L’ERRORE DI PUNIRE I POPOLI PER LE COLPE DEI GOVERNI
Negli ultimi anni si è diffusa una tendenza che dovrebbe far riflettere chiunque creda ancora nella dignità della cultura: quella di punire individui, artisti e atleti per le decisioni politiche dei loro governi. Musicisti esclusi dai teatri, sportivi banditi dalle competizioni, animali persino eliminati dai concorsi per la sola colpa di provenire da un certo Paese. Un atteggiamento che tradisce l’idea di civiltà su cui l’Europa moderna ha fondato sé stessa, perché confonde deliberatamente le persone con i regimi sotto cui vivono.
La differenza tra popolo e Stato, un tempo considerata ovvia, sembra oggi smarrita. La comunità umana è fatta di lingue, arti, tradizioni, abitudini quotidiane e relazioni; i governi, al contrario, sono costruzioni temporanee, strumenti organizzativi che dovrebbero servire i cittadini, non rappresentarli come identità assoluta. Scambiare la responsabilità di una classe politica con la colpa collettiva di un intero popolo è una regressione culturale che annulla secoli di progresso morale.
Questa confusione non è solo ingiusta, è anche inutile. Le sanzioni culturali o sportive non indeboliscono un governo autoritario, ma isolano ulteriormente chi ne è già vittima. Un pianista o un atleta non sono l’estensione di un ministero, ma individui che, come tutti, vivono dentro un sistema politico che non sempre hanno scelto. Negare loro lo spazio dell’arte o della competizione significa colpire la libertà stessa come principio universale.
Il paradosso è che questo moralismo selettivo si applica solo a certe nazioni. Quando un Paese noto e mediatizzato agisce in modo discutibile, l’opinione pubblica distingue agevolmente tra governo e cittadini. In altri casi, invece, prevale la semplificazione: milioni di persone vengono ridotte a un blocco indistinto, come se condividessero la volontà dei loro dirigenti. È un modo di pensare che riduce la complessità del mondo a una caricatura geopolitica.
Anche i grandi conflitti del passato hanno insegnato la differenza tra il potere e la popolazione. Persino nei momenti più drammatici della storia europea, i leader erano capaci di riconoscere che la guerra si combatteva contro un esercito, non contro un popolo. Oggi questa distinzione è stata cancellata da un linguaggio mediatico che tende a semplificare ogni realtà in chiave emotiva, dividendo il pianeta in buoni e cattivi, senza spazio per la responsabilità individuale o la conoscenza reciproca.
La vera cultura, quella che non si piega alle mode dell’indignazione, dovrebbe invece difendere la complessità. L’artista, lo scienziato, il cittadino libero non sono ambasciatori di un governo, ma testimoni della condizione umana. Bandirli per la loro nazionalità è una forma di censura travestita da etica, che disonora la tradizione europea della libertà di pensiero e della circolazione delle idee.
In un mondo dove la politica spesso divide, la cultura dovrebbe unire. Punire un popolo per le azioni del suo governo non è un gesto di giustizia, ma una vendetta contro la ragione.
L’arte e lo sport nascono per superare le barriere, non per crearne di nuove. La musica, il gesto atletico, la parola e il pensiero non appartengono a una bandiera, ma all’essere umano nella sua totalità. Escludere un artista o un atleta per ragioni politiche significa negare il principio stesso di universalità che rende la cultura un linguaggio comune. Solo riconoscendo questo potremo tornare a considerare l’umanità come un insieme di individui e non come un mosaico di frontiere.
LPB
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Fonte: srs di Lillo Paris Bobigny, da facebook del 21 ottobre 2025
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