Gianni Mura
Una conversazione a
tutto campo con Gianni Mura, su come è cambiato il mondo e su quello che ci
siamo persi, da Milano al mondo dell’informazione
Ad arrivarci in bicicletta, poco dopo l’ora di pranzo di un
giorno bollente di giugno inoltrato, la sede milanese di Repubblica
sembra una specie di avamposto in un territorio ostile e alieno. A poche
centinaia di metri da piazzale Lodi, i suoi due palazzi di vetro — un
parallelepipedo slanciato per Manzoni, un cubo tozzo per il gruppo L’Espresso —
sono sormontati da una decina di parabole che captano il mondo, lo
stesso mondo che le diverse decine di giornalisti che in quel cubo ci lavorano
ogni giorno, cercano, chi più chi meno, di raccontare e interpretare.
Nel labirinto di stanze e corridoi di quel cubo c’è anche
una stanza occupata quasi per intero da una scrivania affollata di documenti,
libri, appunti, con un pacchetto di MS light che spunta in mezzo alle carte. È
un disordine che lascia al computer soltanto il minimo spazio vitale.
Un’emarginazione del digitale che forse è casuale, anche se, dopo aver parlato
con il proprietario, viene da pensare che in qualche modo non lo sia, ma che
sia piuttosto una sorta di psicosomatismo dello spazio che reagisce e si adegua
a chi lo occupa.
Dietro alla scrivania c’è un signore di 70 anni dallo
sguardo limpido, un’espressione vagamente malinconica e una barba grigia,
tranquillizzante come il tono di voce, i cui sporadici scatti si manifestano a
livello lessicale. Si chiama Gianni Mura ed è uno dei più bravi
giornalisti sportivi italiani di sempre. Anzi, meglio, è tra le migliori
penne del giornalismo italiano di tutti i tempi, punto.
Gianni Mura vive di giornalismo da quando non aveva ancora
vent’anni e, uscito dalle aule del liceo classico, entrò nella redazione della
Gazzetta dello Sport come praticante. Era la metà degli anni Sessanta.
Milano era un’altra città, come l’Italia era un’altra Italia e il giornalismo
un altro mestiere. Da professionista della parola e del racconto, di un modo di
stare al mondo, di fare giornalismo, nonché dell’arte di condividere un tavolo
mangiando e bevendo — come dimostra, da ultimo, il suo Non c’è gusto,
pubblicato da Minimum Fax — Gianni Mura sa bene quanto sia importante,
nelle chiacchiere, non fare troppi giri di parole: «Quando mi chiedi “Cosa ci
siamo persi” intendi dire cosa vi siete persi, voi che avete trent’anni,
vero?», chiede sorridendo appena prima di iniziare, senza lasciare il tempo
alla domanda retorica di agire.
«Vi siete persi l’umanità di una città che era considerata
la più umana del Nord, se non d’Italia»
«Vi siete persi
l’umanità di una città che era considerata la più umana del Nord, se non
d’Italia. Vi siete persi le osterie, i bar e tutti i posti dove, da
studente, andavi e parlavi con chi trovavi e, se ci arrivavi la sera tardi,
avevi a che fare con una clientela borderline, soprattutto nella zona della
vecchia Gazzetta, in via Galilei. Ci trovavi anche delle vecchie battone,
cordialissime e, almeno per un po’, rilassate, perché erano lì a mangiare con i
loro protettori. Mi ricordo che una volta una mi disse che facevamo lo stesso
mestiere (ride) e in fondo non è del tutto sbagliato».
Cosa c’era a quei tempi che ora è sparito?
C’era un clima di non forzata mescolanza sociale, anzi,
direi spontanea, anche se era una Milano in cui le differenze tra ricchi e
poveri esistevano eccome. Ma c’erano posti come le piole notturne, osterie come
il Moncucco, il Meazza, la Magolfa, che a una cert’ora si riempivano di una
clientela variegata e interclasse. Alcuni erano anche dichiarati ladri e
malfattori, ma tra quella clientela variegata c’era anche la cosiddetta
“borghesia illuminata” che frequentava quei posti per sentire le canzonacce. Mi
chiedi cosa è sparito, ti rispondo non solo che sono spariti quei posti, ma
che, ben più grave, è sparita quella borghesia illuminata.
«Negli anni 60 si
avvertiva l’importanza di questa classe di operai, gente che si era fatta un
culo pazzesco, ma che però ci teneva a far studiare i figli»
Milano era una città operaia a quei tempi, in che cosa si
vede che quel mondo è scomparso?
Se si parla di quello che si è perso seriamente qui a
Milano, non si può non dire che si è persa quella civiltà incredibile che era
la cultura operaia. Come dice il proverbio Chi ghe volta il cul a Milan ghe
volta il cul al pann, e infatti Milano, da qualunque parte si arrivasse,
era fasciata da grandi fabbriche. E non era soltanto una questione di posti di
lavoro, che all’epoca si trovavano con facilità, anche dalla mattina alla sera,
ma era anche altro. Intorno ai primi anni Sessanta, quando io scoprivo la città
venendoci al ginnasio, si avvertiva l’importanza di questa classe di operai,
gente che si era fatta un culo pazzesco, ma che però ci teneva a far studiare i
figli. Pensa a quel verso di Contessa “anche l’operaio vuole il figlio
dottore”: all’epoca era vero, era possibile che l’operaio si comprasse una
casetta perché gli stipendi erano buoni e il lavoro era sicuro.
Era una città più ricca anche a livello culturale?
Quando parlo di cultura non intendo dire soltanto che
c’erano molte più librerie, cinema, teatri, recite, concerti, cabaret, fino ai
canti andini, ma che c’era anche un’abitudine che oggi si è persa: dire ai
giovani che bisognava studiare e avere molto rispetto sia per il lavoro che per
gli altri. Questa era la Milano operaia, ma, prima ancora, era la Milano delle
case di ringhiera, che c’erano in Ticinese come a Lambrate prima che
arrivassero i loft. Abitazioni molto lontane da quelle dei quartieri
residenziali e anonimi di oggi, veri e propri luoghi di convivenza e di
solidarietà umana, in cui era normalissimo che se una famiglia finiva la legna
il 20 del mese quelli del piano gliela davano, che tanto poi ci si metteva a
posto.
«Quello che rovina la
gente a Milano oggi è un senso di profonda solitudine»
Che cosa è rimasto di quel tessuto sociale?
Quasi nulla. Quello che rovina la gente a Milano oggi è un
senso di profonda solitudine. Una volta era una città diversa che, seppur si
poteva odiare per il clima terribile e grigio, le si doveva riconoscere che
quel senso di solitudine non te lo faceva provare mai. Ci si sentiva in
compagnia e non ci voleva molto a trovarla. Questo spirito è sparito insieme ad
altre cose che sono scomparse anche nel resto d’Italia, e che fondamentalmente
sono due: la prima è il tempo libero, che praticamente non esiste più, la
seconda è un’abitudine ai rapporti umani, che oggi sono devastati, confinati ai
margini della vita dall’invasione degli smartphone e di tutte le altre trappole
tecnologiche che ti danno l’illusione di essere connesso con il mondo, di avere
1753 amici, ma che in verità ti nascondo la verità: che non hai un cazzo. Se
provi a chiedere 50 euro in prestito a uno di questi 1753 amici non credo che
li avresti.
«Quello che vedo io a
Milano è una sorta di fretta incazzata, che non è neanche una fretta
consapevole, è una fretta senza senso»
E questa evoluzione, o involuzione, a che cosa ha
portato?
Ha portato a un girare frenetico di criceti sulla ruota,
quello che vedo io a Milano è una sorta di fretta incazzata, che non è neanche
una fretta consapevole, è una fretta senza senso, da quando ci si sveglia e si
cerca di saltare la fila per il caffè a quando si litiga per il parcheggio.
Tutto questo una volta non c’era o, se c’era, c’era molto di meno, perché era
attutito dalla presenza di un forte tessuto sociale e da una radicata
educazione all’altro da sé. E non sto parlando di galateo, ma di un’educazione
e un rispetto verso gli altri che ormai si è perso. Molto più delle trattorie
fuori porta, anche perché qualche trattoria a Milano la puoi ancora trovare.
«Questa vita di
relazione di strada o di quartiere si è persa nel mare immenso degli
ipermercati. Non c’è più ed è difficilmente ricreabile»
Su cosa si basava quel tessuto sociale?
Era sia quello delle grandi fabbriche, sia quello dei
piccoli artigiani. Era formato da tutto ciò che nei quartieri definiva degli
stati di relazione: una rete di ruoli che ognuno aveva all’interno della strada
o del quartiere, dal fruttivendolo al macellaio, fino al panettiere, negozi che
formavano un tessuto commerciale, ma anche sociale. Quando mi sono sposato
avevo sei salumieri e due fruttivendoli nel raggio di 150 metri. Non ce n’è più
uno. Ha resistito solo un panettiere. Questa vita di relazione di strada o di
quartiere si è persa nel mare immenso degli ipermercati. Non c’è più ed è
difficilmente ricreabile.
Quando sparisce l’umanità di un tessuto sociale così
forte, che cosa resta?
Subentra qualcosa di molto vicino al nulla, subentrano dei
locali d’acchiappo che si assomigliano tutti uno con l’altro, dietro a cui ci
sarà uno studio di mercato: si rivolgono tutti più o meno alla stessa fascia di
pubblico ed è tutto appiattito, anche in una zona che era uno dei luoghi alti
della letteratura milanese come i Navigli. Perfino Simenon, che era preoccupato
solo di scopare, aveva chiesto che gli affittassero un appartamento sopra il
vicolo dei lavandai. Anche Vittorini abitava là vicino. Insomma, si è perso
moltissimo, e dubito che si sia guadagnato qualcosa. Ormai alla mia età c’è una
certa tendenza al reducismo, ma a me non viene voglia molto di uscire la sera
in questa città, che è comunque popolata da una fauna in larga parte poco nota
e che sinceramente non so se ho voglia di conoscere.
«Era una Milano così,
ma talmente naturale che qualcuno è riuscito anche a scriverla, raccontarla
nell’immediato, come Beppe Viola, mentre qualcuno l’ha cantata, come Jannacci»
Che gente si incontrava a quei tempi?
C’erano attori, come la Melato, che era spesso al Jamaica. C’erano
intellettuali come Bianciardi, Viola, cantautori come Jannacci, e poi pittori,
fotografi, artisti. Si conoscevano tutti. Beppe Viola aspettava Trintignant che
usciva dal set e che, se non andava a giocare ai cavalli, gli portava un paio
di bottiglie di Borgogna. Era una Milano così, ma talmente naturale che
qualcuno è riuscito anche a scriverla, raccontarla nell’immediato, come Beppe
Viola, mentre qualcuno l’ha cantata, come Jannacci.
E Bianciardi?
Bianciardi anche, però lui più che un amore verso questa
città provava un rancore profondo e quindi la viveva da esule, da incazzato e
si ancorava ad alcune amicizie, ma il suo non era il modo migliore di vivere
Milano, per quanto gli abbia ispirato un grandissimo libro come La vita agra,
in cui però il lottare non esce particolarmente bene.
Perché la cultura oggi sembra non avere più questa
attrattiva?
Forse all’epoca si parlava meno di cultura, eppure le si
riconosceva un valore molto più importante, un valore che non le si riconosce
più. La cultura era importante per quelli che facevano politica, per quelli che
scrivevano sui giornali — perché all’epoca bisognava essere soprattutto bravi a
scrivere — era importante per chi faceva spettacolo, sia teatro che cabaret.
C’era una vita culturale vivacissima a Milano che secondo me è quasi
completamente sparita, così come hanno chiuso tanti teatri, tanti cinema, tante
librerie. Ma non solo, Milano era anche una città di musicisti, pensa che
arrivavano i più grandi dall’America a cercare Sellani o Cerri, facevano jam
session, cantava Billie Holiday al Puccini, o anche i Beatles al Vigorelli, era
esattamente 50 anni fa.
Quando ha iniziato a cambiare?
Questa non è mia, ma di Giacomo di Aldo, Giovanni e Giacomo,
che diceva: «ho cominciato a spaventarmi quando a Milano chiudevano le librerie
e aprivano solo centri d’abbronzatura». È qualcosa di più di una battuta,
perché è vero che hanno aperto un sacco di centri d’abbronzatura e che oltre
alle librerie stanno chiudendo anche molte edicole.
Però stanno rinascendo un po’ di questi posti, in
particolare librerie, ma anche panetterie e altre attività legate
all’artigianato. E proprio a partire dalla mia generazione, quella che ora ha
trent’anni e che ci sta provando...
Sì, ma con che soldi li aprono questi posti? Io non ho le
idee chiarissime, e poi non considero i giovani una categoria immutabile, ma
per aprire una libreria servono dei soldi alle spalle...
«Questa è una delle
grandi problemi sociali di oggi: la dipendenza, spesso forzata, dei figli dai
genitori»
Spesso sono soldi dei genitori immagino...
Immagino anch’io, e devo dire che certamente preferisco che
aprano una libreria piuttosto che un centro per le unghie. Però mi fa pensare a
una cosa: al fatto che il conflitto sociale non sia più percepito come
interclasse ma che venga dipinto sempre di più come conflitto
intergenerazionale. Ma far credere ai più giovani che basta far fuori i più
vecchi per subentrare loro nelle stesse posizioni è una presa per il culo.
Purtroppo di questi tempi molti giovani hanno bisogno dei più vecchi, se no
come si comprerebbero il telefonino, dove dormirebbero, cosa mangerebbero? Ecco
questo è una delle grandi problemi sociali di oggi: la dipendenza, spesso
forzata, dei figli dai genitori.
«Era possibile
conquistarsi la vita, come si diceva allora, oggi invece è molto più difficile»
Negli anni Sessanta come funzionava?
Negli anni del famoso ’68, che io ho fatto poco perché già
stavo lavorando alla Gazzetta, la tendenza era uscire di casa il prima
possibile, oggi invece è quasi restarci il più a lungo possibile, con tutti i
casini che ne possono derivare. Allora si poteva fare, anche perché era
possibile affittare un appartamento grande a prezzi onesti e andarci a vivere
insieme ad amici, a far la famosa “comune”. Io avevo amici che andavano a
scaricare le casse al mercato per poter affrancarsi dai propri genitori. Era
possibile conquistarsi la vita, come si diceva allora, oggi invece è molto più
difficile. Se io penso a cos’era il mondo a quei tempi devo dire che sono stato
molto fortunato, sono stato fortunato per Milano, ma anche per il mio mestiere.
Finisce la frase, guarda il pacchetto di sigarette
appoggiato tra la montagna di carte, poi fa: «quando vuoi ce ne fumiamo
un’altra eh?» E così, fermata la registrazione, continuiamo a parlare su un
terrazzino del secondo piano di quel cubo di vetro. Il posacenere pieno e la
posizione tattica di una sedia ne fanno il luogo ideale del lavoratore
tabagista. Sembra un dettaglio superfluo, ma non lo è. Cambiare per un attimo
luogo e condividere un gesto — cose che nelle interviste succedono di rado — fa
muovere l’intervista oltre il recinto delle domande previste. Cinque minuti, il
tempo di una sigaretta, ma sono sufficienti per continuare a parlare di Milano,
di Lambrate, in verità, — «quei viali mi ricordano Parigi ogni tanto» dice Mura
— e arrivare al nostro lavoro, al giornalismo, al senso che ancora hanno, o non
hanno, le scuole, fino a che approdiamo al tu — «facciamo lo stesso lavoro,
dai, non darmi del lei».
Le chiacchiere sul terrazzino continuano nel corridoio e
arrivano fino alla scrivania disordinata, sulla quale ritorna anche il
pacchetto di MS Light: «La fatica oggi è valutare le notizie», continua Mura,
«perché ora sono dovunque e in un numero incommensurabile rispetto a prima».
Prima com’era?
Una volta per i giornali c’era solo l’ANSA, France Press e
la Reuters che ti arrivavano in redazione. Ora arriva di tutto, e non solo,
perché in questo momento le notizie privilegiate sembrano spesso essere le
peggiori. Non so, c’è un assessore da qualche parte in provincia che scrive un
commento razzista contro la Kyenge e va in prima pagina.
«La cosa grave è che
questa apertura al pettegolezzo è generalizzata, come se ogni giornale dovesse
averla per forza»
Sì, ma quello è gossip...
Eh sì, è gossip, che da quando non si chiama più
pettegolezzo è stato sdoganato completamente. Tanto è vero che, quella che una
volta chiamavi roba da Oggi o da Gente o, peggio, Novella2000, Eva Express
eccetera, adesso le trovi regolarmente su Repubblica o sul Corriere, magari
scritte in un modo leggermente più sfuggente, ma resta sempre un “chi scopa con
chi”, o un “come finisce l’Isola dei famosi”. La cosa grave è che questa
apertura al pettegolezzo è generalizzata, come se ogni giornale dovesse averla
per forza.
Perché?
Trent’anni fa non se lo ponevano il problema. Pensa che
Repubblica per anni è andata avanti senza una pagina sportiva. A un certo punto
però tutti i giornali sono diventati come la vetrina della Standa, cioè più
roba hai dentro e più gente attiri. Una vetrina...
Alla prova dei fatti però non sembra vero. Tutti i
giornali perdono lettori...
Eh sì, e questo dovrebbe fare riflettere i direttori dei
quotidiani, perché, se tutti perdono, qualcosa che non va c’è, e anche molto
grosso.
Che futuro hanno, o meglio quanto futuro hanno?
Leggevo che per gli americani il termine di estinzione dei
quotidiani è tra il 2025 e il 2028. Vuol dire avere avanti una decina d’anni.
Io sentimentalmente sono dalla parte della carta, è evidente. Non posso essere
dall’altra per motivi anche solo di frequentazione e di conoscenza. Però mi
rendo conto che la carta crea sempre più problemi, soprattutto per quel che
dicevamo prima sulla mancanza di tempo libero, e che c’è sempre meno gente che
ha voglia di leggere un giornale stampato.
«Quasi tutti i
cambiamenti grafici o restyling si risolvono in una diminuzione dei testi e un
ampliamento dei titoli e delle foto. È sempre più difficile capire che c’è
anche qualcosa da leggere»
Anche perché ogni tanto sembra che ci sia sempre meno da
leggere...
Sì, esatto, quasi tutti i cambiamenti grafici o restyling si
risolvono in una diminuzione dei testi e un ampliamento dei titoli e delle
foto. È sempre più difficile capire che c’è anche qualcosa da leggere, anche
perché se quel qualcosa — che sia la bomba atomica o uno stupro in
metropolitana — è sotterrato da un titolo alto così o da una foto gigante e da
leggere ci sono solo cinquanta righe. È poco. Per dire che ho ragione, almeno
su questo, basta che andare in emeroteca e guardare le prime pagine dei
maggiori quotidiani di vent’anni fa — Repubblica, Corriere, La
Stampa, Il Giornale, quelli che c’erano insomma — e confrontarli con
quelli di adesso. Lo si capisce al volo: il testo, che dovrebbe essere la parte
più importante in un giornale scritto, è quasi sempre sacrificato. A meno che
non ci sia il pezzo della grande firma di turno, o la grande inchiesta. Ma
altrimenti, su cose per cui prima ci facevi un taglio basso, ora ci fai una
pagina.
Perché tendiamo a vedere carta e digitale come due nemici
e non cerchiamo di vederne una possibile alleanza?
Non è detto, certo. Ma la tendenza è questa. Tu sei pratico
di scoiattoli? Immagino di no. Ma avrai visto che da quando sono stati
importati gli scoiattoli americani — quelli grigi — i nostri scoiattoli europei,
quelli rossi, sono stati sterminati. Perché hanno delle abitudini e anche una
grandezza differente rispetto a quelli americani, che sono molto più
aggressivi. Grossolanamente secondo me gli scoiattoli americani nel mondo
dell’informazione di oggi sono il web, mentre quelli rossi siamo noi, la carta
stampata. Ripeto, non è detto che ci estinguiamo entro i dieci anni di cui
sopra, ma certamente è vero che da un po’ di anni abbiamo una vita sempre più
difficile.
Però in natura esiste anche il meticciato...
Sì, ma in questo caso mi riesce difficile immaginare una
qualsiasi intesa, per non dire un flirt o un matrimonio. Individuare una strada
comune tra quello che è il mondo dell’informazione web e quello della carta è
complesso anche da immaginare. Sono molto diversi i concetti fondanti, concetti
che in parte la carta ha smarrito. Ma sta di fatto che il web sta vincendo, sta
conquistando sempre più pubblico. E non è, credo, una questione di novità, ma
piuttosto di velocità con cui tutto ti arriva davanti. Dei due quello che resta
indietro è certamente la carta.
«Se dirigessi un
giornale, non farei una pagina sui pomodori nell’agro campano, ne farei dieci.
Manderei qualcuno per tre settimane, gli darei molte più pagine, ci manderei
quattro giornalisti e un fotografo»
In molti pensano però che la carta non sia morta. Come
potrebbe riprendere terreno?
La carta potrebbe riguadagnare un po’ del terreno che ha
perso se i giornali fossero fatti diversamente. Ma invece non lo sono. Vedo che
si continua a fare una pagina di intervista a questo o quel politico del tutto
ininfluente, semplicemente per riempire una pagina e tenersi buono il politico,
che tra l’altro, il più delle volte, non ha un cazzo da dire. Mentre credo che
oggi, soprattutto in una situazione di crisi, al lettore medio, alla gente,
interessi molto di più quello che succede intorno a lui. Non dico di fare il
giornale di quartiere, dico però di occuparsi molto più di vite vere andando in
giro e raccontandole. O facendo delle inchieste molto serie che non durino un
giorno. Perché l’autorevolezza di un giornale la misuri dalla sua capacità di
impegnarsi nel tempo, ed è così che fidelizzi i lettori. E gli esempi possono
essere mille. Se io dirigessi un giornale, non farei una pagina sulla raccolta
dei pomodori nell’agro campano, ne farei dieci. Manderei qualcuno per tre
settimane di seguito, gli darei molte più pagine, ci manderei quattro
giornalisti e almeno un fotografo, magari da difendere come si fa in Iraq con
una pattuglia davanti e una dietro, visto che lì non amano molto chi ficca il
naso nei loro affari. Però lì c’è la notizia: è il capire come è possibile che
in Italia succeda che il 64 per cento di tutti quelli che lavorano in quelle
situazioni non hanno accesso all’acqua, non possono lavarsi, non hanno un
bagno, e hanno una paga da fame.
«È questo che mi
stupisce, che i grandi della terra, in un periodo in cui le comunicazioni sono
diventate facilissime e potrebbero parlarsi con Skype quando vogliono, si
debbano ritrovare fisicamente in un posto»
Perché i giornali non ne parlano abbastanza?
Immagino che sia perché non sono convinti sia interessante,
ma anche perché sono sempre più prevedibili, inseguono i riti. Io ho una
ribellione per tutto ciò che ormai è diventato un rito. Mi danno fastidio. La
cosa che mi dà più fastidio è il G8. Io non ho capito, da cittadino, perché
debba riunirsi ogni 15 giorni, per fare le foto di rito, farsi riprendere
mentre si stringono le mani — Renzi possibilmente senza giacca — e non
concludono un cazzo. E si rivedono da lì a quindici giorni. Che la Grecia sia
sull’orlo del fallimento è mesi che lo sappiamo. Ora è un po’ più in qua, ora
un po’ più in là, ma non è una cosa seria. Ed è questo che mi stupisce, che i
grandi della terra, in un periodo in cui le comunicazioni sono diventate
facilissime e potrebbero parlarsi con Skype quando vogliono, si debbano
ritrovare fisicamente in un posto, mettere su il teatrino dove poi si radunano
di fronte tutti i black bloc a far casino — un altro rito — e non ne esce mai
niente. Il problema dei migranti, per esempio, sono anni che se ne parla e si
dicono sempre le stesse cose. Ma soprattutto non cambia nulla, non succede
niente. È c’è una opinione pubblica che viene costantemente manovrata.
Da questo punto di vista quanto conta la presenza
costante dei politici in televisione?
Mi son sempre chiesto perché Salvini deve essere sempre in
televisione quando il fenomeno Lega nasce con Bossi, che non aveva toni troppo
diversi da Salvini, ma che aveva più voti. E in televisione non ci andava mai.
Che ci sia così tanto Salvini in televisione a me francamente preoccupa, anche
se ormai mi sembra appurato che la politica non la facciano tanto i politici
quanto la grande finanza mondiale. È come se qualcuno avesse deciso che
l’Europa deve andare verso gli Orban, verso le Le Pen, verso i Salvini, perché
questo rappresenterà non so cosa, la purezza o la salvezza dell’Europa, o meno
rotture di coglioni. Però l’impressione è che questi siano politici
letteralmente imposti dalla televisione.
«Cosa decidono tutti
questi grandi statisti? Il nulla. Sono il nulla. Ma il nulla che i giornali,
con la loro enfasi, dipingono come il tutto. Ma non sono niente»
Il ruolo del giornalismo sarebbe quello di mettere in
discussione il potere e smascherare le manipolazioni, perché lo fa sempre di
meno?
Si, in effetti il giornalismo, almeno quello dei grandi
giornali e delle televisioni, si sta limitando a dare la vetrina a questi
incontri — le classiche foto da terza media — ma da questi incontri cosa viene
fuori? Cosa decidono tutti questi grandi statisti? Il nulla. Sono il nulla. Ma
il nulla che i giornali, con la loro enfasi, dipingono come il tutto. Ma non
sono niente.
Perché non si oppongono?
Forse perché sono pigri, o forse semplicemente perché sono
vecchi, mentre forse occorrerebbe un giornale nuovo, o quantomeno con un po’ di
fantasia. Quando Zavattini, che è stato un grandissimo, dirigeva mi pare Confidenze,
in piazza Carlo Erba, il giorno delle nozze reali di Elisabetta uscì con una
prima pagina con titolo Le nozze di Elisabetta. Solo che quella
Elisabetta era una Elisabetta Rossi di Crema. Cioè, era andato al matrimonio di
una che si chiamava Elisabetta e lo aveva trattato come se fosse il royal
wedding. Una cosa geniale. Cazzo, queste cose le faceva cinquantanni fa.
«Il mio ideale è un
giornale che racconti storie vere, in prima persona, che faccia delle inchieste
che non abbia paura di scrivere pezzi da 10-12 pagine. Il problema è che se
vengono a mancare i fondi questa cosa non la fai»
Questa verve si è persa?
Queste idee ci possono ancora essere, il problema sono i
fondi. Io ti parlo ancora sanguinando dalla ferita di E, il mensile di
Emergency. Quello credevo che fosse il giornale che somigliava di più al mio
ideale di informazione: un giornale che racconti molte storie vere, in prima
persona, che faccia delle inchieste che non abbia paura di scrivere pezzi da
10-12 pagine. Il problema è che se vengono a mancare i fondi questa cosa non la
fai.
E il finanziamento dal basso, il crowdfunding?
Io non credo molto nella raccolta dei fondi dal basso. Il
problema è che non esiste più una borghesia illuminata, perché probabilmente
una Giulia Maria Crespi trent’anni fa un giornale o un mensile che puntava in
alto ma partendo dal basso, lo avrebbe finanziato. Ma questi di oggi
assolutamente no...
Cosa è successo alla borghesia “illuminata”?
Semplicemente credo che i figli siano diversi dai genitori e
che abbiano — intendiamoci, con tutti i diritti — interessi diversi dal
giornalismo. Non è detto che uno debba essere un coglione, basta anche che sia
convinto che investire sulla carta stampata sia buttare i soldi e che decida
così di investire su altro. Tu che vai in bici lo puoi capire: quello che sta
attraversando il giornalismo oggi sembrano gli ultimi venti chilometri di una
tappa di montagna. Non vedi quella freschezza necessaria per fare uno scatto,
ma nemmeno per copiare quelle vecchie idee alla Zavattini, anzi direi che
l’immaginazione, che una volta si sperava andasse al potere, non sia mai stata nemmeno
vicina ad andare al potere nel mondo del giornalismo.
E chi è andato al potere, e chi è al potere oggi è tutto
fuorché immaginativo, anche in Italia...
Esatto...
«Ce ne fumiamo un’altra?», fa, e si alza, proseguendo il
discorso, che scivola verso altri argomenti: il suo rapporto con Gino Veronelli
e con gli anarchici — «io mi mi definirei un anarchico pigro», dice a un certo
punto — e poi di nuovo Lambrate. Si parla di cibo, poi a un certo punto di
certe birre che da quelle parti si chiamano in dialetto — Ghisa, Ligera,
Magutt, Ortiga — ma soprattutto della fantastica varietà umana che si raduna
intorno a quelle birre, una fauna che forse somiglia a quella di cui si parlava
prima — «io come sai preferisco il vino, la birra la bevo solo in Belgio, ora
ci vado a seguire il Tour, però una volta ci organizziamo e me ne fai
assaggiare una di quelle birre».
Poi si continua, spenta la prima MS Light, Mura ne
accende un’altra. Parliamo di internet, di smartphone, di social network, di
confronti generazionali — «quando mi arrivò lo stipendio per la prima volta lo
passai a mio padre, che quella sera si alzò dal tavolo senza mangiare.
Guadagnavo più di lui, che aveva combattuto, aveva fatto la resistenza, era un
maresciallo dei Carabinieri». Poi spegne la sigaretta e si torna al
registratore, al giornalismo, alla stanza e alla scrivania disordinata.
«Sono cambiate tante cose nei giornali», riattacca appena
riparte la registrazione. «Parliamo dell’uso degli intellettuali, visto che in
qualche modo siamo partiti da lì, da Bianciardi, da Viola e gli altri. Io credo
che sia molto interessante questo discorso, anche per capire cosa sia successo
nei giornali. Prendi Bianciardi, che se è vero che scriveva soprattutto di
calcio, scriveva anche di spettacolo, società, televisione. O Pasolini, uno che
scriveva di politica, di costume, di società».
«Una volta gli
scrittori scrivevano sui giornali in quanto scrittori, ora lo fanno in quanto
tifosi, il che equivale a chiedere a chiunque, basta entrare in un bar, perché
i tifosi sono tutti uguali in fondo»
Ora invece?
Ora se cerchi un pezzo di un intellettuale su un giornale
trovi ben poco. Ogni tanto Veronesi scrive sulla Gazzetta, ma scrive della Juve
in quanto juventino, non perché ha delle cose da dire sul calcio, solo perché è
un tifoso. Questo è un salto in basso, esattamente come Gramellini, che le cose
peggiori le scrive quando scrive del Toro. Moravia faceva il diario d’Africa
sul Corriere perché si chiamava Moravia, esattamente come a fare la Russia ci
andava Biagi. Una volta gli scrittori scrivevano sui giornali in quanto
scrittori, ora lo fanno in quanto tifosi, il che equivale a chiedere a
chiunque, basta entrare in un bar, perché i tifosi sono tutti uguali in fondo.
Soprattutto nello sport c’è stato un afflusso di penne buone, perché servivano,
perché all’epoca popolare non era abbinato a nazionalpopolare. Il popolare non
era ancora una cosa da guardare come si guarda una medusa morta, per me non lo
è nemmeno adesso. Però una volta Buzzati andava al giro d’Italia, o pensa ad
Alfonso Gatto, Pratolini, Anna Maria Ortese, Mosca, Montanelli, ci andavano
quelli bravi. Esattamente come ai mondiali dell’82, che non sono cent’anni fa,
la prima firma di Repubblica era Gianni Brera, la prima firma del Corriere era
Mario Soldati, la prima del Giornale era Arpino e la prima de La Stampa era
ODB, al secolo Oreste Del Buono. Capisci che siamo un po’ lontani. E il
problema è che questi non sono stati sostituiti da persone all’altezza. Avere
un racconto di gente come Soldati e Brera non è la stessa cosa di avere gente
come Cazzullo o Riotta, con tutto il rispetto per Cazzullo e Riotta. E poi il
problema non sono gli scrittori sono i giornalisti.
Fonte: srs di di Andrea Coccia, da LINKIESTA del 1 luglio 2015
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