di Dwight D. Murphey - 02/04/2010
Truppe tedesche delle
SS allineati contro un muro del campo di concentramento di Dachau, il giorno
della sua liberazione.
Chi narra con onestà gli eventi umani, odierni o remoti,
appartiene ad una stirpe tanto rara quanto onorabile. Dovremmo senz’altro
elevarli nel pantheon degli dei terreni.
Allo stesso modo, indubbiamente, vi dovremmo annoverare
anche coloro che, non già per disaffezione verso l’Occidente o gli Stati Uniti
o il suo popolo, bensì per sete di verità, portano alla luce gli spaventosi
avvenimenti che furono conseguenza della Seconda Guerra mondiale (così come le
enormità commesse come parte del modo in cui la guerra fu combattuta contro le
popolazioni civili, sebbene questo non sia argomento che vogliamo investigare
in questa sede).
Quella Guerra gli americani la conoscono come “the good war”
e coloro che la combatterono sono noti come “the greatest generation”. Ma
adesso, lentamente, veniamo colpiti da realtà così banali rispetto alla
complessa esistenza umana: tanto vi fu che non era affatto “buono” e, insieme
all’abnegazione ed agli intenti elevati, ci furono molta venalità e brutalità.
Queste realtà vengono a galla perché esistono degli studiosi che, quantomeno,
sono consapevoli che un oceano di propaganda bellica genera un mito che resta
per vari decenni, e che hanno una dedizione per la verità che travolge le molte
lusinghe di conformità al mito.
Questo articolo inizia come una semplice recensione del
libro di Giles MacDonogh, libro che appartiene per larga parte al genere di
trasgressione al mito che ho appena elogiato. Tuttavia, poiché esiste materiale
supplementare di grande valore di cui non posso non far parola, l’ho ampliato
per comprendervi altre informazioni ed autori, benché esso rimanga soprattutto
una recensione di After the Reich.
Quello di MacDonogh è un libro sconcertante, al tempo stesso
coraggioso e vile, per lo più (ma non del tutto) meritevole del grande elogio
che si deve agli studiosi incorruttibili. Come già abbiamo osservato, il
pubblico americano ha pensato a lungo allo sforzo bellico alleato nella Seconda
Guerra mondiale come ad una “grande crociata” che opponeva il bene e la
giustizia al male nazionalsocialista. Perfino dopo tutti questi anni è
probabile che l’ultima cosa che il pubblico vuole è di apprendere che, sia gli
alleati occidentali, che l’Unione Sovietica commisero enormi e indicibili torti
durante la guerra e dopo.
Sfida questa riluttanza MacDonogh che racconta la “storia
brutale” per esteso. Questa propensione è encomiabile per il coraggio
intellettuale che dimostra. Alla luce di ciò sconcerta che, nel momento stesso
in cui lo fa, maschera la storia, proseguendo in parte, nella sostanza,
nell’insabbiamento di pezzi di storia instaurato dall’incombere della
propaganda bellica, per quasi due terzi del secolo.
Perciò il grande valore del suo libro non è da ricercare
nella sua completezza o nella rigorosa imparzialità, bensì nel fatto che
fornisce una sorta di passaggio – quasi esauriente – che può avviare dei
lettori scrupolosi verso una ulteriore ricerca su un argomento d’immensa importanza.
Per questo articolo, sarà intanto significativo iniziare riassumendo la storia
narrata da MacDonogh, aggiungendoci parecchio. Soltanto dopo averlo fatto
esamineremo quanto MacDonogh occulta. Tutto ciò ci condurrà quindi ad alcune
riflessioni conclusive.
Nella sua prefazione, MacDonogh dichiara che il suo
proposito è di “mostrare come gli alleati
vittoriosi trattarono il nemico al momento della pace, in quanto nella maggior
parte dei casi non si trattò di criminali che furono stuprati, affamati,
torturati o bastonati a morte ma di donne, bambini e vecchi”. Sebbene ciò
lasci intendere che il tono del libro è sdegnato, la narrazione è nel complesso
informativa piuttosto che polemica. La produzione accademica di MacDonogh
comprende vari libri di storia tedesca e francese e delle biografie (oltre a
quattro testi sul vino).
Le espulsioni di
massa (oggi definite “pulizia etnica”)
MacDonogh ci racconta che, al termine della guerra “sedici
milioni e mezzo di tedeschi furono cacciati dalle proprie case”. Nove milioni e
trecentomila vennero espulsi dalla parte orientale della Germania, diventata
Polonia. (Sia il confine orientale che quello occidentale della Polonia furono
drasticamente spostati verso ovest per accordo fra gli alleati, con la Polonia
che si prendeva una fetta importante della Germania e l’Unione Sovietica che
afferrava la Polonia orientale). Gli altri sette milioni e duecentomila furono
strappati dalle proprie terre ancestrali dell’Europa Centrale dove vivevano da
generazioni. Questa espulsione di massa fu stabilita nell’accordo di Potsdam di
metà 1945, anche se tale accordo prevedeva esplicitamente che la pulizia etnica
avesse luogo “nel modo più umano possibile”.
Churchill fu fra quelli che lo sostennero, in quanto avrebbe
condotto “ad una pace durevole”. In
realtà, questa operazione fu talmente inumana da equivalere ad una delle più
grandi atrocità della storia. MacDonogh riferisce che “circa due milioni e duecentocinquantamila persone sarebbero morte
durante le espulsioni”. Questa è la stima minima, in un intervallo che va
da due milioni e centomila a sei milioni, se prendiamo in considerazione
soltanto gli espulsi. Konrad Adenauer, troppo amico dell’occidente, riuscì a
dire che fra gli espulsi “sono morti,
spacciati, sei milioni di tedeschi”.
Vedremo il racconto di MacDonogh della fame e
dell’esposizione al freddo estremo cui fu soggetta la popolazione della
Germania nel dopoguerra, ed a questo punto vale la pena di menzionare (anche se
va al di là dell’argomento espulsioni) ciò che dice lo storico James Bacque: “il confronto fra i censimenti ci rivela che
fra l’ottobre del 1946 [un anno e mezzo dopo la fine della guerra] e il
settembre del 1950 sono scomparse in Germania circa 5 milioni e settecentomila
persone”.
Ciò che MacDonogh chiama “la più grande tragedia marittima di tutti i tempi” accadde quando
la nave Wilhelm Gustloff, che trasportava i tedeschi da Danzica nel gennaio del
1945, fu affondata con “
”. A metà del 1946
“delle foto mostrano alcuni dei 586.000 tedeschi di Boemia pigiati in delle
auto come sardine”. In un altro passaggio MacDonogh ci racconta come “i rifugiati erano spesso così ammucchiati
da non potersi muovere per defecare e così spuntavano dai veicoli coperti di
escrementi. Molti, all’arrivo, erano morti”. [Questo ci richiama alla mente
le scene descritte così vivacemente da Solzenicyn nel primo volume di
“Arcipelago Gulag”]. In Slesia, “fiumane
di civili furono strappati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi da
fuoco”. Un sacerdote stimò che un quarto della popolazione tedesca di una
città della Bassa Slesia si uccise, dato che intere famiglie si suicidarono
insieme.
La condizione dei
tedeschi: fame e freddo estremo
I tedeschi parlano del 1947 come dell’Hungerjahr, l’ “anno della fame”, ma MacDonogh afferma
che “perfino nel 1948 non si era posto
rimedio al problema”. La gente mangiò cani, gatti, topi, rane, serpenti,
ortica, ghiande, radici dei denti di leone e funghi non ancora maturi in un
frenetico tentativo di sopravvivere. Nel 1946 le calorie fornite nella “U.S.
Zone” in Germania calarono a 1.313 del 18 marzo dalle già scarse 1.550
precedenti. Victor Gollancz, uno
scrittore ed editore inglese, ebreo, obiettava “stiamo affamando i tedeschi”.
Ciò concorda con la dichiarazione del senatore dell’Indiana
Homer Capehart in un discorso al Senato statunitense del 5 febbraio 1946: “Finora, per nove mesi, questa
amministrazione ha portato deliberatamente avanti una politica per ridurre le
masse alla fame”. MacDonogh ci narra che la Croce Rossa, i Quaccheri, i
Mennoniti ed altri volevano far entrare del cibo ma “nell’inverno del 1945 le donazioni furono respinte con la
raccomandazione di utilizzarle in altre zone d’Europa straziate dalla guerra”.
Nella zona americana di Berlino “la politica statunitense era che nulla dovesse essere distribuito e
tutto, al contrario, gettato via. Così le donne tedesche che lavoravano per gli
americani erano fantasticamente ben nutrite ma non potevano portar nulla alle
proprie famiglie ed ai bambini”. Bacque afferma che “alle agenzie di soccorso straniere fu impedito di inviare cibo
dall’estero; i treni coi viveri della Croce Rossa vennero rimandati in
Svizzera; a tutti i governi stranieri fu negata l’autorizzazione di mandare
alimenti ai civili tedeschi; la produzione di fertilizzanti fu bruscamente
ridotta. La flotta da pesca fu tenuta nei porti mentre la gente moriva di fame”.
Sotto l’occupazione russa della Prussia orientale, MacDonogh
ravvisa “impressionanti analogie” con
la “deliberata riduzione alla fame dei
kulaki ucraini nei primi anni ‘30” ad opera di Stalin. Come era accaduto in
Ucraina “furono riferiti casi di
cannibalismo, con la gente che mangiava la carne dei propri figli morti”.
La sofferenza per il freddo gelido unita alla fame per creare strazio e un
elevato numero di morti.
Anche se l’inverno 1945-’46 fu nella norma “la terribile
penuria di carbone e di cibo furono sentiti intensamente”. Si abbatterono poi
due inverni freddi in maniera anomala, nel 1946-‘47 “forse il più freddo a memoria d’uomo” e quello del 1948-‘49. Nella
sola Berlino si stima siano morte 60.000 persone nei primi dieci mesi dopo la
fine della guerra e “l’inverno successivo
si calcola ne abbia sterminate altre 12.000”. La gente viveva nelle buche
fra le rovine e “alcuni tedeschi –in
particolare rifugiati dall’Est- praticamente nudi”.
Nel suo libro “Gruesome Harvest: The Allies’ Postwar War
Against The German People” Ralph Franklin Keeling menziona una affermazione di
un “famoso pastore tedesco”: “Migliaia di
corpi sono appesi agli alberi nei boschi intorno a Berlino e nessuno si prende
la briga di tirarli giù. Migliaia di corpi li portano nel mare l’Oder e l’Elba,
non li si nota nemmeno più. Migliaia e migliaia muoiono di fame sulle strade.
Bambini vagano da soli per le strade”.
Alfred-Maurice de Zayas, nel suo “The German Expellees:
Victims in War and Peace” raccontava come, in Jugoslavia, il maresciallo Tito
usasse i campi come centri di sterminio per far morire di fame i tedeschi.
Stupri di massa e
“sesso spontaneo” in cambio di cibo
Gli stupri furiosi delle truppe d’invasione russe sono,
ovviamente, infami. In Austria, nella zona russa, “lo stupro fece parte della vita quotidiana fino al 1947 e molte donne
contrassero delle malattie veneree e non ebbero i mezzi per curarsi”.
MacDonogh scrive che “stime prudenziali
collocano il numero delle donne violentate a Berlino a 20.000”.
Quando gli inglesi arrivarono a Berlino, “gli ufficiali, in seguito, rievocavano la
violenta emozione provata nel vedere i laghi della prospera zona occidentale
pieni di corpi di donne che si erano suicidate dopo esser state violentate”.
L’età delle vittime non faceva alcuna differenza: le donne stuprate avevano da
12 a 75 anni. Fra queste, infermiere e suore (alcune violentate anche cinquanta
volte). “I russi erano particolarmente
crudeli coi nobili, incendiavano le loro ville e violentavano o ammazzavano gli
abitanti”. Benché “la maggior parte
degli indesiderati figli dei russi venissero abortiti”, MacDonogh scrive
che “si stima che da 150.000 a 200.000
‘neonati russi’ siano comunque sopravvissuti”.
I russi violentavano ovunque andassero, tanto che non furono
soltanto le tedesche ad essere stuprate, ma anche donne ungheresi, bulgare,
ucraine ed anche jugoslave, sebbene quest’ultime fossero dalla stessa parte.
Esisteva una linea di condotta ufficiale contro la violenza carnale, ma era,
solitamente, a tal punto ignorata che “fu
solo nel 1949 che furono realizzate concrete azioni dissuasive nei confronti
dei soldati russi”. Fino ad allora “furono
incitati da [Ilya] Ehrenburg e da altri propagandisti sovietici che vedevano lo
stupro come espressione dell’odio”.
Sebbene vi fosse una “incidenza
molto estesa di stupri commessi da soldati americani”, esisteva anche una
politica militare coercitiva contro di essi, con “diversi soldati americani giustiziati” per questo. I capi
d’imputazione per stupro “salirono
costantemente” durante gli ultimi mesi di guerra, ma calarono nettamente in
seguito.
Ciò che invece continuò fu probabilmente quasi peggiore: lo
sfruttamento sessuale di donne affamate le quali vendevano “volontariamente” i propri corpi in
cambio di cibo. In “Gruesome Harvest”, Keeling cita da un articolo apparso sul
Christian Century del 5 dicembre 1945: “Il
comandante della Polizia Militare americana ha dichiarato che la violenza carnale
non rappresenta un problema per loro in quanto un po’ di cibo, una barretta di
cioccolata o un pezzo di sapone rendono inutile lo stupro”.
Le dimensioni del fenomeno sono dimostrate dalla cifra che
MacDonogh fornisce, di “94.000
Besatzungskinder o ‘bambini dell’occupazione’, stimati, [che] nacquero nella
zona americana”. Egli scrive che nel 1945-’46 “molte ragazzine ricorsero alla prostituzione per sopravvivere. Ed anche
i ragazzi assolsero lo stesso compito per i soldati alleati”.
Keeling, scrivendo nel 1947 per la pubblicazione del proprio
libro [in tal modo si spiega l’uso del presente nella frase], diceva che c’era
“una impennata di malattie veneree tale
da raggiungere proporzioni epidemiche” e proseguiva scrivendo che “una larga parte dell’infezione è stata
originata dalle truppe americane di colore che noi abbiamo collocato in gran
numero in Germania e fra le quali la percentuale di infezioni veneree è molte
volte più alta che non fra le truppe bianche”. Nel luglio del 1946,
aggiunge, la percentuale annua per i soldati bianchi ammonta al 19%, per i neri
sale al 77,1%. Ripete quindi ciò che noi stiamo qui dimostrando, quando mette
in evidenza “lo stretto legame fra il
tasso di malattie veneree e la disponibilità di cibo”.
Se MacDonogh menziona stupri commessi da soldati britannici,
a me è sfuggito. Egli però racconta di violenze carnali di polacchi, francesi,
partigiani di Tito e profughi. A Danzica “i
polacchi si comportarono tanto duramente quanto i russi. Furono i polacchi a
liberare la città di Teschen, nel nord [della Cecoslovacchia] il 10 di maggio.
Per cinque giorni essi stuprarono, saccheggiarono, incendiarono e uccisero”.
Scrive del “comportamento dei soldati
francesi a Stoccarda, dove forse 3.700 donne ed otto uomini furono violentati”
ed aggiunge che “altre 500 donne [furono]
stuprate a Vahingen” e riferisce dei “tre
giorni di uccisioni, saccheggi, incendi e stupri” avvenuti a Freundenstadt.
Sui fuggiaschi dice che “c’erano circa
due milioni di prigionieri di guerra e lavoratori coatti provenienti dalla
Russia che avevano costituito delle bande che rubavano e violentavano in tutta
l’Europa centrale”.
Trattamento inumano dei
prigionieri di guerra
In tutto, ci furono approssimativamente undici milioni di
prigionieri di guerra tedeschi. Un milione e mezzo non tornarono mai a casa.
Qui MacDonogh esprime il proprio giusto sdegno: “Fu scandaloso trattarli con così scarsa cura che un milione e mezzo di
loro morirono”.
La Croce Rossa non ebbe alcun incontro faccia a faccia con
quelli che erano detenuti dai russi, in quanto l’Unione Sovietica non aveva
firmato la Convenzione di Ginevra. MacDonogh afferma che i russi non facevano
alcuna distinzione fra civili e prigionieri di guerra tedeschi, anche se
sappiamo che un rapporto del KGB li selezionava per mandarli a morte o per
altri scopi. Alla fine della guerra, i russi ne detenevano da quattro a cinque
milioni in Russia (e qui, di nuovo, gli archivi del KGB vale la pena di
consultarli, come ha fatto lo storico James Bacque; essi registrano la cifra di
2.389.560 prigionieri).
Un gran numero fu detenuto per oltre dieci anni, e furono
rimandati in Germania soltanto dopo la visita di Konrad Adenauer a Mosca nel
1956. Ciononostante, nel 1979 –34 anni dopo la fine della guerra!- “si riteneva
ci fossero 72.000 prigionieri ancora in vita, principalmente in Russia”. A Stalingrado furono catturati circa 90.000
soldati tedeschi, ma soltanto 5.000 fecero ritorno a casa.
Gli americani fecero una distinzione fra i quattro milioni e
duecentomila soldati catturati durante la guerra, cui le Convenzioni de L’Aia e
di Ginevra davano diritto alla protezione ed ai mezzi di sussistenza, ed i tre
milioni e quattrocentomila catturati in Occidente alla fine della guerra.
MacDonogh dice che questi ultimi furono classificati come “Surrendered Enemy Persons” (SEP) o come “Disarmed Enemy Persons” (DEP), cui furono negate le tutele delle
due Convenzioni. Non fornisce la cifra totale di quelli che morirono mentre
erano in custodia americana, dicendo “non
è chiaro quanti soldati tedeschi morirono di fame”.
Rivela, comunque, varie situazioni: “I più famigerati campi
americani per prigionieri di guerra erano i cosiddetti Rheinwiesenlager”. Qui
gli americani, lasciarono che “oltre
40.000 soldati tedeschi morissero di fame abbandonati nei fangosi pantani del
Reno”. Scrive che “qualsiasi
tentativo della popolazione civile tedesca di dar da mangiare ai prigionieri
era punito con la morte”.
Sebbene la Croce Rossa fosse autorizzata alle ispezioni, “il
filo spinato che circondava i campi dei SEP e dei DEP era impenetrabile”.
Altrove, alle “caserme del Genio di Worms
c’erano 30-40.000 prigionieri seduti nel cortile, che si spingevano per farsi
spazio, senza alcuna protezione dalla pioggia che li gelava”. I prigionieri
morivano di fame a Langwasser e nel “famigerato campo” di Zuffenhausen dove “per mesi il pranzo consisté in zuppa di
rape, con mezza patata per cena”. Sarebbe un errore ritenere che una
carenza mondiale di cibo fosse all’origine dell’impossibilità statunitense di
dar da mangiare ai prigionieri.
Bacque scrive che “il
capitano Lee Berwick del 424esimo Fanteria, che comandava le sentinelle del
campo di Bretzenheim, mi disse che il cibo era accatastato tutto intorno alla
recinzione del campo. I prigionieri vedevano le casse impilate ‘alte come case”.
Nelle foto di uno dei 19 campi di concentramento americani
sul Reno, l’A2 di Remagen in Renania-Palatinato, a fine aprile 1945. Si nota
bene l’assenza di baracche o altri ricoveri (che la democrazia non ne conosca
l’uso?).
Ciò che ci dice MacDonogh sul trattamento dei prigionieri di
guerra da parte degli inglesi appare discordante. In Gran Bretagna c’erano
391.880 prigionieri al lavoro nel 1946 ed un totale di 600 campi nel 1948. Egli
scrive che “il regime non era così duro e
in termini percentuali il numero di uomini che morirono mentre erano in
prigionia britannica è sorprendentemente basso rispetto a quello degli altri
alleati”. Tuttavia altrove racconta come “gli inglesi riuscirono ad eludere [le clausole della Convenzione di
Ginevra] che prevedeva di fornire da 2.000 a 3.000 calorie al giorno”, così
che “per la maggior parte del tempo il
livello scese sotto le 1.500 calorie”.
Gli inglesi avevano un campo di prigionia in Belgio che “era noto per essere particolarmente
massacrante”. Laggiù “si riferisce
che le condizioni dei 130.000 prigionieri non fossero molto meglio di quelle di
Belsen. Quando il campo fu ispezionato nell’aprile del 1947 si trovarono appena
quattro lampadine funzionanti; non c’era combustibile, né pagliericci e neppure
cibo, a parte la minestra d’acqua”.
Un servizio della Reuters del dicembre 2005 aggiunge una
significativa dimensione: “Secondo il
Guardian, gli inglesi gestirono un carcere segreto in Germania per due anni
dopo la fine della Seconda Guerra mondiale dove i reclusi, compresi membri del
Partito Nazionalsocialista, furono torturati e fatti morire di fame.
Citando dei dossier del Foreign Office, resi pubblici in
seguito ad una richiesta ai sensi del Freedom of Information Act, il quotidiano
scrive che la Gran Bretagna ha detenuto uomini e donne [sic] in una prigione di
Bad Nenndorf fino al luglio del 1947. Il giornale riferisce di “minacce di giustiziare i prigionieri, oppure
di arrestare, torturare e uccidere le loro mogli e i loro figli erano considerate
del tutto appropriate in quanto mai furono attuate”.
I francesi pretesero lavoratori tedeschi per ricostruire il
paese, ed a questo scopo inglesi ed americani cedettero loro circa un milione
di soldati tedeschi. MacDonogh dice che “il
loro trattamento fu particolarmente brutale”. Non molto tempo dopo la fine
della guerra, secondo la Croce Rossa, 200.000 prigionieri morivano di fame.
Siamo informati di un campo “nella Sarthe
[dove] i prigionieri dovevano sopravvivere con 900 calorie al giorno”.
Il saccheggio totale dell’economia
tedesca
I capi alleati non erano d’accordo fra loro sul Piano
Morghentau per spogliare la Germania del suo patrimonio industriale e
trasformarla in un paese agricolo. L’opposizione di alcuni e l’esitazione di
altri, tuttavia, non impedì che de facto il piano venisse attuato. Quando la
confisca fu conclusa, la Germania era in larga misura priva di mezzi
produttivi.
MacDonogh afferma che sotto i russi “Berlino perdette circa l’85% della propria capacità industriale”.
Da Vienna venne portata via ogni macchina. Dal Danubio fu sottratto il naviglio
e “una delle priorità sovietiche fu la
confisca di qualsiasi importante opera d’arte trovata nella capitale [Vienna].
Questa fu un’operazione totalmente pianificata”. Però “peggiore del completo trasferimento della base industriale fu il
rapimento di uomini e donne per sviluppare l’industria in Unione Sovietica”.
Sotto gli americani, lo smantellamento dei siti industriali
proseguì finché il generale Lucius Clay non lo fermò un anno dopo la fine della
guerra. Fino all’azione di Clay, il Piano Morghentau era incarnato dalla
Disposizione n. 6 dell’Ordine 1067 (529 del Joint Chiefs of Staff. MacDonogh
dice che dove “il furto degli ufficiali
americani fu perpetrato su scala massiccia” fu nel “sequestrare scienziati ed impadronirsi di attrezzature scientifiche”.
Gli inglesi presero molto per sé e passarono altro
patrimonio industriale agli “stati
clienti” come la Grecia e la Jugoslavia. La famiglia reale britannica
ricevette lo yacht di Goering e la zona britannica della Germania fu spogliata
degli “stabilimenti che potevano in
seguito entrare in competizione con le industrie britanniche”. MacDonogh
scrive che “gli inglesi ebbero la propria
tipologia di furto organizzato con la [cosiddetta] T-Force, che cercava di
racimolare qualsiasi ingegno industriale”.
Da parte loro i francesi sostennero “il diritto alla razzia”. “La
Francia non esitò ad appropriarsi di un’azienda di clorati a Rheinfelden, una
di viscosa a Rottweil, delle miniere Preussag e dei gruppi chimici Rhodia”,
e di molto altro ancora.
Se il Piano fosse stato realizzato del tutto per un lungo
periodo di tempo, gli effetti sarebbero equivalsi ad una calamità. (Il piano
Morgenthau può infatti essere rapportato alle deportazioni di massa e alla
trasformazione totale del lavoratori in contadini e braccianti agricoli attuata
decenni dopo in Cambogia da Pol Pot, ndR) Keeling, in “Gruesome Harvest”,
scrive che tentare “la distruzione
permanente del cuore industriale tedesco” avrebbe avuto come “conseguenza ineluttabile la morte per fame e
malattia di milioni, decine di milioni di tedeschi”.
La giustizia dei
vincitori
Quando la guerra terminò c’era unanimità fra i capi alleati
sul fatto che i capi Nazionalsocialisti fossero messi a morte. Alcuni volevano
una esecuzione immediata, altri “una
corte marziale straordinaria”. Ci fu
un inaspettato vantaggio nell’insistenza degli inglesi a seguire le “formalità
legali”, come fu poi deciso.
Il risultato fu una serie di processi coi trabocchetti dei normali
procedimenti giudiziari, che però furono di fatto una parodia dal punto di
vista del “principio della legalità”,
mancando sia dello spirito che dei particolari del “giusto processo”.
In due capitoli, MacDonogh fornisce un resoconto del
principale processo di Norimberga e della serie di processi che si ebbero in
seguito, per anni. Fra questi, gli americani celebrarono vari processi a
Norimberga, dopo il principale; davanti ai “tribunali
per la denazificazione” furono giudicate migliaia di cause; dopo la loro
entrata in funzione i tribunali tedeschi continuarono i processi e,
naturalmente, sappiamo del processo in Israele e dell’esecuzione di Eichmann.
Vi sono molti motivi per chiamarla “giustizia dei vincitori”. Perché se fosse stato altrimenti, un tribunale
veramente imparziale avrebbe dovuto essere convocato in qualche parte del mondo
(ammesso che una cosa simile fosse stata possibile subito dopo una guerra
mondiale) ed avrebbe dovuto procedere contro i crimini di guerra commessi da
tutte le parti combattenti. Ma ovviamente sappiamo che una forma di giustizia
tanto imparziale non era neppure contemplata.
Nell’atto d’incriminazione di Norimberga i
Nazionalsocialisti erano accusati del massacro del corpo ufficiali polacchi
della foresta di Katyn, imputazione che fu discretamente (e con grande
disonestà intellettuale e “giudiziaria”)
tralasciata nel giudizio finale, dopo che era divenuto chiaro a tutti che erano
i sovietici ad aver commesso la strage.
Un altro dei molti altri esempi possibili sarebbe quello
relativo alle deportazioni Nazionalsocialiste addebitate a Norimberga sia come
crimine di guerra che come crimine contro l’umanità. Per converso, nessuno fu
mai “assicurato alla giustizia” per
l’espulsione alleata dei milioni di tedeschi dalle loro terre ancestrali
dell’Europa centrale.
Traduzione a cura di Fabrizio Rinaldini – recensione di Dwight
D. Murphey, docente alla Wichita State University fino al 2003 e tratta dal
“The Journal of Social, Political and Economic Studies”, 2009 – Il libro After
the Reich: The Brutal History of the Allied Occupation di Giles MacDonogh, è
stato edito da Basic Books nel 2007, ristampato nel 2009, pagine 656, in lingua
inglese, ISBN: 978-0465003389
Fonte: srs di Dwight D. Murpheyda, da Arianna Editrice (2 aprile
2010)
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