Alessandro Sallusti
Il direttore de il Giornale si è “sbottonato”,
svelando i lati più intimi della sua vita. L’ostinato difensore di un pensiero
“altro”, controcorrente e contro le mode imperanti, notoriamente impassibile,
si racconta.
Gli esordi, ovvero: un direttore già da bambino. «Il
primo giornale penso di averlo disegnato per le vie di Como, a 9 o 10 anni.
Faccio il mestiere che ho sempre sognato di fare, più per fortuna che per
merito, questo è davvero un dono di Dio. Ero un bambino inquieto e
insoddisfatto. Per questo ho preso tante di quelle botte da mio padre…».
Il passato ingombrante. «Mio nonno è stato un
ufficiale dell’esercito, passato alla Repubblica Sociale, poi fucilato. Questa
storia ha sempre gravato sulla mia famiglia, come un peso insormontabile».
Il Battaglione San Marco: il militare necessario.
«Non sono mai stato uno studente modello. Ho fatto l’Istituto tecnico e in anni
in cui tutti erano ammessi agli Esami di Stato, mi fermarono. Una vergogna.
Immediatamente mi diressi allo sportello del distretto militare. Mi dissero che
se firmavo come volontario per il Battaglione San Marco avrei potuto partire
dopo due settimane. Firmai. Il militare ha cambiato la mia vita in modo
determinante, per questo penso che sia necessario ripristinare la leva
obbligatoria. E quando penso ai nostri marò, beh, penso che questo Paese ha
ormai perso il senso dell’onore».
Con Don Giussani sulla spider rossa. Considerazioni sulla
fede. «Ho cominciato all’Ordine, che era il giornale più scalcagnato
di Como, legato alla Curia, che dopo poco, in effetti, chiuse. Fui dirottato a Il
Sabato, dove ero noto più che altro perché andavo in redazione con la
spider rossa. Così un giorno Don Giussani viene a far visita alla nostra
redazione e mi pretende. “Mi porti a fare un giro sulla tua spider rossa?”.
Certo, dico io. In macchina, però, per vincere il mio imbarazzo, dico a
Giussani che non sono di Comunione e Liberazione. Lui scoppia a ridere, “ma
cosa vuoi che mi importi, io non so neanche se credo in Dio!”. Giussani era
davvero un uomo straordinario. Mi ritengo un cattolico. Ma non sono un uomo
baciato dalla vera fede».
Ersilio Tonini e l’esistenza di Dio. «Quando diventai
caporedattore di Avvenire fui convocato a Ravenna dall’allora presidente
del giornale, il Cardinale Ersilio Tonini. Di fronte a una minestrina – è
sempre stato secco, magrissimo – mi disse, “il suo è un compito difficile
perché dovrà mediare tra centinaia di Vescovi che la pensano diversamente su
tutto. Anche sull’esistenza di Dio”».
1987: gli anni con Indro Montanelli. «Il Giornale
non era un quotidiano, era un salotto. Assistere alle riunioni di redazione,
con Montanelli a fare da regista sornione, era come andare al cinema gratis.
Ricordo che un giorno il direttore, verso mezzanotte, passò da noi giovani, che
parlavamo di donne. Scoccò la battuta folgorante: “non è che a me non mi tira
più, è che non so più quando mi tira!”».
1994: il grande scoop. «Quando ero al Corriere
della Sera pubblicai la notizia del premier Berlusconi indagato. Era la
prima volta che veniva indagato un Presidente del Consiglio, giornalisticamente
era uno scoop. All’epoca il direttore era Paolo Mieli. Il giorno dopo successe
il finimondo, con perquisizioni della polizia e interrogatori. Nascosi le carte
e i nastri che denunciavano l’indagine nella borsa di mia moglie. Poco dopo si
aprì il caso di Primo Greganti, tesoriere della sinistra, e Mieli fu costretto
a scusarsi in diretta Rai. La differenza di trattamento tra il caso Berlusconi
e il caso Greganti mi fece capire che per me era ora di lasciare il Corriere:
non sopportavo più il clima opprimente, il fiancheggiamento delle procure.
Volevo la mia libertà».
“Libero” nasce davanti alla salamella. «Conobbi
Vittorio Feltri quando ero direttore de La Provincia. Dopo un incontro
pubblico, ci offrirono delle salamelle. Lì mi disse, su due piedi, “vieni con
me a fondare un giornale?”. Accettai. Cominciò allora una avventura editoriale
entusiasmante. Il concetto giornalistico di Feltri? Eccolo: quando scrivi di
una persona dì che è uno stronzo, quando parli di un Paese dì che è un Paese di
merda».
100mila copie per una Maserati. «All’inizio non
avevamo un soldo. Ci fu anche un imprenditore riminese, Stefano Patacconi, che
mise un po’ di soldi dentro Libero, ma poi si suicidò. Ci aiutarono gli
Angelucci, ma il giornale viaggiava intorno alle 20mila copie. Un giorno, un
po’ abbattuto, Feltri mi getta un depliant che presentava la nuova Maserati.
Nacque una sfida. Se fossimo arrivati a 100mila copie mi avrebbe regalato una
Maserati. Le superammo. Ma la Maserati durò poco: l’ho venduta perché consumava
troppo e perché era ridicolo girare in Maserati».
Berlusconi e Renzi: differenze al telefono. «Ho
girato per 12 giornali e svariati editori, beh, nessuno è più liberale di
Silvio Berlusconi e di suo fratello Paolo. Il difetto di Berlusconi è che è
troppo buono e rispettoso degli avversari, altrimenti sarebbe ancora Presidente
del Consiglio. Telefona quando hai un problema, è di una solidarietà infinita.
Al contrario, Matteo Renzi telefona quando è arrabbiato. Un giorno mi ha
telefonato incazzato nero, insultandomi. Diciamo che sono modi diversi di fare
politica».
1 dicembre 2012: l’arresto e la vergogna. «Una
vicenda pazzesca, che la dice lunga su questo Paese. La Digos fece irruzione
durante una riunione del Giornale, interrompendola, per procedere
all’arresto per diffamazione e omesso soccorso. In realtà, mi aspettavano
all’uscita del Giornale, perciò dormii tre giorni in redazione,
scoprendo, tra l’altro, il pied a terre di Montanelli… Così, furono
costretti a irrompere. Mi scortarono per portarmi a casa. Pretesi il carcere.
Uscii con i poliziotti, che mi portarono in Questura con l’accusa di evasione.
Intervenne perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per
commutare la pena da detentiva in pecuniaria. Mentre mi riportarono a casa mi
telefonò Berlusconi: “senti Alessandro, abbiamo capito la tua posizione, ma se
evadi ancora ti faccio fare il giro del quartiere a calci nel sedere”».
Juventino represso. «Sono della Juventus, lo ammetto.
Un giorno, un po’ per sfida, andai a San Siro con Berlusconi. Milan-Juventus.
Dopo cinque minuti segna il Milan. Tutti esultano, io mi esprimo con un tiepido
applauso. Le televisioni Sky mi riprendono. Poco dopo sono beccato da un sms di
mio figlio, “Infame”».
Amo Daniela (mica la Santanché). «Amo Daniela e stimo
la Santanché, che non amo. Stare con Daniela è semplice, stare con Santanché è
molto complicato».
Un po’ di cronaca: Grecia. «Sono tra quelli che hanno
sperato per il “No” al referendum. Giusto per vedere la Merkel in difficoltà.
Ma adesso mi pare che Tsipras abbia già calato le braghe».
Caso Berlusconi. «Berlusconi è un uomo di genio. Non
è mica caduto per le “Olgettine”, come vogliono farci credere, ma perché non
voleva allinearsi a Francia e Germania».
Isis. «A forza di non essere noi stessi, siamo noi
che abbiamo issato le bandiere dell’Isis. Sono per le radici cristiane nella
Costituzione europea e per i Crocefissi nelle scuole».
Gay. «Uno Stato non deve tutelare l’amore: altrimenti
perché non posso sposarmi con due donne o con il mio cane? Compito di uno Stato
è tutelare l’unione che produce nuovi cittadini, i figli. Per il resto, è
giusto che ogni persona si ami come desidera. Quando mia nipote mi confessò di
essere lesbica le risposi: “abbiamo qualcosa in comune, ci piace la stessa
cosa!”».
Fonte: da il
giornale.it del 3dicembre 2016
Link: da il http://ilgiornaleoff.ilgiornale.it/2016/12/03/sallusti-choc-renzi-mi-ha-telefonato-insultandomi/
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