lunedì 31 ottobre 2016

I DIPENDENTI PUBBLICI NON PAGANO LE TASSE, LO DICE ANCHE LA MATEMATICA





di GUGLIELMO PIOMBINI


Da dove viene, e dove va a finire il denaro pubblico? Poiché il “pubblico” è un’astrazione che non può pagare o ricevere nulla, questo denaro esce sempre dalle tasche private di qualche individuo in carne ed ossa e, gira e rigira, finisce sempre nelle tasche private di qualcun altro.
Osservando più da vicino il percorso che compie il denaro pubblico dal suo prelievo fino alla sua destinazione finale ci accorgiamo che il gettito dello stato proviene dai versamenti effettuati dai contribuenti privati (aziende, professionisti, individui), a proprio nome o come sostituti d’imposta; e termina la sua corsa nei conti correnti di due categorie di persone: una componente fissa di “consumatori di tasse” (il ceto politico-burocratico) e una componente variabile (tutti coloro che, pur non facendo parte dell’apparato statale, ricevono pensioni, sussidi o elargizioni dallo stato).

In concreto lo stato incassa l’intero gettito dal settore privato, e lo usa per pagare tutti gli stipendi della pubblica amministrazione. Anche la gente comune dimostra di essere consapevole di questa situazione quando rivolge al funzionario scortese o inadempiente la frase: “Guardi che sono io che la mantengo con le mie tasse!”.

I dipendenti dello stato, infatti, pagano le imposte solo in maniera figurativa, attraverso un artificio contabile, ma in realtà neanche un euro entra nelle casse dello stato. È ovvio infatti che se la busta paga di un funzionario statale riporta 40.000 euro di stipendio lordo e 10.000 euro di trattenute, ciò significa che egli riceve dallo stato 30.000 euro e paga zero di tasse. Lo stato usa la ridicola pantomima di indicare il lordo e il netto nella busta paga dei propri dipendenti per gettare fumo negli occhi della gente, allo scopo di far credere che i lavoratori pubblici e quelli privati siano trattati in maniera uguale, ma le cose non stanno così.

Lo stato, del resto, non potrebbe mai ottenere delle entrate tassando il settore pubblico, perché questo non produce utili ma solo perdite enormi, e quindi non c’è nulla da tassare. Se domani tutte le aziende italiane chiudessero o emigrassero all’estero, le entrate dello stato scenderebbero ben presto a zero, e non ci sarebbero più soldi per pagare gli stipendi degli statali. Se invece fosse vero quello che dicono i dirigenti sindacali – che gli statali e i pensionati pagano le imposte “fino all’ultimo centesimo” mentre i lavoratori autonomi sono quasi tutti evasori – allora il governo avrebbe a sua disposizione un metodo infallibile per debellare definitivamente l’evasione fiscale e risolvere ogni problema di bilancio: assumere tutte le partite iva come dipendenti pubblici! In verità se si comportasse in questo modo lo stato fallirebbe dopo pochissimo tempo, e questo dimostra che gli statali non pagano tasse ma le consumano.

A coloro che non fossero ancora convinti si può porre questa domanda: pagano più tasse i commessi e i barbieri di Montecitorio che guadagnano 150.000 euro lordi all’anno, o gli artigiani e i barbieri sotto casa che pagano il 70 per cento di tasse sui due-tremila euro che riescono a fatturare ogni mese? Se rispondono che pagano più tasse i commessi e i barbieri di Montecitorio, allora giungono alla conclusione assurda che lo stato potrebbe fare il boom di entrate fiscali assumendo tutti i barbieri e tutti gli artigiani d’Italia. Se invece rispondono che pagano più tasse i barbieri e gli artigiani privati, allora ammettono che gli statali pagano le tasse solo sulla carta, cioè per finta. 

Chi ci guadagnerebbe dall’abolizione delle imposte?

Poiché i dipendenti pubblici non pagano tasse, un paese dove tutti i cittadini lavorano per lo stato potrebbe tranquillamente abolirle senza nessuna conseguenza di rilievo sul bilancio statale.
Il precedente storico esiste, dato che nel 1974 il regime comunista della Corea del Nord ha abolito ufficialmente tutte le imposte. L’operazione aveva un fine propagandistico: annunciare al mondo che “in Corea del Nord il popolo è così fortunato da non dover pagare le tasse”. In questo modo, tuttavia, i dirigenti politici nord-coreani hanno involontariamente dimostrato che la partita di giro nella busta paga dei dipendenti pubblici è in verità una … presa in giro. La decisione infatti ebbe solo conseguenze formali, dato che le entrate statali rimasero più o meno invariate. (Qualcuno potrebbe chiedersi da dove provengono allora le entrate dello stato nordcoreano.  Innanzitutto l’intera produzione statale, per quanto scadente, è di sua proprietà e può venderla ai propri cittadini o all’estero; i razzi e gli armamenti di produzione nord-coreana hanno infatti un certo mercato. In secondo luogo esiste un settore privato illegale, ma tollerato dalle autorità, che in realtà paga tasse al governo. Il regime ha dovuto infatti accettare obtorto collo queste aperture al settore privato nel campo agricolo per rimediare alla terribile carestia alimentare degli anni Novanta, che aveva provocato tre milioni di morti).

Cosa succederebbe se un futuro governo italiano, magari guidato da Matteo Salvini, decidesse di prendere a modello la Corea del Nord, e azzerasse le aliquote di tutte le imposte? A causa della natura mista, pubblico-privata, della nostra economia le conseguenze sarebbero molto diverse rispetto alla Corea. Alcune categorie di persone ne riceverebbero un vantaggio palpabile. Tutti i lavoratori autonomi e dipendenti del settore privato infatti raddoppierebbero o triplicherebbero immediatamente i propri redditi. Ma che accadrebbe ai dipendenti statali? Anche i loro stipendi lieviterebbero verso l’alto? I primi a dubitarne, in realtà, sono gli stessi membri del ceto politico-burocratico, i quali sanno benissimo che una forte riduzione delle imposte metterebbe a rischio i loro stipendi, i loro vitalizi e le loro pensioni.

Infatti non occorrono sondaggi approfonditi per scoprire che gli uomini politici e i burocrati statali rappresentano le categorie più contrarie alla riduzione delle aliquote fiscali, mentre i lavoratori privati, soprattutto quelli autonomi, sono in larghissima misura favorevoli. Viene dunque da chiedersi: si può definire “contribuente” un soggetto che teme di subire una forte perdita economica da una riduzione delle tasse? Ovviamente no, e tutto questo rivela che il dibattito sul fisco è viziato da forti dosi di malafede: molte persone che dicono di “pagare le tasse fino all’ultimo euro” in cuor loro sanno benissimo che, nella realtà, neanche un centesimo passa dal loro portafoglio alle casse dello stato, mentre molte migliaia di euro prendono la strada opposta.

I veri evasori totali
In definitiva, la crescita del numero e dei redditi dei lavoratori privati fanno aumentare le entrate dello Stato; al contrario, la crescita del numero e degli stipendi dei lavoratori pubblici fanno aumentare le uscite dello Stato. L’aumento delle “imposte” a carico degli statali può al massimo determinare una riduzione della spesa pubblica, ma in nessun caso può accrescere il gettito dello stato. Si tratta di una pura questione matematica, sulla quale non c’è nulla da discutere.

Il fatto che i dipendenti pubblici non contribuiscono alle entrate del bilancio statale non significa necessariamente che svolgono attività inutili. Se escludiamo i casi più eclatanti di parassitismo (politicanti, commessi parlamentari, passacarte, forestali, ecc.) in molti casi i dipendenti pubblici svolgono delle attività in qualche modo utili: si pensi agli insegnanti, ai medici del servizio sanitario nazionale, ai vigili del fuoco, agli impiegati delle poste e così via. Il problema è che è impossibile quantificare la loro effettiva utilità, dato che le loro retribuzioni non provengono da uno scambio volontario con il cliente o con l’utente, ma da un’imposizione coattiva. È comunque innegabile che in molti casi le loro remunerazioni (senza considerare gli altri benefici, come la stabilità del posto di lavoro) siano completamente fuori dagli standard di mercato: nessuna impresa privata potrebbe riservare un trattamento così generoso ai propri dipendenti, senza chiedere in cambio un notevole aumento della produttività.

Non basta dunque avere un “posto di lavoro” per poter dire “io pago le tasse”; occorre svolgere un lavoro produttivo. Per questo è paradossale che i fanatici della lotta all’evasione, dell’obbligo di scontrino, della delazione fiscale e della criminalizzazione dei lavoratori autonomi siano in gran maggioranza persone che vivono di risorse pubbliche: uomini politici, dirigenti ministeriali, burocrati, magistrati, titolari di pensioni sganciate dai contributi versati e dipendenti statali in genere.

A costoro, ben più che alle partite iva, si addice la qualifica di “evasori totali”, dato che tutte le imposte a loro carico (dirette, indirette e contributi) in ultima analisi vengono pagate con i versamenti fatti dai lavoratori del settore privato. Anzi, sarebbe meglio parlare di evasori al quadrato, dato che non solo non pagano tasse, ma si mettono in tasca pure le tasse pagate da altri!


Fonte: da miglioverde del 2014

Link: http://www.miglioverde.eu/i-dipendenti-pubblici-non-pagano-tasse-dice-matematica/


domenica 30 ottobre 2016

GIANFRANCO MIGLIO: LE TASSE SULLA CASA SONO UN FURTO

Gianfranco Miglio


di CRISTIAN MERLO*

Forse non tutti sanno che il mai troppo compianto Prof. Miglio, ormai 20 anni fa, diede alla stampe uno straordinario pamphlet, dal titolo più che eloquente: “Disobbedienza Civile”.
In questo scritto, Miglio andò alla riscoperta di una figura tanto affascinante, quanto negletta, nell’ambito dell’asfittico contesto italiota: quell’Henry David Thoreau, che, in nome del diritto alla resistenza individuale e della disobbedienza civile, affermò, nei fatti peraltro, che è del tutto ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell’uomo. Thoreau è un classico del pensiero libertario, che influenzò, in seguito, anche personaggi del calibro di Gandhi e Martin L. King. Miglio se ne servì quale formidabile prisma, per formulare delle radicali e profondissime riflessioni sullo stato di prostrazione, morale prima ancora che economica, in cui versava questo simulacro di Paese all’indomani del ciclone di Tangentopoli. Quando, per dirla tutta, si stava ancora bene…

Ma quel che ancora, forse, in meno sanno è che qualche anno più tardi, nel 2001 per la precisione, venne edito un bellissimo e storico numero di una rivista, “Quaderni Padani” (num. 37 e 38), dedicato allo straordinario spessore intellettuale del Professore lariano, venuto a mancare qualche mese prima.
Il titolo era emblematico: “Gianfranco Miglio: un uomo libero”. Si trattava di una bellissima raccolta di saggi, di scritti, di punti di vista e suggestioni che onoravano e omaggiavano la statura, scientifica ma forse ancor più morale, di uno dei più grandi scienziati della politica, cui questo disgraziato Paese ha dato i natali. Un’antologia magistralmente curata, da cui traspariva passione, trasporto, condite da una competenza e da una professionalità fuori dal comune. Il curatore era un giovane brillante, acuto e di belle speranze. Al curatore toccò anche la stesura di un pezzo importante ed impegnativo, che rendesse giustizia alla figura dell’ultimo Miglio, quello, per così dire, libertario e secessionista. Ne uscì un affresco memorabile, bellissimo, che ancor oggi, a distanza di anni, mi tocca le corde del cuore e mi induce ad un continua elaborazione di pensieri e di riflessioni.
Il titolo non poteva essere più azzeccato: “Disobbedire ai tiranni è obbedienza a Dio. Il diritto di resistenza in Gianfranco Miglio”. Lo scritto è denso, articolato, argomenta e spiega con dovizia di particolari: si parla di diritto alla resistenza, si ricostruisce la coeva situazione italiana, si introducono i concetti di resistenza civile e di sciopero fiscale. Ma, per darvi un’idea del respiro dell’opera conviene forse citare qualche passo, preso qua e là, dall’ autore. Ma ciò non rende comunque ancora l’idea delle emozioni che il testo veicola.

Tutte le riflessioni finora svolte hanno un grande peso nella determinazione dei rapporti che devono intercorrere tra il cittadino e le istituzioni politiche. Affermare che quello ha dei diritti, significa anche riconoscere che queste hanno dei limiti.
D’altra parte, non ha alcun senso né pare ragionevole scagliarsi contro gli antichi sovrani “per diritto divino” e poi riconoscere ai moderni parlamenti poteri ancora superiori, solo perché legittimati dal voto. Tale convinzione, infatti, non intacca minimamente la legittimità delle prerogative della corona, ma si limita a mutarne la fonte: in passato Dio, oggi quel dio volubile e capriccioso che si chiama “maggioranza”.
Difendere il diritto del singolo a ribellarsi contro un governo tirannico, d’altra parte, conduce analogamente ad affermare il diritto delle comunità politiche a non essere oppresse da un lontano governo centrale. Nel momento in cui tale riflessione si innesta sul corpus delle teorie neofederali, si perviene a una nuova immagine del diritto di secessione: visto come estrema forma di resistenza da parte di una comunità locale contro l’invadenza dello Stato.( p. 104)

La forma migliore in cui la disobbedienza civile può manifestarsi ai giorni nostri, secondo Miglio, è quella dello “sciopero fiscale”: i cittadini si rifiutano di finanziare, attraverso le proprie tasse, uno Stato non avvertito più come legittimo, anche ammesso che tale condizione si sia mai verificata. Questa pratica gode infatti di tutti i requisiti sopra esposti (in particolare quello della non-violenza) e ha il pregio non solo di puntare l’indice contro un comportamento illecito del governo, ma anche di mettere in discussione i mezzi con cui quest’ultimo persegue i propri scopi. Infine, lo sciopero fiscale può essere uno strumento davvero efficace, in quanto – se riceve ampia adesione – può perfino privare lo Stato della forza economica necessaria a porre in atto qualche forma di repressione. (p. 102)

È del tutto evidente, insomma, che l’Italia presenta una situazione particolare. Da un lato, non vi è, perlomeno in un senso stretto, una dittatura – se non quella, dal sapore molto orwelliano, del sistema, della burocrazia, delle procedure. D’altra parte, è pur vero che i cittadini sono sottoposti a un regime politico e fiscale insostenibile, soprattutto in quelle regioni che sono “esportatrici nette” di tasse. Lo scontro in atto nel paese, insomma, è quello tra tax payers e tax consumers. Le due “fazioni”, però, sono piuttosto ben delineate anche da un punto di vista geografico, ed entrambe subiscono con insofferenza l’immane mole di leggi e regolamenti che quotidianamente il Parlamento e i ministeri (e tutti gli altri centri di potere) emanano. (p.99)

E poi, forse in uno dei passaggi più belli e suggestivi, il nostro autore, nonché curatore del volume, giunge ad affermare: In altre parole, ognuno dovrebbe essere vincolato a pagare unicamente in funzione di quanto effettivamente fruisce dei beni forniti dallo Stato; e non dovrebbe parimenti essere contemplata la possibilità di sottoporre a balzelli altro che questo.
Anzi, nel momento in cui il fisco mette gli occhi sul bene per eccellenza visibile e non occultabile, la voce di Miglio si alza forte e chiara: «affermo che su tali beni il fisco non deve pretendere nulla: perché essi costituiscono, per così dire, una estensione fisica e un complemento necessario della persona che li possiede e li usa. In caso contrario, tanto varrebbe sottoporre a imposta la salute o la bellezza di un cittadino»” . (p. 102)
E sapete di cosa stava parlando il Profesur? Della casa, non importa se prima, o seconda, di tutti quegli immobili abitati dai proprietari, che stavano per subire una prima forma di taglieggiamento con quella che, nel 1992, ad opera del giammai troppo venerato “statista” Giuliano Amato, si presentò come la progenitrice della futura ICI. Stiamo parlando della ISI, Imposta straordinaria sugli immobili (ISI).
Orbene, per Miglio, il problema non era quello di negare “a chi comanda il potere di tassare: ma di discutere la struttura e l’incidenza del sistema impositivo, e , soprattutto la legittimità di talune imposte. È il caso, che qui intendo sollevare, dell’Imposta Straordinaria sugli Immobili (ISI), e in generale, della tassazione sulle abitazioni”.

Se siete arrivati sin qui, e vi siete appassionati alla storia, vi sembrerà perlomeno strano una cosa: che non abbia ancora nominato il nome di “giovane brillante, acuto e di belle speranze”. Sì, chi sarà mai ad aver profuso sì belle ed accorate parole?
Forse è meglio troncare qui il discorso, perché, ancorché si dica che sono solo gli stupidi a non cambiar mai idea, il solo pensiero che chi ha scritto, affermato, argomentato tali cose possa essersi “venduto l’anima al diavolo” mi fa raggelare il sangue. È un autentico colpo da ko, una fucilata nelle spalle, una pugnalata al cuore. Soprattutto se chi, mentre oggi implora Letta di non toccare l’IMU, chiosava così la sua introduzione al volume.


Questo numero dei Quaderni Padani è stato realizzato da costoro per i loro simili; da uomini liberi per altri uomini liberi. Con la speranza che nessuno che non appartenga a tale categoria allunghi mai le mani sulla memoria del Vecchio Professore, che invece costituisce un’eredità irrinunciabile per tutti noi. Nemesi storica, verrebbe da dire. E nel giorno, peraltro, del 100º anniversario della nascita di Leoni, al quale fu intitolato un istituto che il nostro giovane ha contribuito a fondare. Oggi entrambi non troveranno pace, e non se ne capaciteranno. Riposino in pace.

*Vista la polemica innescata in questi giorni, in cui qualche ente locale ha deciso di far pagare l’IMU sugli immobili scolastici di proprietà della Chiesa (sulla base di una sentenza della magistratura), rilanciamo questo articolo puntuale, ed anticipatore del dibattito odierno, su come le tasse sulla casa siano a dir poco immorali, per insistere sulla nostra battaglia contro ogni forma di tassazione.


Fonte: da miglioverde del 2015


martedì 25 ottobre 2016

POIANO DI VERONA - CHIESA DELL'ALTAROL

Chiesa dell'Altarol


Di un edificio lungo gli argini del progno si trova segnalazione nella carta del 1440 detta dell’Almagià, conservata  in originale a Venezia e in copia alla Biblioteca Civica di Verona.
Alcuni autori parlano di un arco con edicola; la carta dell’Almagià ci restituisce invece la chiara immagine di un piccolo edificio.

Il toponimo  Altarol è attestato nel 1589. Di una immagine dipinta sul muro soprastante  un altare, parla il rapporto del Vescovo Pisani, che attesta la presenza di una cappella o oratorio. Accanto alla chiesa si trovava un cimitero recintato.


Madonna dell'Altarol,  o meglio del  Latarol


Nel 1700 il Vescovo Barbarigo ordina che vengano poste inferriate alle finestre. Il Parroco di Poiano Don Salvagno, provvede al restauro e all’ampliamento una decina d’anni dopo.
Presso l’oratorio, nella parte ampliata, troverà dimora anche un eremita, tal Scandolari.
Nel tempo l’edificio ebbe a subire danni e incurie, tanto da progettarne uno nuovo a fronte del vecchio, dall’altra parte della strada.


Altare 


Nel 1882 su disegno di Don Donato Gottardi, si posò la prima pietra del nuovo edificio. Come ultimo atto venne staccato l’intonaco con l’affresco della Madonna col Bambino, collocato poi nella nuova chiesa. Era il 16 luglio del 1883.


La chiesa dell'Altarol,  foto 1959.  (archivio Arturo Slemer e figli)


La devozione popolare fu  confortata nel tempo da continui miracoli; gli ex voto conservati in Sacrestia testimoniano l’affetto degli abitanti della Valpantena per la Madonna dell’Altarol. 
Anche Don Calabria ogni settimana si recava a pregare alla chiesetta, arrivando a Poiano a piedi, attraverso la Castellana, l’antica strada che sale a Castel S. Felice per scendere a Poiano.

La Madonna, proprio per la sua collocazione in un luogo di transito (il guado sul progno), divenne nel tempo la protettrice dei viandanti e oggi dei ciclisti e dei ciclo-escursionisti che qui si fermano per una sosta.




L’aspetto attuale della chiesetta dell’Altarol è dovuto agli ultimi interventi di restauro.
L’interno è stato affrescato nel 1942 dall’artista Giuseppe Resi  (1904-1974) allievo del Miolato. La Madonna all’esterno,  sopra la porta d’ingresso, (restaurata recentemente da Claudio Montoli) è opera del Miolato stesso.
Un restauro del 1883 ha messo in evidenza  la data 1465 sul dipinto della Madonna col Bambino venerata sopra l’altare


Ex voto per il rapimento e la liberazione di Angiolina


Uno degli ex voto conservato nella chiesa fu dedicato dalla famiglia Leonardi, a ricordo del rapimento della figlia  Angiolina.
II rapimento avvenuto il 23 luglio 1675 della bella Angiolina, figlia unica del ricco mercante Giangiacomo Leonardi ad opera  dei conti Provolo e Zenovello Giusti di Stelle, è entrato nella memoria storica della gente della Valpantena  grazie anche al romanzo storico del 1886 ad opera dell’abate di Poiano,  Pietro Caliari che dimorava nel Palazzetto Rimini.


La leggenda narra che il conte Provolo di Santa Maria in Stelle, con l’aiuto del brigante Falasco, volle organizzare il rapimento di Angiolina di Poiano, figlia di messer Lonardi, ragazza di cui si era invaghito senza essere corrisposto. Un bel giorno, quindi, il conte Provolo, entrato con i briganti in casa di messer Lonardi, rapì la figlia Angiolina fuggendo poi verso Ferrara, lontano dalla Serenissima.

L’intento del conte era di sposare la ragazza di nascosto e forzatamente. Si narra che Angiolina fosse già segretamente fidanzata con il marchese Sagramoso, il quale, venuto a conoscenza dell’accaduto, cominciò ad indagare seguendo le tracce lasciate dalla banda. Con l’aiuto del Cardinal Legato (che governava la città di Ferrara) scoprì dove si trovava Angiolina e la ragazza fu liberata. Il conte Provolo fu arrestato. La banda dei briganti fuggì, ma Falasco venne fermato ed impiccato sotto le mura di Verona mentre cercava di rientrare in città per compiere un’altra sua bravata.


Una recente riedizione a cura della Comunità Parrocchiale di Stelle ha recuperato per noi il ricordo della vicenda. Tanti ebbero modo di ascoltare la storia del rapimento dalla voce degli anziani, che se ne tramandavano il ricordo. 
La Madonna nella nicchia sopra l’ingresso è del Miolato mentre l’interno è stato decorato da Giuseppe Resi (1904-1974) allievo del Miolato.
M.V.




Nella piccola sacrestia sono conservati gli ex voto che raccontano con la pittura, fatti tragici accaduti sul nostro territorio, per i quali si chiedeva l'intercessione della Madonna. Tra le tante tavolette dipinte anche quella che Messer Leonardi dedicò per la liberazione della figlia Angiola, rapita dai Conti Giusti di Stelle.



Fonte: Blog della memoria del 20 marzo 2011