio 1779.
La libertà del Comune di Vicenza non durava molto. Dopo la
fiera stagione che aveva visto la città partecipe delle vittorie contro gli
imperiali all’interno delle gloriose leghe veronese e lombarda, la vigilia di
Ognissanti del 1236 Federico II ed il suo vicario Ezzelino III occupavano la
città lasciandola per una notte ed un giorno al saccheggio e rovinando, oltre
agli edifici privati, anche parte di quelli pubblici situati nella parte
centrale della città, il Peronio, che noi conosciamo da una carta dei primi
decenni della dominazione veneziana. Nel 1259 Ezzelino il tiranno veniva
sconfitto, cosicchè Vicenza tornava di nuovo libera. I primi atti della nuova
amministrazione furono, sotto il podestà Giovanni Gradenigo, il 16 gennaio
1262, un Regestum possessionum Communis Vincentiae da cui
vediamo che il Comune possedeva oltre duecento immobili, di cui quasi 130
botteghe, concentrati nell’area commerciale del centro città, il Peronio, in
cui erano anche le sedi dei principali uffici comunali: il Palatiumvetus, alto
stretto e turrito, oggi scomparso e che era situato tra Piazzetta Palladio e
Piazza delle Erbe. Devastato all’epoca del saccheggio degli imperiali nel 1236,
era stato restaurato nel 1260. Accanto a questo il Palacium Communis, costruito
tra il 1222 ed il 1223, sotto il podestà Lorenzo Strazza Martinengo, da anonimi
magistri de Cremona, super archivoltis magnis che possiamo
ancor oggi vedere negli arconi alle testate dei passaggi pedonali sotto i
porticati della Basilica Palladiana.
A fianco del Palacium Communis, verso oriente,
dove oggi è il Palazzo degli Uffici, era la Domus Comestabilis, già
casa di Gualdinello Bissari, acquistata dal Comune nel 1211 e residenza del
Podestà, e la vicina Torre Bissara, divenuta nel 1266 proprietà del Comune. Nel
1311 la torre veniva elevata fino alla cella campanaria e su questa torre, nel
1315, veniva installato il primo orologio pubblico del Veneto, orologio che ben
appare nell’immagine della città che illustra l’opera di Dragonzino da Fano. Ed
attorno vi era il centro commerciale, con la piazza della frutta, delle biade,
del vino, del pece menudo, del pesce pregiato con i banchi in pietra dei
venditori e le botteghe di contrà dei Giudei. Sul lato nord esisteva il turrito
e merlato palazzo del Capitanio, abbattuto nel 1571 per far luogo all’omonimo
attuale edificio, la chiesa di San Vincenzo, botteghe di
marzari-merciai-casolini, e la chiesa di San Eleuterio, una delle antiche
cappelle urbane del V secolo, nella contrà oggi di Santa Barbara.
Regesto dei possessi del 1262 e Statuti del 1264
sono momenti importanti, anche se ultimi, di Vicenza libero Comune in quanto ci
permettono di avere un’idea abbastanza esatta della struttura politica ed
economica della città negli anni immediatamente successivi alla fine del
dominio ezzeliniano. Nel 1266, le rivalità tra le fazioni guelfe e ghibelline
dei magnates portano il Comune a stringere un patto di
custodia con la potente Padova: l’unico ad opporsi a tale patto fu il podestà
Marco Querini, veneziano, che non voleva subire l’ingiuria di consegnare ad
altri quanto era stato a lui affidato.
Si ritorna quindi ad una condizione di sudditanza. I
Padovani, oltre ad imporre magistrati e gabelle, erigono a loro protezione, a
partire dal 1268 il Castello di San Pietro o dell’Isola, in quanto situato tra il
Bacchiglione e la Roza de Collo che correva, grosso modo, dove
è oggi la Stradella del Teatro Olimpico. Del castello rimangono oggi, oltre
alla cortina di mura ad occidente, la Torre Coxina o dell’Osservatorio in
quanto il Castello, persa la sua importanza, sotto gli Scaligeri venne adibito
a prigione e poi trasformato, nel 1616, nel Palazzo del Territorio, sede dei
Sindaci, del Cancelliere e dell’esattore. La costruzione del castello impose la
deviazione della strada che scendeva verso il Ponte degli Angeli, come mostra
la disposizione delle vecchie case, in asse con l’antico percorso.
Nel 1311, il giorno 15 aprile, Sigonfrido Ganzerra liberava
Vicenza dal dominio padovano, anche se in realtà si trattava semplicemente del
passaggio da una dominazione, quella padovana, ad un’altra, quella veronese dei
vicari imperiali, i Della Scala. I Veronesi ritennero opportuno rafforzare ed
ampliare le difese della città. Ad occidente, dove era stata proprietà degli
Ezzelini, venne eretta la fortezza di Porta Castello, con il grande torrione
completato ai tempi di Mastino II, quando Podestà di Vicenza era il bolognese
Bernardo Scannabecchi. Il grande torrione è tutt’oggi esistente, mentre il
castello, abbattuto nel 1819, è ben visibile nelle vedute settecentesche, tra
cui quella del Dall’Acqua e nelle carte del Catasto Napoleonico.
Alla fortezza di Porta Castello si aggiungeva, nel 1365,
quella della Rocchetta, possente manufatto su base quadrata di 32 metri, con
torri angolari, circondato da un fossato, la Seriola, oggi tombinata, con ponti
levatoi e chiuse. Putroppo oggi l’edificio, dopo le ultime giornate di gloria
del maggio 1848, è in pieno sfacelo.
Accanto al castello, le mura del nuovo quartiere di Porta
Nova, forse opera di Giovanni da Ferrara, rimaste in gran parte intatte anche
se non più merlate e con le torri scapitozzate ed in parte sostituite da case,
come nel tratto di contrà Borghetto. Ottimo esempio di architettura
tardomedioevale è Porta Santa Croce, terminata, secondo il cronista Conforto da
Costozza, nel 1388, con torre, ponte levatoio, corte d’arme e che Marcello
Fogolino riproduce nel paesaggio fantastico di un’epifania databile 1515. Il
vicino torrione rotondo e le altre opere militari fino a Porta San Bortolo,
porta fortissima de muro, appartengono al periodo veneziano, ai primi decenni
del Cinquecento.
Di una seconda Porta Nova, all’incrocio delle attuali contrà
Porta Nova, Mure Porta Nova e della Rocchetta, vediamo dalla Carta Angelica e
dal Dall’Acqua che essa era in angolo con la parete retrostante la loggetta del
Longhena. Essa venne fatta saltare la notte del 23 luglio 1926, seguendo il
destino di Porta Lupia abbattuta nel 1890 e di Porta Padova che aveva fatto la
stessa fine nel 1910. I veronesi, ormai al tramonto della loro signoria, nel
1370, fortificarono anche il borgo oltre Ponte degli Angeli, cioè quello di San
Pietro, con la Porta di Padova, nei cui pressi vediamo ancor oggi resti delle
mura e tracce del fossato restaurati dai veneziani nella seconda metà del
Settecento, e quella di Santa Lucia più volte rovinata e solo di recente
restaurata e le cui mura circostanti si sono salvate perché trasformate in case
di abitazione.
In provincia i resti medioevali non sono molti: di età
scaligera ricordiamo le mura di Marostica costruite all’epoca di Cangrande,
Mastino II, Cansignorio. Oltre al castello superiore, inferiore ed a quello di
mezzo, il Doglione, le mura sono rafforzate da 24 tra torri e rivellini, con
quattro porte, esempio unico di fortificazione di città del Trecento veneto.
Del castello di Lonigo, già dei Malacapella, sorto nel secolo X, rimangono oggi
solo due torri. Il resto veniva definitivamente abbattuto nel secolo scorso per
costruire l’attuale Duomo. Si trattava di una grande opera che poteva ospitare
fino a millecinquecento persone.
Sui colli di Montecchio Maggiore, su resti di castelli
precedenti, gli Scaligeri nel primo Trecento provvedevano ad innalzare due
rocche militari: il Castello di Bella Guardia a sud, conosciuto come castello
di Giulietta e quello di Villa a nord, di Romeo secondo la versione narrativa
del vicentino Luigi da Porto. Ad Arzignano, su un possedimento di un ramo della
famiglia dei Maltraversi, i veronesi rafforzarono un castello, terminato nel
1370. Una mappa seicentesca del perito Girolamo Roccatagliata ci dà l’immagine
esatta della fortificazione: seicentoquaranta metri di mura, dieci torricelle
scudate, due porte, un piccolo borgo raccolto attorno alla pieve. Del castello
rimangono oggi le porte, un breve tratto di mura e la pittoresca rocca.
Il nucleo difensivo di Bassano risale al secolo X, agli anni
delle invasioni ungare, quando venne incastellata la pieve di Santa Maria in
Colle. Fu merito degli Ezzelini prima e dei Visconti poi circondare la città di
una poderosa cortina di mura rimasta intatta fino alla fine del secolo scorso
quando fu oggetto di vaste ed inutili demolizioni. Rimangono oggi, oltre a
qualche tratto di muro, la Porta Dieda, verso Cittadella, e la Porta delle
Grazie, rimaneggiata con gusto classico nella seconda metà del Cinquecento.
Della Vicenza medioevale che il cronista tardo trecentesco
Godi ricorda ricca di case e torri – di queste ultime il solo Comune ne
possedeva quattordici – tanto che con Decreto promulgato nel 1208 il podestà
Guglielmo da Pusterla si vedeva costretto a regolare rigidamente una crescita
troppo disordinata di case e torri – non sono rimaste molte tracce. Lo stesso
Silvestro Castellini, descrivendo la città nei primi lustri del Seicento
lamentava che da cinquanta a sessanta anni in qua Vicenza è talmente rinnovata
che appena si vede alcun vestigio di una fabbrica vecchia.
Con la fine del dominio veneziano poi, gli abbattimenti si
accelerarono. Verso il 1820 era stato abbattuto il castello presso la porta
omonima. Pochi anni prima, nel marzo 1807, era stato abbattuto il tratto di
muro che dava sul Campo Marzo, da Porta Castello a Ponte Furo, e che appare ben
conservato nella veduta di Cristoforo Dall’Acqua subito dopo il 1780. Oggi
rimangono, a parte la basilica di San Felice, già ricordata, la torre
campanaria del Duomo, databile, almeno per la base in grandi pietre squadrate,
al secolo nono mentre la canna in cotto è posteriore.
Le case dei Loschi, del secolo XIII, miracolosamente
sfuggite alle demolizioni degli anni Trenta, la torre dello Zirone, già parte
delle case dei Carnaroli e così chiamata perché zironata, cioè circondata da
una profonda fossa, e salvatasi perché fino al 1880 parte del carcere
cittadino, resti di mura in Motton San Lorenzo, a Ponte Furo, a Porton del
Luzzo, a contrà Mure San Michele, in parte inglobati in abitazioni, e frammenti
di decorazioni incorporati in altri edifici come nel palazzo Sesso Fontana in
piazzetta Santo Stefano, dove sono ben evidenti le caratteristiche ghiere
d’arco inglobate nella facciata, certamente residui dell’edificio preesistente,
e la cornice in cotto del portale. In contrà Lioy rimangono finestre ad arco
acuto, con intradosso a gradoni con fasce di affreschi geometrici. Nulla rimane
invece del primo ospedale della città, quello di San Marcello: la Carta
Angelica ce ne conserva l’aspetto dopo i lavori di rifacimento del 1459.
Più numerosi, ed in pratica intatti o quasi, gli edifici a
carattere religioso eretti a partire dalla metà del Duecento su impulso degli
ordini religiosi mendicanti insediatisi in quel periodo in città. Santa Corona
la prima grande chiesa di tipo monastico costruita nel risveglio delle libertà
comunali subito dopo la fine di Ezzelino e, significativamente, sul luogo ove
era il castello Thealdum voluto dal tiranno.
Motivo della costruzione il dono di una spina della corona
di Cristo che Luigi IX di Francia, assieme ad un prezioso piviale, aveva donato
al cardinale Bartolomeo da Breganze, ma anche il fatto che nella contrada de
colle dove sorge la chiesa era più viva e diffusa l’eresia catara. La chiesa è
a tre navate, ampliata nel 1478 con un presbiterio ed un coro poligonale,
pesantemente restaurata nella facciata nella seconda metà dell’Ottocento, ma
ancora riconoscibile nelle linee originali nella litografia di Marco Moro. Il
campanile è della seconda metà del Duecento su fusto quadrato in laterizio.
San Lorenzo, chiesa francescana mentre Santa Corona è dei
Domenicani, venne eretta a partire dal 1280 sul luogo ove erano state scoperte
le reliquie dei Santi Lorenzo, Quirico e Margherita. Interessante la facciata
con uno stupendo portale a strombi e cornice intagliati, statue nella lunetta,
leoni stilofori ed arche del primo Trecento, sepoltura di quattro giuristi
vicentini. E’ opera di Andriolo de Santi, commissionata da Pietro da Marano.
Presenti in città in questo periodo anche gli Eremitani di
Sant’Agostino con il convento di San Michele, costruito nel 1264 quasi
contemporaneamente all’omonimo ponte sul Retrone. Venne abbattuto nel 1812, ma
possiamo averne un’idea abbastanza precisa attraverso la Carta Angelica ed i
disegni eseguiti dal Dall’Acqua agli inizi del Settecento: facciata simile a
Santa Corona, campanile analogo a quello di San Lorenzo.
Della metà del Duecento è anche il convento di contrà San
Tomaso, stabilito dai Canonici di San Marco di Mantova; di poco successivo
quello degli Umiliati a Santa Caterina. Ricordiamo l’abbazia di sant’Agostino
costruita nella campagna a sud della città tra il 1323 ed il 1347. Si presenta
con pianta a sala, tre absidi e notevoli affreschi soprattutto con scene della
vita di Cristo, opera quasi certamente di anonime maestranze veronesi.
Di poco posteriore è San Giacomo Maggiore, i Carmini, del
1372. Passata la chiesa attraverso varie vicissitudini di cui ultima la
trasformazione in neogotico negli anni ’60 del secolo scorso, delle strutture
originali rimane solamente un fregio ad archetti acuti pensili.
Del periodo scaligero è la chiesa di Santa Maria in Foro, i
Servi, dei primi decenni del Trecento, di cui rimangono integri il Presbiterio
e l’abside dopo che la facciata venne completamente trasformata nel corso del
Settecento.
Rimaneggiata molto anche la Chiesa di San Vincenzo, del
periodo visconteo, dedicata al nuovo patrono in luogo dei precedenti Eufemia,
Innocenza, Leonzio e Carpoforo. Venne poi incorporata nell’edificio del Monte
di Pietà del ‘400.
Sulla vita culturale sappiamo della presenza a Vicenza,
anche se per breve periodo – il cronista Gerardo Maurisio parla di cinque anni
dal 1204 al 1209 – di una Schola dell’Università situata nella zona ove era la
chiesa di San Vito sull’Astichello, all’incirca ove oggi è il cimitero
acattolico.
Siamo ormai agli inizi del Quattrocento. Degli ultimi
avvenimenti di Vicenza medioevale ci dà notizia l’anonimo autore della Cronica che comenza dell’anno
1400: l’assedio di Francesco da Carrara ai primi di aprile del 1404 e poi item
del detto anno ai 28 di aprile, venetianihave Vicenza di volontà di tutto el
popolo con licentia di Madonna Duchessa de Milan, perché soa era Vicenza.
Cominciava una nuova epoca per la città ed il suo territorio
e poi per tutto il Veneto: l’età del Leone di San Marco sotto la cui ala la
città berica vivrà per quasi quattro secoli.
VICENZA MEDIOEVALE NELLE PAGINE DEI SUOI CRONISTI
Le notizie su Vicenza medioevale derivano da quattro serie
di fonti: i Regesti dei possessi del Comune, gli Statuti, i documenti notarili
e, da ultimo, gli scritti dei cronisti contemporanei che per Vicenza, nell’arco
di tempo che va dagli inizi del 1200 alla fine del 1400 sono essenzialmente
quattro: Maurisio, Smereglo, Godi e Conforto.
Dalle prime fonti, Regesti e Statuti, e tra questi comprendo
anche il Decreto Edilizio del 1208, noi possiamo farci un’idea della città,
della sua struttura urbana, di chi possedeva beni immobili entro le mura, delle
regole che i suoi cittadini si erano dati per un adeguato vivere civile.
Adeguato vivere civile appunto, e proprio uno tra i primi
documenti cittadini giuntici, è il Decreto Edilizio del 1208, dimostrazione di
come anche allora, ciò che era pubblico tendeva ad essere individuato
come res nullius e quindi fonte di possibili utilizzi a scopo
personale. Si trattava di una cosa talmente diffusa che nella primavera del
1208 il podestà della città si sentiva in dovere di mandare in giro per Vicenza
suoi delegati affinché rilevassero le infrazioni ai regolamenti e facessero
provvedere in merito.
Ne esce un quadro edilizio divertente: case in pietra
accanto a baracche di legno come quello dei Pitocchi, di professione usurai,
sopraelevazioni abusive, ampliamenti di case occupando il suolo pubblico,
strade ostruite da pietre e macerie di case abbattute; in pratica ognuno faceva
quel che voleva e solamente la minaccia del carcere, e vedremo più avanti come
era a quei tempi il sistema giudiziario, poteva portare un po’ d’ordine.
Ma da questo documento vediamo anche come è strutturata la
città nei suoi quartieri: San Pietro che agli inizi del Duecento era tutto al
di qua del Ponte degli Angeli, nella zona detta poi dell’Isola, in quanto posta
tra il Bacchiglione e Rozza de collo: infatti il borgo di San Pietro, è più
tardo, di età scaligera; vi era poi la Contracta di Piancoli così
chiamata per i Planculi o palafitte che proteggevano la zona dagli
allagamenti del Retrone, il Berga, Santo Stefano, Colle, Pusterla, di Porta San
Felice, del Domo e della Platea, l’attuale Piazza dei Signori.
Dai documenti non vengono fuori nomi di vie: della
toponomastica della Vicenza medioevale conosciamo solo la Strata Major,
l’attuale Corso, l’antico decumanus maximus della Vicenza
romana e la Calonega, stradina che stava tra il Duomo e case Trissino, auro
pictae, e così chiamata perché vi aveva sede la canonica del Duomo. Oggi si
chiama contrà Lampertico. D'altronde la città era molto piccola, poche migliaia
di abitanti, un paesotto dove tutti si conoscevano, con poche centinaia di
famiglie i cui nomi ci sono stati in parte tramandati da questi antichi
documenti: Aycardini, Megni, Manfredi, Ferramosca, Gomberti, Desmanini,
Mucacavallo tanto per citarne alcuni, documenti che ci ricordano anche i
cittadini uccisi al tempo di Ezzelino III il tiranno, il quale aveva la triste
abitudine, quando vedeva una casa che gli piaceva, di togliere di mezzo i
legittimi proprietari: e così empti per perfidum ecelinum,
lasciarono prematuramente questa valle di lacrime gli appartenenti alle
famiglie di Jacopo Teutonico, dei Bafolini, Grassi e dei Welinci, solo per
citare quelli che abitavano nella contrada di Piancoli, tanto che nel 1259
Ezzelino era arrivato ad entrare in possesso in Vicenza, con questo modo poco
dispendioso, di ben 22 case e torri.
Tanta fu la gioia dei restanti proprietari e del Comune che
poi aveva incamerato tutti i beni del tiranno che, alla notizia della sua
sconfitta, avvenuta il 29 settembre 1259, giorno di San Michele, a Cassano
d’Adda, con voto unanime per lo scampato pericolo fu eretta in città una
grandissima chiesa con annesso convento agostiniano, quella di San Michele
appunto, lungo il Bacchiglione, chiesa oggi non più esistente in quanto
abbattuta in periodo napoleonico, tra il 1810 ed il 1812 e di cui rimane solo
l’oratorio dedicato a San Nicola.
Ed è all’epoca degli Ezzelini che appare il primo cronista
vicentino, Gerardo Maurisio, figlio di Pietro, con casa, domus
cumduabusturribus, nella contrà di Santo Stefano. Fu giudice e notaio come gli
altri cronisti vicentini Smereglo, Godi e Conforto. D’altra parte diventare
notaio era abbastanza semplice: bastava a vere vent’anni, essere figlio
legittimo e di padre vicentino e superare un esame di grammatica e scrittura
davanti ad una commissione di otto notai, dopodichè nell’aprile di ogni anno
bisestile si veniva iscritti nella fraglia dei notai comunali che qui a Vicenza
erano circa trecento, con a disposizione solo sessanta posti per cui si
lavorava a rotazione: quattro mesi di attività e sedici mesi di aspettativa.
Maurisio però, nel 1216, era notaio imperiale con
possibilità di esercitare in tutta Italia, fu poi correttore degli Statuti del
1230 ed avvocato causidico e quindi egli potè seguire gli avvenimenti
dall’osservatorio privilegiato che le sue cariche gli concedevano.
Fu anche una specie di Attilio Regolo vicentino: catturato
in combattimento dai Padovani fu condotto prigioniero a Padova e poi mandato a
Vicenza per trattare il riscatto, cosa che venne sdegnosamente rifiutata dal
consiglio cittadino che però, qualche tempo dopo, quando alcuni dei suoi
componenti vennero fatti prigionieri dei Padovani si affrettò a trattare,
arrivando alla liberazione di tutti i prigionieri.
D’altra parte è da ricordare che i preminenti vicentini
avevano ben in amore il denaro, il proprio risparmiandolo e l’altrui
accaparrandolo. Maurisio racconta, citando il nome del malcapitato, un certo
Malosililmo, civemJenuae, (ed anche lo storico Pagliarini riporta il fatto in
dettaglio) che il comesvicentinus Uguccione avendo saputo che questo nobile
genovese era diretto a Venezia in pellegrinaggio e che era di famiglia molto
ricca, lo cattura a Montebello e se lo porta, legato come un salame, nella rocca
di Meda pro ipso dimittendo postulans ab eodem maximam pecuniae
quantitatem, nec dimisit eum Comes donec ipse captivus precium sex decim milium
librarum se redemit e avute le sedicimila lire richieste, se ne
tornava tranquillo in città sine aliqua molestia vel contradicione.
Il fatto avveniva nel 1096 e tanto per fare un
rapporto circa il valore di quanto estorto al giovane genovese (e non dobbiamo
dimenticarci quanto costa e di certo anche allora costava ai Genovesi tirare
fuori le palanche) sappiamo che qualche decennio più tardi i vicentini
compreranno il territorio di Marostica, compreso il castello per sessantamila
lire. Solamente più tardi la giustizia divina si ricorderà del conte Uguccione,
facendogli morire due figli che, sbalzati da un carro erano caduti in un fosso,
annegando. Quod totum divino judicio in vindictam creditur accidisse.
Ma ritorniamo al nostro Maurisio, il quale rimane tutta la
sua vita fedele ai Da Romano ed all’imperatore Federico anche se da ciò ne
trasse una serie infinita di mali di cui nella sua cronaca non fa altro che
lamentarsi. Nel 1209, su ordine del podestà Bonifacio da San Bonifacio gli
bruciano la casa; poi a Lonigo dove aveva casa e campi ed i buoi più belli del
paese, questi gli vengono tolti dai nemici dei Da Romano che ne avevano bisogno
per trainare una gigantesca macchina da guerra; paga poi il più caro bicchiere
di vino della storia vicentina: dieci lire, la multa imposta dalla città ad un
contadino che sotto Porta Pusterla dove egli era giunto assieme alle truppe
ezzeliniane inseguendo i vicentini, gli aveva offerto un bicchiere di vino
fresco e che egli si sente in dovere di rimborsare.
Quando poi nel 1236 Federico II saccheggia Vicenza egli, pur
essendo filo imperiale, finisce in carcere (per theutonicos captum et cum nimio
obrobrio ligatum me fuisse recordor) assieme ad un certo Alberto Dataro, ma
mentre Dataro viene liberato e ricompensato dall’imperatore per il danno
subito, egli non lo è ed anzi viene liberato dal carcere in piena notte, nudo e
spogliato di ogni bene e costretto a girare per la città per tre giorni mentre
tutti fingevano di non conoscerlo (per tresdies, quasi nudus et vilissima
veste coopertus, ambulavi civitatem, nec inveni coopertorem). Solo più
tardi tre o quattro amici lo aiutavano, chi con una veste, chi con un mantello,
chi dandogli del frumento per nutrirsi, ed un intellettuale della Vicenza di
allora, Sigonfredus de Arcignano qui pecuniam mihi dedit ad
recuperandum libros quos perdideram.
Del saccheggio di Vicenza, dalle pagine di un altro
cronista, il Godi (vissuto tra il 1370 ed il 1438, autore di una cronaca che va
dal Mille al 1313) veniamo a conoscenza di quanto potessero gli indovini di
allora. Federico II, saccheggiata la città, e volendo mettere alla prova il suo
indovino, di cui forse non si fidava molto, magari per qualche predizione poco
favorevole, dopo averlo convocato gli chiedeva da quale porta sarebbe uscito il
giorno successivo e gli fa scrivere la risposta su un biglietto che viene
sigillato. Dopo di che chiama uno dei suoi ufficiali e gli ordina di abbattere
un tratto di mura, dalla cui breccia, quasi una nuova porta, sarebbe uscito il
giorno successivo. Uscito dalla città, si fece portare lo scritto e, strappati
i sigilli, vide scritto: Per portam nova
mex ibitrex.
Abbiamo citato il Godi, ma delle sue pagine come da quelle
di un altro cronista, lo Smereglo (notaio, vissuto tra il 1240 ed il 1312,
autore di una cronaca che narra le vicende della città dal 1200 al 1312) non si
hanno quelle notizie curiose che si vogliono trovare nelle pagine di una
cronaca e che la rendono godibile alla lettura: si hanno solo date, nomi di
podestà e di personaggi, narrazione dei soli eventi, per così dire, ufficiali.
Risponde appieno a queste aspettative Conforto da Costozza,
notaio vicentino vissuto negli ultimi decenni della signoria scaligera e poi
sotto i Visconti e la cui cronaca giunge fino all’anno 1387. Dalle sue pagine,
oltre alle vicende storiche, conosciamo in maniera viva la vita di allora: le
carestie, le malattie, gli eventi strani, la giustizia. Ad esempio da Conforto
sappiamo che alla metà del Trecento in città vi era un albergo “l’albergo alla
campana”, forse tra Duomo e Piazza, semidistrutto durante l’assedio padovano
dell’aprile 1387 nel corso del quale vennero usate, senza risparmio, anche
nuove armi, quali sclopi et bumbardae. Erano anni difficili in cui si
alternavano periodi di abbondanza a carestie gravissime, come quella del 1374
quando i cittadini si trovarono costretti per sopravvivere a mangiare erbe che
in tempo normale si davano a stento ai maiali.
Ciò soprattutto quando vi era un’invasione di locuste, plaga
brucorum, come la chiamavano gli antichi, che distruggevano ogni cosa. In
occasione consimile, nel 1545, il Municipio concedette un premio a chi
raccoglieva “stari” di cavallette e scodelle di uova. In pochi giorni, tra la
metà di aprile e maggio ne vennero raccolte rispettivamente 484 staia e 3706
scodelle. Poi capitava che, in altri momenti vi fosse così grande abbondanza di
pesci e granchi pescati in Bacchiglione e nei canali attorno alla città che la
gente ne aveva nausea, e poi l’anno successivo, proprio nel periodo quaresimale
quando non si poteva mangiare carne, non si trovasse un pesce a pagarlo a peso
d’oro.
E se qualcuno aveva guai con la giustizia, cosa succedeva?
Se gli andava male veniva giustiziato ed il corpo appeso alle finestre del
palatiumvetus, il palazzo dove aveva sede il governo cittadino e che, dal Libro
dei Regesti, sappiamo dovevasi trovare all’incirca dove oggi è Piazzetta
Palladio. Se gli andava così così gli poteva capitare quanto accaduto ad un
ladro sfortunato e maldestro che, entrato nella camera di uno studente
universitario (a Vicenza vi fu uno StudiumUniversitatis tra il 1204 ed il 1208)
per non far rumore si era tolto le scarpe e poi, costretto alla fuga, le aveva
dimenticate nella stanza.
Rapidamente identificato ed altrettanto rapidamente
giudicato, come condanna virilia amputaverunt et oculi exruerunt.
Se gli andava bene succedeva che rimaneva in carcere per anni, anche perché
allora non vi erano amnistie, condoni, indulti e l’uscita dalla prigione era
vista davvero come una liberazione. Conforto ricorda una sola amnistia avvenuta
martedì 16 ottobre 1375 quando Cansignorio, signore di Verona e Vicenza decise
di aprire le porte delle carceri per propiziarsi, con le preghiere di
ringraziamento degli ex prigionieri, la guarigione di una grave malattia che lo
affliggeva. “A Vicenza aperta fuerunt ostia carcerum et inde liberati omnes
carcerati qui ad modum acieii verunt omnes ad maiorem ecclesiam ubi flexis
genibus ante altaria Deo et eius Matri preces et rogamina plurima contulerunt”.
Non sappiamo però se queste preghiere vennero dette per
ringraziare Iddio della liberazione dal carcere o per propiziare la guarigione
di Cansignorio, certo è che se anche lo furono esse non furono sufficienti,
come pure non fu sufficiente la riduzione del 50% della tassa sul macinato. Il
19 ottobre Cansignorio moriva, maximacumdevotione, anche se tra tutti i
cronisti veneti Conforto è l’unico che dia un giudizio positivo su Cansignorio.
Per Galeazzo e Bartolomeo Gatari, autori di una cronaca carrarese contemporanea
a quella di Conforto fu impio et malvaxio, mentre il Guiscardi,
altro cronista non vicentino, autore di una cronaca cremonese, ricorda che quel
giorno moritte el perfido Can da Verona.
Ed in effetti opporsi
ai voleri dei Della Scala poteva costare caro: nel 1373, dodici ribelli,
catturati a Marostica, vengono legati a pali posti sopra dei carri e, dopo il
processo, torturati, attanagliati con ferri roventi, mutilati per tutto il
tragitto da Vicenza a Marostica dove li si porta per essere esposti. Altri due,
uno di Montecchio Precalcino e l’altro, un certo Bonisolo da Barbano, per avere
complottato, vennero catturati ed in Campo Marzio il primo infilzato in uno
spiedo e arrostito vivo, l’altro impiccato sopra un fuoco.
Le malattie purtroppo
allora erano frequenti, come frequentissime le epidemie, specie di peste
che con frequenza regolare interessavano questa o quella città del Veneto: nel
1382 la peste spopolava Venezia i cui ricchi abitanti cercavano asilo a
Vicenza, immune per via di quei gatti fatti arrivare dalla città lagunare circa
mezzo secolo prima e che giunti in città per quel loro compito istituzionale di
mangiare topi hanno, per un errore di comprensione, dato ai vicentini l’eterna
fama di divoratori di felini.
Spesso malattie, terremoti che a Vicenza erano
frequentissimi, incendi con numerose vittime, erano preceduti da misteriosi
segni quali la comparsa di una cometa, nel 1378, o la presenza in cielo, sopra
il Monte Summano, di grandi fuochi da rendere così chiaro il cielo che ci si
vedeva come in pieno giorno, fenomeno durato quasi un mese, nel 1371, mentre in
altra occasione, nel 1375, durante il giorno si sentono rumori fortissimi e
misteriosi che terrorizzano la popolazione, preludio, assieme a nascite di
fanciulli senza un arto avvenute in città ed a Zugliano, dove la madre si chiamav
Zelaia, a disgrazie gravissime quali una serie di terremoti e l’arrivo con
intenzioni ostili del duca Leopoldo d’Austria, accompagnato da una truppa di
feroci lanzichenecchi.
A Vicenza esisteva un grande ospedale e Conforto segnala con
dovizia di particolari come avvenivano le guarigioni in quell’ospedale citando
alcuni casi particolarmente eclatanti, avvenuti attorno al 1380. Ricordiamo che
l’ospedale cittadino allora aveva sede dove oggi esiste il palazzo delle Opere
Sociali in Piazza Duomo ed era a fianco della chiesa dedicata a Santo Antonio,
chiesa abbattuta in età napoleonica e di cui rimane una sola immagine in un
disegno del Dall’Acqua datato 1711. L’ospedale, verso la metà del Quattrocento
venne portato a San Marcello e poi nella sede attuale di San Bortolo.
Il primo caso fu quello di un certo Ottolino fornaio, pistor,
invasato da uno spirito immondo al punto tale da volersi uccidere; per cui,
uscito dalla città ipse currit ad flumenAsticelli et per id
velocitercurensvoluit se in ipso submergere et mori. Salvato a stento, extracto
de amne, a spiritibusacriterstimulatus tam velocitercurrens quod per magnum
itinerisspatiumrelinquit post se eumsequentes. Alla fine, catturato, venne
portato all’Ospedale dove nocte in hospitali, piis oracionibus devote
intentus, sanus et incolumis factus est de tota persona.
Dell’eventuale intervento di medici neanche una parola.
Ugualmente per un altro malato che abitava a Porta Nova, a letto da quattro
anni: portato all’Ospedale, ubi nocte devota fide orationibus intentus,
repertus est tam sanus de persona quod pedibus suis sine adiutorio ivit domum
suum. Anche un soldato, stipendiarius, immobile a letto da
quattro mesi, si fece portare all’ospedale et cum devotione nocte
stabili firma fide oratione persistens sanitatem perfectam recepit, al punto
tale da recarsi assieme ad Ottolino ed altri guariti in pellegrinaggio a
Vienne, in terra di Francia, dove esisteva un grande santuario dedicato a
questo santo.
Ma di strani casi Vicenza era piena: morti che parlavano per
bocca altrui, fanciulli preveggenti, fantasmi silenziosi che apparivano e
scomparivano, miracoli. Il primo caso riguarda un certo Bartolomeo Botarino,
notaio, uomo particolarmente avido ed astuto, morto nel 1380, la cui anima dopo
la morte era entrata nel corpo di un tale Johannes Marangon de Campeelo, che
parlava con la voce del notaio defunto, riconosceva le persone, ricordava gli
affari trattati con loro. Anche Conforto va a vedere, assieme ad un certo Paolo
medico e un farmacista, apothecario, di nome Zamboneto Sbrega, e il morto,
attraverso il vivo, lo riconosce, gli dice di averlo più volte imbrogliato,
parla con il medico di cose note solo a loro due e raccomanda allo Sbrega di
mettere più sego nelle candele che egli preparava per conto del Comune “ne
sepum te conducat ad ignem”.
Non potendo pretendere di avere di ritorno quanto Botarino
gli aveva rubato, Conforto si vendica raccontando ai posteri le male gesta del
collega notaio. Un giorno il figlio di un tal AnthoniusAurifex, un bambino di
circa cinque anni, mentre era a casa e stava giocando diceva a sua madre Heu
pater meus in aqua necatus est. La cosa terrorizzava la madre che sapeva
essere andato il marito a Motta nel Trevisano, facendola rimanere in ansia fino
al ritorno del marito che le raccontava di essere caduto in acqua mentre
trasbordava da una barca ad un’altra e di aver rischiato di morire annegato.
Un fatto analogo era accaduto a Costoza, dove una ragazzina
raccontava alla madre di aver visto il padre morto sotto un salice, colpito dal
fulmine. La donna, Caterina Ferraguti, si recava di corsa nei campi ad
campaneam et invenit maritum suum herentem mortuum ad salicem, sicut sibi
dixerat puella. Un fatto inesplicabile accadeva allo stesso Conforto nel
gennaio 1379. Nella camera dove dormivano una nutrice, una nipote di 20 anni,
un’altra donna di 50 e, in una culla ai piedi del letto, un nipotino in
fasce, apparuit quedam mulier inducta de albo et aperuit cameram venit
que ad puerum et eo lactato exivit cameram. E ciò due volte in una notte. E
mentre questa usciva, una delle donne la redarguiva, pensando fosse la madre,
dicendo Domina post quam puer dormit curxivistis bis de lecto vestro
cum tanto frigore et habetis in lecto duos filios infirmos. Al mattino la
madre, interrogata in merito, rispondeva che mai ella, quella notte, s’era
alzata dal letto.
Conforto segnala sempre con gioia la nascita di nipoti, che
purtroppo in gran parte muoiono nei primi anni di vita, come la piccola
Fiodaliso, tanto per citare un nome. Ma era destino di gean parte dei bambini di
allora morire a causa delle più svariate malattie infettive che colpivano
adulti e bambini e che facevano strage dei più deboli. Nella pandemia del 1387,
in Vicenza e contado ne morirono più di mille con una sintomatologia data
da rubebantur a pustullissive fersa cum vomitu et fastigio cibi et
potuscum fluxu corporis et apparuerunt glandulle et febres cum pestiferis
humoribus ex qua perierunt.
Forse si trattava di una forma grave di morbillo, ancor oggi
in dialetto chiamato fersa. C’era da affidarsi solo ai miracoli e
Conforto ne racconta avvenuto ad un giovane di Caltrano, juvenis quidam de
Cartrano, che, ultra prataTiennis, sceso dal carro per prendere la giacca che
gli era caduta, trovò per terra quandam hostiam, qua accepta et fracta
volens ex ea comedere, dicitur ex ipsa sanguinem vivum scaturisse.
Conforto è l’ultimo cronista di Vicenza medioevale, dopo i
Della Scala vi sarà la breve parentesi viscontea e poi il periodo veneziano e
l’inizio dell’età moderna. Come Maurisio che, nonostante tutto, era ammiratore
di Federico II, anche Conforto è legato agli Scaligeri. La fine del loro
dominio lo addolora ed egli dà la colpa di tutto ciò ad una donna, alla bieca
Samaritana da Polenta che con le sue spese folli costringeva i Della Scala ad
aumentare le tasse non ad librasdenariorumsed ad ducatos, ad centenaria et
milliariaducatorum, tanto che lo stesso Conforto si trovò costretto a pagare,
per aver protestato e tardato un pagamento, ben seimila lire piccole, VI
milibus libris parvorum.
Conforto chiude la sua cronaca nel 1387 e, all’apparenza,
nulla potrebbe avvicinare a noi quest’uomo, figlio pieno del suo tempo. In
effetti però c’è un passo conclusivo della sua opera che potrebbe apparire
tranquillamente sui giornali di oggi. La bancarotta dello stato scaligero
nasceva dalle grandi spese, fini a sé stesse e senza che da esse nascesse altra
ricchezza, una specie di cattedrali nel deserto per dirla con un termine
attuale, e dagli arricchimenti illeciti dei funzionari,
tangentopolistiantelitteram che ad praedam intenti impinguabant se et
aliosdepauperabant. Come si vede quindi anche dalle pagine di Conforto, le
disgrazie nostre hanno origini lontane, i pubblici ladri sono sempre esistiti,
purtroppo di giudici che li scoprono, nella millenaria nostra storia ne è
venuto fuori solamente uno.
Andrea Kozlovic
Fonte: [Saggio di Andrea Kozlovic, già stato pubblicato nel
numero 2 di Storia Vicentina del giugno-luglio 1994]
Fonte: storiavicentina.it
Link: https://www.storiavicentina.it/laboratorio/108-vicenza-medioevale/1463-vicenza-medioevale.html
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