mercoledì 12 giugno 2013

I GIORNALISTI ONESTI CI SONO, SOLTANTO CHE COSTANO DI PIÙ




di ENZO TRENTIN

Affermava Mark Twain: «Solo ai morti è permesso di dire la verità», aggiungendo dopo che diversi dei suoi scritti furono censurati o respinti dai suoi editori e caporedattori, sopportando le conseguenze dello scomodo privilegio di quella libertà di opinione a cui cercò sempre di dare espressione: «Un uomo non è indipendente, e non può permettersi di avere delle idee che potrebbero compromettere il modo in cui si guadagna il pane. Se vuole prosperare, deve seguire la maggioranza. Per questioni molto importanti, come la politica e la religione, deve pensare e sentire come la maggior parte dei suoi vicini, altrimenti subirà danni alla sua posizione sociale e ai guadagni negli affari». 

Ma la questione non si esaurisce nella visione di  Mark Twain. C’è la corruzione nelle redazioni. Giornalisti (e giornali) ”comprati”. Un Rapporto realizzato per il Center for International Media Assistance (CIMA) denuncia la sottovalutazione del problema della corruzione nel giornalismo – «Siamo stati tanto impegnati a difendere i giornalisti da diventare troppo timidi nell’analisi e nella denuncia di questo aspetto del nostro mestiere», denuncia la Ricerca e indica una serie di misure per combattere «il lato oscuro della professione» – Un ampio paragrafo viene dedicato alla situazione in Europa e Nord-America che risulta altrettanto – se non più – preoccupante rispetto al resto del pianeta.

In Ghana un giornalista va a una conferenza stampa e nella cartellina trova una busta marrone con dentro un assegno per un valore di 20 dollari. Non si meraviglia, e alla fine dell’incontro la infila in borsa e torna in redazione a scrivere il pezzo.

In Russia un’agenzia di pubbliche relazioni manda in giro un falso comunicato relativo a una azienda inesistente. Tredici testate abboccano e si dicono disponibili a pubblicare la nota in forma di articolo, ma solo dietro pagamento, con richieste che vanno dai 120 ai 2.000 dollari. Soldi per scrivere (o per non scrivere): è quello che Rosental Alves, direttore del Knight Center for Journalism in the Americas della University of Texas chiama «il lato oscuro della professione» e che si verifica ogni giorno in ogni parte del mondo.

Il tema è al centro di ”Cash for Coverage” un Rapporto che Bill Ristow, giornalista di Seattle ed esperto in formazione dei giornalisti, ha realizzato per il Center for International Media Assistance (CIMA), un progetto che fa capo al National Endowment for Democracy (NED).  Nell’introduzione Ristow rileva come Alves sia fra le persone convinte che le organizzazioni dei giornalisti non abbiano fatto abbastanza per combattere la corruzione. «Non è un tema di cui si occupano in molti – rileva Alves -. Siamo stati tanto impegnati a difendere i giornalisti da diventare troppo timidi nell’analisi e nella denuncia di questo aspetto del nostro mestiere».

Non solo i giornalisti e i loro editori accettano bustarelle per fare articoli su materiali truccati, ma spesso entrambi istigano ed estorcono soldi per pubblicare storie favorevoli a qualcuno o non pubblicare articoli che possano danneggiare qualcun altro. Il Rapporto naturalmente sottolinea come la corruzione nel mondo giornalistico non sia diffusa solo nei paesi in via di sviluppo, e un ampio paragrafo viene infatti dedicato alla situazione in Europa e Nord-America che risulta altrettanto – se non più – preoccupante rispetto al resto del pianeta.

Nonostante tutte le campagne organizzate per sostenere lo sviluppo dei media e difendere la libertà di stampa nel mondo, è stato fatto molto poco in maniera concertata per ridurre il problema della corruzione nel giornalismo – e quel poco che è stato fatto proviene da una fonte che può sorprendere un giornalista: i professionisti delle Pubbliche relazioni. Le loro associazioni internazionali hanno sponsorizzato le ricerche più approfondite mai fatte sulla questione, e sia in Europa dell’est che altrove la gente delle PR ha cercato di lavorare insieme ai giornalisti per ripulire l’industria delle notizie.

Alcuni, fra cui anche esperti nel campo della libertà di stampa con molta esperienza, ritengono che i difensori dei giornalisti debbano fronteggiare attacchi che provengono da così tanti lati che si sentono a disagio a criticare tutti gli aspetti dei media stessi, per quanto queste critiche siano ben meritate.  Alves, tuttavia, è uno di quelli che sono convinti che puoi difendere la libertà di stampa e chiedere nello stesso tempo degli alti standard.  E non è d’accordo con la comune preoccupazione secondo cui il problema del giornalismo ‘comprato’ è così profondamente radicato da diventare virtualmente insolubile. «Non penso che sia impossibile – dice -. È molto difficile, certo, ma i miglioramenti che si sono verificati mostrano che qualcosa si può fare, basta cominciare ad agire».

Sulla base di una serie di interviste a persone che hanno lottato contro lo spinoso problema della corruzione, l’autore del Rapporto delinea le principali raccomandazioni per un’azione che – afferma – possa fare la differenza nell’impegno per ridurre questa macchia sulla professione giornalistica.

Intanto uno dei temi più controversi del momento è: l’Italia riformi la legge e depenalizzi il reato di diffamazione.
È l’invito rivolto dalla rappresentante per la libertà dei media dell’Osce, Dunja Mijatovic, in una lettera al ministro degli esteri Emma Bonino in cui esprime “preoccupazione” per le pene detentive inflitte per diffamazione ai tre giornalisti di Panorama Marcenaro, Mulé e Arena. (ANSA)«In una moderna democrazia nessuno dovrebbe essere imprigionato per quello che scrive», scrive Mijatovic. Nella lettera al ministro Bonino, Mijatovic ricorda il caso Sallusti e sottolinea il fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito ripetutamente che «la reclusione per il reato di diffamazione è sproporzionata e dannosa per una società democratica» [...] «I tribunali civili sono del tutto in grado di rendere giustizia alle rimostranze di coloro i quali si ritengano danneggiati nella propria reputazione», scrive ancora la rappresentante per la libertà dei media nella lettera pubblicata sul sito dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. «La reclusione per diffamazione ha un grave effetto raggelante che mina l’efficacia dei mezzi di comunicazione», dichiara ancora Mijatovic.  «Continuerò a lavorare a stretto contatto con le autorità italiane per promuovere la depenalizzazione della diffamazione. Dovrebbe essere fatto  presto per evitare ulteriori accuse di diffamazione e per stimolare l’attività giornalistica investigativa», sottolinea infine la rappresentante per la libertà dei media dell’Osce, che ha esortato tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione che hanno leggi penali sulla diffamazione ad abrogarle.

Tuttavia si sa: l’inferno e lastricato di buone intenzioni. Nell’Italia d’oggidì non sono queste le priorità che interessano il legislatore. Né al cosiddetto popolo sovrano è concesso d’intervenire. Ci sono un sacco di authority che garantiscono questo e quello; nessuna che garantisca il lettore che ha diritto di conoscere, del prodotto giornalistico che acquista, l’esatta e aggiornata composizione dell’assetto proprietario, nonché l’elenco dei principali inserzionisti pubblicitari, degli azionisti di controllo, eventuali patti di sindacato, e i possessi collaterali dei partecipanti al patto, i bilanci societari.  Obbligatoria dovrebbe essere la pubblicazione, nel colophon (gerenza), del Consiglio di amministrazione, della tiratura, dell’eventuale quotazione in borsa, dell’ammontare della raccolta pubblicitaria e dell’elenco dei committenti. Periodicamente i lettori dovrebbero essere informati delle variazioni di tiratura. Annualmente dovrebbero essere pubblicati lo Statuto interno, il testo integrale dei Patti intercorsi tra editore e direttore e i principali codici deontologici che regolano la professione giornalistica. Obbligatoria dovrebbe essere la pubblicazione delle fonti giornalistiche e delle qualifiche dei collaboratori, soprattutto se ricoprono incarichi politici.

Solo allora si potrebbe avverare ciò che Joseph Pulitzer (1), già aveva scritto: «…un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché a essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare, gli errori del governo, e una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello».

NOTA: (1) così J. PULITZER, Sul giornalismo, Bollati Boringhieri, 2009, 101.



Fonte:  srs di Enzo Trentin, da L’Indipendenza del 8 giugno 2013



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