martedì 25 agosto 2015

STORIA VENETA – 70: 1432 - LA FINE DEL CARMAGNOLA. DOPO ESSERE STATO L'EROE DI MACLODIO



Dal testo di Francesco Zanotto


"Ma uno dei nobili, additandogli la via opposta a sinistra, in cui allora schieravansi le prigioni, gli disse: "Signor conte, venga da questa parte"; e rispondendo il Carmagnola: "Questa non è la strada";  gli fu soggiunto:  "Questa è pure la dritta via". Intanto un dei custodi aperse l'uscio immittente nell'andito della prigione appellata Orba; e dopo di aver Francesco esclamato: "sono perduto"; ivi entro fu chiuso ... "


ANNO 1432


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Entrato giovanissimo al servizio del duca milanese Filippo Maria Visconti del quale sposa anche una lontana parente, il Carmagnola cambia bandiera ed entra nelle fila veneziane. Ma un'accusa di tradimento e una serie di strane circostanze lo portano ben presto sul patibolo.


LA SCHEDA STORICA – 70


 La pace (una delle tante !) chiesta dal Visconti dopo la sconfitta di Maclodio, portò a Venezia anche Bergamo e parte del cremonese. Il duca milanese, tuttavia, non poteva certo accettare tranquillamente la cosa tant'è che nel 1430 era già sceso nuovamente in armi contro Venezia.
Dove proprio in quel medesimo anno il doge Francesco Foscari subiva un attentato restando sfregiato in volto. Le ragioni del gesto sono da ricercare probabilmente, nella stanchezza e nell'insofferenza da parte di una consistente fetta della nobiltà veneziana - nobile era pure l'attentatore Andrea Contarmi -, verso l'incessante stato d'allarme e di guerra che si protraeva ormai da diversi anni e le cui conseguenze iniziavano a farsi sentire anche sul piano economico finanziario.
Fino al 1430, infatti, il governo veneziano aveva già speso nella guerra contro il Visconti, la bellezza di due milioni di ducati, ovvero quasi 40 miliardi di lire attuali! Come se non bastasse, dell'impegno bellico di Venezia contro il Visconti sembravano approfittarne tanto i genovesi - sudditi praticamente dello stesso signore milanese - che saccheggiarono alcune isole dei veneziani nell'Egeo, tanto gli ungheresi dell'imperatore Sigismondo che invasero e devastarono il Friuli. E il Carmagnola cosa faceva nel frattempo?
Il  conte, nominato generalissimo della repubblica, si attardava sospettosamente a Brescia. Da quel momento ebbe inizio una triste parabola discendente che avrebbe condotto al patibolo infine, il conte piemontese.
Era nato infatti a Carmagnola in provincia di Torino nel 1380 Francesco Bussone, detto il Carmagnola. Di umilissime origini esordì quale condottiero al servizio di un altro famoso uomo d'armi, Facino Cane, colui che più di qualunque altro con le sue conquiste minacciò seriamente il ducato milanese. Alla morte di questi nel 1412, Carmagnola seguì la vedova Beatrice Tenda a Milano dove avrebbe sposato Filippo Maria Visconti. Entrato nelle grazie del duca a seguito dei suoi inarrestabili successi, il Carmagnola realizzò sul campo i desideri di potenza del suo signore del quale si dichiarava suo fedelissimo almeno fino al fatidico colloquio del 1424 e alla conseguente rottura fra i due.
Dopo breve vagabondare, il Carmagnola approdò infine a Venezia anche se la sua famiglia di fatto non lascerà mai il ducato milanese. La moglie del resto, Antonietta Visconti, proveniva dalla stessa famiglia del duca dando ulteriore credito ai sospetti che investiranno il conte dal 1430-31. Le accuse furono quelle di aver fatto in realtà il gioco del suo ex signore e il comportamento stesso del Carmagnola si prestava a simili interpretazioni.
Dopo la battaglia di Maclodio, infatti, il condottiero si era ingiustificatamente attardato a Brescia e nel bergamasco ma, cosa ancor più grave, si era fatto sfuggire inspiegabilmente la facile occasione di conquistare per la repubblica veneziana la città di Cremona. Non solo. Il Carmagnola infatti, rifiutò per ben due volte, o comunque schivò, l'offerta del governo ducale, di farlo duca di Milano se avesse portato a termine la conquista di quel ducato eliminando definitivamente lo stesso Visconti.
Era il 1431 e a quel punto il Consiglio dei Dieci decretò la più stretta sorveglianza del conte e il controllo di tutta la sua corrispondenza. Da questa, infine, pare siano venute le prove inconfutabili del suo tradimento. Avuta la conferma definitiva di un riavvicinamento del Carmagnola al Visconti, il senato veneziano doveva assolutamente, e nel modo meno sospetto possibile, ricondurre lo stesso a Venezia. Si doveva evitare a tutti i costi il diffondersi della notizia affinché il Carmagnola non fuggisse ed agire di conseguenza attraverso l'inganno.
Allo scopo venne inviato a Brescia, dove il conte piemontese si trovava, il segretario Giovanni de Imperiis con l'invito ufficiale per il Carmagnola di recarsi immediatamente a Venezia dove, alla presenza del marchese di Mantova, si sarebbero dovute definire le linee della nuova campagna contro Filippo Maria Visconti. Il Carmagnola seguì l'inviato del senato veneziano ed approdò in laguna il 7 aprile del 1432. Per il conte era l'inizio della fine.
Ad attenderlo c'erano otto nobili che lo condussero a Palazzo Ducale con il pretesto che il doge voleva incontrarlo subito. Ma al posto del doge c'erano soltanto i cippi e le catene delle prigioni ducali.
L'11 aprile il Carmagnola compariva così di fronte ad un collegio istituito per analizzare le prove a suo carico e che il prigioniero confutò disperatamente venendo per questo anche torturato. E sotto i tormenti della tortura, il conte alla fine cedette riconoscendo la fondatezza dell'accusa. Il processo che ne seguì fu a quel punto solamente, una semplice formalità che alla fine vide condannato a morte, quale traditore della repubblica, Francesco Bussone detto il Carmagnola. La condanna era stata approvata a stragrande maggioranza. Uno solo, invece, il voto contrario.
E così il 5 maggio del 1432 Carmagnola veniva tratto di prigione a mani legate e condotto in Piazza S. Marco. Qui, fra le due colonne dove normalmente avvenivano le esecuzioni, con una spranga in bocca veniva decapitato. Colpevole? Innocente? Purtroppo non è dato saperlo con certezza dato che gli incartamenti del processo andarono presto bruciati in uno dei tanti incendi che si scatenavano puntualmente a Palazzo Ducale. Certo, il voto pressoché unanime con il quale venne decisa la sentenza, lascerebbe pensare a delle prove veramente schiaccianti su un suo riavvicinamento al duca milanese anche se, d'altro canto, resta una confessione ed un'ammissione di colpevolezza estorte con la tortura.
Ma ancora: perchè mai il governo veneziano avrebbe imbastito una simile trappola ai danni del Carmagnola se veramente non avesse avuta la certezza del suo tradimento o cedimento?
Il  suo corpo, in fondo venne tradotto in una delle più importanti chiese cittadine, S. Maria Gloriosa dei Frari, segno di un certo rispetto nei confronti di un personaggio che purtuttavia aveva contribuito ad accrescere la stessa potenza veneziana.
Da quella chiesa venne trasportato a Milano solo a seguito della pietosa richiesta della moglie Antonietta che lo volle vicino in terra lombarda.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  3, SCRIPTA EDIZIONI



domenica 23 agosto 2015

STORIA VENETA – 69: 1427 - VENEZIA VINCE A MACLODIO. NELLO SCONTRO CON FILIPPO MARIA VISCONTI



Dal testo di Francesco Zanotto


"Camminava frattanto l'esercito de' Veneziani per una via praticata in mezzo ad un padule che nel verno veniva allagato, ed allora appariva sparso di virgulti e di piante palustri, a fronte del quale scoprivasi larga e  coltivata pianura dove potevasi giungere agiatamente in tempo di estate, ma per vie oblique, le quali furono dal Carmagnola, in certi punti, munite di armati. E poichè vide essere i nemici disposti a combattere, fece passare quetamente intorno al padule, Nicolò da Tolentino con 2000 cavalli, affine di assaltar l'oste alle spalle allorchè fosse impegnata la zuffa ... "


ANNO 1427


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Nella famosa battaglia si scontrano senza esclusione di colpi milanesi e veneziani, questi ultimi condotti alla clamorosa vittoria dal conte di Carmagnola, che ha la capacità tattica di muovere le truppe in un territorio difficile ma conosciuto ...


LA SCHEDA STORICA  -  69


Nel 1423, poco dopo aver pronunciato il suo discorso, moriva il doge Tommaso Mocenigo. Gli succedeva sul trono ducale proprio Francesco Foscari, colui che mai il defunto doge avrebbe voluto quale successore.
Del resto la situazione alle spalle di Venezia si evolveva con una tale rapidità - e non certo in termini tranquillizzanti per la Repubblica -, che si rendeva indispensabile un radicale mutamento della linea politica adottata fino ad allora dal prudente Mocenigo.
Questi, difronte all'inarrestabile dilagare della potenza viscontea - erano cadute nella sua rete anche le città di Reggio, Imola, Parma e Faenza, Brescia e Bergamo -, aveva opposto una politica di congeniale intesa con lo stesso Filippo Maria Visconti nonostante il parere già allora fortemente negativo del senatore Francesco Foscari.  Con lui, una volta diventato doge, l'atteggiamento di calcolata prudenza del Mocenigo, venne infatti progressivamente abbandonato.
Inizialmente anche il nuovo doge si attestò su di una posizione sostanzialmente neutrale nei confronti dello strapotere del Visconti, malgrado gli appelli di Bologna e di Firenze per costituire al più presto una lega contro il potente signore milanese. Appelli che si fecero particolarmente disperati da parte di Firenze dopo la sua sconfitta a Zagomera a seguito della quale si sentiva ormai direttamente minacciata. Anche allora il governo veneziano non si mosse, limitandosi a chiedere un chiarimento al Visconti circa le sue reali intenzioni nei confronti della repubblica fiorentina.
Solo nel 1426 Venezia si decise ad entrare a far parte di un vasto fronte anti-visconteo voluto anzi con tutte le forze dallo stesso doge. Da quel momento iniziò per Venezia un lungo, interminabile periodo di guerre, guerricciole e sporadici scontri con le truppe del Visconti. Una triste sequela destinata fra pause e fragili paci a durare per più di trent'anni.
Le parole del doge Mocenigo che con il Foscari quale nuovo doge Venezia si sarebbe ritrovata presto in guerra, dovettero sembrare allora una fatale profezia. Venezia, del resto, non aveva alcuna alternativa o comunque non venne presa in considerazione.
La prima fase del conflitto si concluse il 30 dicembre del 1426 con una pace che assegnava a Venezia la provincia e la città di Brescia. La Serenissima aveva valicato i confini veneti mettendo per la prima volta piede sul suolo lombardo. Era sicuramente un bel colpo per il governo del Foscari, ma l'incalzare della guerra voleva Venezia ancora in armi appena pochi mesi dopo con un'emorragia finanziaria che era appena ai suoi inizi.
Il denaro infatti, non sembrava mai sufficiente per pagare i veri protagonisti di questa guerra: i capitani di ventura. Mercenari al soldo del miglior offerente, veri e propri professionisti della guerra, sono loro con il loro cinismo e la loro insaziabile sete di denaro a definire e spesso determinare le sorti di una battaglia.
E proprio uno di questi capitani, forse il più famoso e conteso dell'epoca, aveva assoldato la Serenissima nel 1425. Il suo nome era Francesco Bussone, più comunemente noto ieri come oggi come conte di Carmagnola. Con il doge Foscari fu uno dei più accaniti sostenitori dell'ingresso di Venezia nella Lega anti-viscontea.
Eppure il Carmagnola aveva fatto la sua fortuna e costruito la sua fama proprio combattendo al servizio di Filippo Maria Visconti per il quale aveva conquistato fra il 1415 e il 1420 numerose città piemontesi e lombarde (Alessandria, Como, Cremona, Bergamo e Brescia ... ).
Nel 1421, poi, con l'altro grande condottiero visconteo, Guido Torelli, aveva realizzato l'antico sogno dei Visconti: la conquista di "Genova.  
E proprio a Genova il Carmagnola si vide praticamente relegato solo un anno dopo dal suo duca, seppur con l'alto incarico di governatore della città. Il motivo sembra da ricercarsi nelle feroci gelosie ed invidie che la totale fiducia del Visconti nel Carmagnola e i suoi straordinari successi militari avevano scatenato a corte e fra gli altri condottieri.
Alla fine del 1424, forse a causa di alcune voci relative ad una congiura anti-viscontea nella città di Genova che avrebbe visto partecipe lo stesso conte, il Carmagnola venne richiamato a Milano al cospetto del duca. Fra i due fu subito uno scontro verbale durissimo alla fine del quale il Carmagnola se ne andò sbattendo la porta. Da allora iniziò a tessere incessantemente le fila della sua vendetta contro il Visconti e che lo avrebbe portato ben presto proprio in braccia a Venezia.
Dal governo veneziano venne nominato niente meno che capitano generale delle milizie ducali che presto dovettero muoversi ancora una volta contro il signore di Milano che aveva già mobilitato, dal canto suo, 15.000 uomini al comando di Carlo Malatesta, signore di Rimini.
Gli uomini della Serenissima, nella loro avanzata, si erano intanto attestati nel cremonese, presso Maclodio oggi in provincia di Brescia. I veneziani procedevano attraverso una via aperta fra i canneti di una palude, attorno alla quale il Carmagnola aveva fatto distribuire 2.000 uomini a cavallo al comando di Nicolò Tolentino mentre i fanti erano dislocati nel canneto.  
L' 11  ottobre del 1427 il Carmagnola decise finalmente di muovere contro il nemico. L'esercito milanese pagò duramente in quell'occasione l'imperizia del suo comandante che spinse troppo avanti i suoi uomini verso la palude ritrovandosi praticamente accerchiato: di fronte la fanteria veneziana che sbucava dai canneti, alle spalle invece la cavalleria. In aiuto dei milanesi accorsero anche Torello e l'altro grande capitano di ventura destinato a diventare da lì a pochi anni il nuovo signore di Milano, Francesco Sforza, il cui fratello intanto venne fatto prigioniero dai veneziani. L'arrivo dei rinforzi arrivò comunque troppo tardi o giusto in tempo per vedere i veneziani trionfare. Era il 12 ottobre del 1427.
Il Carmagnola non solo aveva portato a termine la sua segreta, personale vendetta contro il suo ex signore, ma al tempo stesso aveva procurato a Venezia gloria e prestigio. Carmagnola era in quel momento l'eroe della repubblica veneziana.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  3, SCRIPTA EDIZIONI

venerdì 21 agosto 2015

STORIA VENETA - 68: 1418 - MUORE Il MOCENIGO. DOPO UN LUNGO E FRUTTUOSO DOGATO



Dal testo di Francesco Zanotto


"Bello è il conoscere, dal patetico discorso fatto allora dal doge moriente, lo stato accennato, dal quale si viene a sapere come Venezia spedisse allora ogni anno merci per lo mondo del valore di dieci milioni di ducati, da cui ne risultava un guadagno nella condotta di due milioni, e di quattro ne' negozii; esservi stato allora 3000 navigli, montati da 17.000 marinai, oltre 300 navi con 8.000 altri marinai e 45 galere con 11.000  altri marinai ... "


ANNO 1418



Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri. 


Prima di morire l'anziano doge chiede che non venga eletto quale suo successore Francesco Foscarini il quale avrebbe sicuramente trascinato Venezia in altre interminabili guerre terrestri mentre ora il pericolo principale veniva dal mare e si chiamava "avanzata turca".


LA SCHEDA STORICA - 68


Quando il doge Tommaso Mocenigo nei primi mesi del 1423 pronunciò il suo discorso sullo stato di salute della Repubblica e sulla eroicità dei marinai veneziani contro il nemico turco, aveva un obbiettivo ben preciso.
"Vui havè visto el modo che vive i nostri zentil homeni et cittadini", disse il vecchio doge ai membri del Consiglio e, date queste straordinarie premesse, i veneziani sarebbero presto diventati " ... signori de l'oro de christiani".
La situazione per la Serenissima, effettivamente, si dimostrava allora estremamente positiva anche all'estero. Verona, Padova, Vicenza e Belluno, con il feltrino, andavano a costituire ormai il primo consistente nucleo dei futuri domini veneziani sulla terraferma, mentre nel 1409 il re Ladislao d'Ungheria aveva venduto al governo veneziano la città di Zara per ben 100.000 fiorini d'oro (circa un miliardo e mezzo di lire).  Nel 1419, poi, anche Udine e Cividale del Friuli avevano firmato la loro dedizione a Venezia conferendo una eccezionale continuità ai suoi domini verso est che raggiungevano ormai l'Albania.
La ricchezza e la potenza di Venezia, per Mocenigo, avevano un'unica, antica radice: il suo tradizionale rapporto con il mare.
Venezia era per il vecchio doge prima di tutto ed esclusivamente una potenza basata sui commerci marittimi e sul progressivo potenziamento della sua flotta anche militare. In ogni caso il mare era da sempre la vera risorsa, l'unica fonte di ricchezza della città!
Ma dove voleva arrivare "Tommasone" - così lo chiamavano affettuosamente gli amici - con questo suo discorso? "A caxon che (affinchè) possa saver da vui chi vui ellezereti doxe, secretamente me lo dite in rechia per poter confortarve qual è quello che merita ... "
Ecco dunque svelato per sua stessa ammissione, il vero, unico e reale scopo del Mocenigo: condizionare in qualche modo - assai pesantemente in realtà - l'elezione del suo successore facendo, infatti, il nome, dopo queste sue parole, di valorosi e degni senatori che secondo lui avevano tutte le carte in regola per assurgere alla suprema carica dello Stato veneziano. E qui si arriva al nocciolo della questione.
Fra tutti i "savi homeni sufficienti" nominati dall'anziano doge e abili alla ducea, viene escluso quello del senatore Francesco Foscari, anzi, costui nel modo più assoluto non doveva essere il nuovo doge.
L'attacco contro il Foscari da velato e sottointeso si era fatto via via sempre più scoperto e diretto: " ... Foscari, (ed è sempre Mocenigo a parlare), dise busìe et anche molte cose senza alcun fondamento ... et vola più che non fa li falchoni ... ".
Eppure l'aspra requisitoria contro il giovane senatore, non sembra si possa ridurre ad una semplice antipatia o disistima personali. Sotto alla pesante denuncia del Mocenigo, si celava un autentico e trasparente interesse per le sorti della stessa Repubblica.
Se il Foscari venisse infatti eletto quale nuovo doge, per il Mocenigo, " ... de brevi sareti in guerra" e "chi haverà dieci milla ducati, non se ne troverà se non mille, chi haverà dieci caxe non ne troverà se non una ... ".
Dunque se il Foscari fosse diventato il nuovo doge, Venezia ben presto si sarebbe ritrovata nuovamente in guerra e nel baratro di una crisi finanziaria.
''Et dove vui siete, signori, vui sarete vassalli de huomini d'arme ... " .
Il discorso si chiude con un caloroso consiglio che suona quasi più da monito: "Seguite secondo che ve a trovati (come vi trovate) che beati (sarete) vui e vostri fioli".


Un gruppo di potere


Ma chi era questo Francesco Foscari ? Entrato sulla scena  politica in giovanissima età, Foscari faceva  parte di quel nutrito gruppo di importanti uomini politici - primo fra tutti il precedente doge Michele Steno - che volevano portare Venezia ad un sempre maggior impegno nelle vicende delle altre potenti signorie italiane allo scopo di assicurarsi con le eventuali conquiste sulla terraferma, la stessa sopravvivenza. E dai primi anni del secolo XIV, effettivamente, questa era stata la linea politica dei dogi veneziani con la progressiva conquista dei principali comuni veneti che portarono Venezia alla ribalta della storia regionale e dell'intera penisola quale nuova potenza terrestre. Di fronte alla forza espansiva dei Visconti, il governo veneziano aveva quindi risposto con un altrettanto determinato moto espansivo che assicurava in modo particolare la tranquillità della Venezia lagunare.
Appare chiaro come lo scontro fra il Mocenigo e il Foscari, fosse in realtà uno scontro politico fra due diverse scelte di governo. Ricordando ed appellandosi alle glorie militari dei marinai veneziani, alla ricchezza della città dovuta ai suoi traffici marittimi, Mocenigo voleva ricordare che sì dal mare erano venute a Venezia gloria e ricchezza, ma anche mortali pericoli e allora il pericolo più immediato si chiamava espansione turca. Il suo stesso dogato si caratterizzò per un costante impegno veneziano proprio contro le flotte turche nel Mediterraneo Orientale (battaglia di Gallipoli), contro una politica "terrestre" giocata all'insegna della moderazione e della mediazione. D'altro canto, invece, crescevano in città e nel Senato l'esigenza e la necessità di una Venezia forte anche sulla terraferma.
Era in fondo un antico dilemma quello che vedeva contrapposti simbolicamente i due uomini veneziani, dilemma risalente ancora al tempo della discesa in Italia dei Longobardi quando l'allora giovane comunità lagunare avvertì per la prima volta il pericolo reale di avere alle spalle una forte potenza terrestre. Allora Venezia scelse la via del mare, ora, a distanza di sette secoli e per le mutate circostanze storiche, Venezia era pronta a misurarsi, per desiderio ma più per necessità, con le altre signorie italiane.
L'elezione di Francesco Foscari quale nuovo doge è di per sè indicativa di questa tendenza. A nulla erano valse le parole accorate del vecchio doge moribondo.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  3, SCRIPTA EDIZIONI





mercoledì 19 agosto 2015

STORIA VENETA - 67: 1418 - MUORE CARLO ZENO IL SALVATORE DI CHIOGGIA. UNA CITTA' IN LUTTO ONORA IL SUO EROE



Dal testo di Francesco Zanotto


"Il Senato ne comandò solennissime esequie, e con pompa pari a quella con che si onoravano i funerali del doge. Fu tolta quindi la salma dal suo palagio, intervenendovi il principe Tommaso Mocenigo, la Signoria, il vescovo castellano Marco Lando, ed i principali magistrati e cittadini; e recatala nella chiesa della Celestia, da Leonardo Giustiniano, celebratissimo oratore di quei tempi, gli fu recitata orazione di lode ... "


ANNO 1418


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Dopo essere stato osannato quale salvatore della patria in occasione della "guerra di Chioggia" contro Genova, il comandante Zeno subisce anche un processo per alto tradimento prima di ritirarsi a vita privata e morire quasi novantenne e pressoché dimenticato dai più.


LA SCHEDA STORICA - 67


Il 16 maggio del 1418 durante il dogato di Tommaso Mocenigo, moriva a Venezia il comandante Carlo Zeno. Era la morte di un mito.
Eppure l'eroe della guerra di Chioggia, colui che più di qualunque altro aveva speso la sua vita al servizio della Repubblica, moriva solo, quasi novantenne e pressoché dimenticato dalla stessa sua città. Eppure lo Zeno aveva più di un motivo per essere invece degnamente ricordato.
Nato a Venezia nel 1334, durante la sua lunga permanenza in Oriente era riuscito ad assicurare a Venezia la preziosa isola di Tenedo contro le pretese  genovesi; dopo il tentativo di liberare l'anziano imperatore bizantino Giovanni Paleologo, filo-veneziano ma tenuto prigioniero dal figlio usurpatore e filo-genovese, lo Zeno aveva tenacemente ed ossessivamente dato la caccia alle stesse navi genovesi in Levante inseguendole se necessario fino alle porte di casa, nel golfo di Genova; il suo intervento si rivelò miracolosamente determinante, poi, nella guerra di Chioggia dove i veneziani mai videro così prossima la fine e proprio per mano dell'odiatissima repubblica rivale, Genova. Era il 1380, l'apice del successo e della notorietà per lo Zeno, acclamato quale salvatore della patria accanto al suo doge.
 Alla morte, poi, dell'altro grande ammiraglio veneziano, Vittor Pisani, il 15 agosto di quel medesimo anno, lo Zeno venne nominato Grande Ammiraglio della marina veneziana, nomina che venne prontamente onorata con la ripresa della lotta contro Genova.
Alle continue vittorie - celebre quella di Modone nelle acque di Creta contro una flotta franco-genovese nel 1403 -, seguivano puntuali nuovi titoli, nuovi riconoscimenti: ammiraglio, "advocator de comun", Procuratore di S.Marco e ambasciatore.
Già, perchè accanto alle doti militari non mancavano allo Zeno anche le qualità diplomatiche. In questa vesta trattò per conto del senato veneziano con il signore padovano Novello da Carrara, la sua resa e quella della sua città successivamente conquistata dai veneziani nel 1405.
Eppure, la caduta del carrarese, si rivelò fatale anche per lo stesso Zeno, per la sua persona innanzitutto e per la sua memoria che conobbero l'onta del sospetto di tradimento.
Queste le circostanze. Catturati Novello e il di lui figlio Francesco, i due vennero tradotti quali prigionieri nelle prigioni veneziane dove dopo lunghissime discussioni in Senato sul da farsi, vennero frettolosamente strangolati nelle loro celle.
Si iniziò così a setacciare l'archivio, i documenti e le carte del signore padovano dove vennero scoperte alcune annotazioni compromettenti due nobili veneziani e lo stesso Carlo Zeno. Si trattava di una ricevuta testante un versamento di 400 ducati d'oro da parte del da Carrara al comandante veneziano. Si può ben immaginare la sorpresa, lo sconcerto e l'incredulità che dovette suscitare la scoperta quando ben presto divenne di pubblico dominio.
Carlo Zeno, l'infaticabile comandante che da sempre aveva dimostrato la sua più totale ed incondizionata devozione alla sua Repubblica, era dunque caduto nella trappola della corruzione nemica e per soli 400 ducati? Non era possibile e molto probabilmente, infatti, non si trattò affatto di tradimento dietro compenso.
Data comunque la gravità della faccenda, la questione finì davanti ai membri del Consiglio dei Dieci, dove lo Zeno venne chiamato a rispondere. Il comandante venne trattato come un qualunque malfattore ed iscritto agli atti del Consiglio che alla fine decise di condannarlo a un anno di carcere oltre che all'interdizione dai pubblici uffici.
La sentenza tuttavia, pur nella sua esemplarità non sembra corrispondere affatto al sospetto di un possibile tradimento da parte dello Zeno che sicuramente non venne condannato con questa motivazione. Molto probabilmente quel denaro era una semplice restituzione di un prestito fra due private persone che lo Zeno aveva fatto in precedenza al da Carrara. I soldi, infatti, non vi è alcun dubbio che lo Zeno li abbia veramente incassati. Anche coloro che nel Consiglio infatti votarono per la sua assoluzione, lo obbligarono comunque a restituire i 400 ducati all'Erario della repubblica dato che a suo tempo non erano stati denunciati.
Restava tuttavia, la leggerezza con la quale lo Zeno aveva intrattenuto con il da Carrara rapporti finanziari, una leggerezza che andava comunque punita a prescindere dalla eccezionalità del personaggio, anzi! La ferrea macchina giudiziaria della repubblica non ammetteva eccezioni di alcuna sorta! Poco contavano i meriti, i servigi resi nell'arco di un'intera vita al governo veneziano. Lo Zeno aveva peccato d'imprudenza (e di evasione fiscale!), doveva necessariamente pagare. La sua condanna, tanto più esemplare dato il calibro del personaggio, doveva essere la prova della solidità e dell'imparzialità del sistema su cui reggeva la stessa repubblica e dalla cui solidità ed efficienza dipendeva la sua stessa sopravvivenza.
Riacquistata finalmente la libertà dopo un anno di prigione, lo Zeno salpò immediatamente alla volta della Terrasanta, ma questa volta non in veste di soldato, ma di semplice pellegrino.
Ancora una sola volta doveva scendere in mare con le sue navi contro i genovesi, ma non certo per ordine del governo veneziano. Era il 1410 quando lo Zeno infatti, sconfisse le navi nemiche su committenza del re di Cipro. Per Venezia Carlo Zeno non impugnerà mai più le armi. In città vi ritornò solo per ritirarsi finalmente nella pace della propria casa e della propria famiglia (lo Zeno era al suo terzo matrimonio).
Alla foga della armi da allora lo Zeno si dedicò ai più concilianti studi letterari - da sempre, pare, una sua segreta passione - frequentando i circoli più dotti di Venezia fino al giorno della sua morte.
Solo allora Venezia sembrò ricordarsi del suo audace e valoroso comandante al quale vennero riservati solenni funerali di Stato alla presenza del doge. Il nipote, autore di una sua biografia, narra che "sul suo corpo veduto ignudo si scoprì rivestendolo una quantità di cicatrici per le quali si era fattamente deformato che appena una parte si poteva dire libera dalle ferite e ne furono numerate 35 delle quali molte apparivano essere state grandi e mortali".


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  3, SCRIPTA EDIZIONI





sabato 8 agosto 2015

STORIA VENETA - 66: 1406 - LA VITTORIA DI GALLIPOLI. LE NAVI DEL LOREDAN SI SCONTRANO COI TURCHI



Dal testo di Francesco Zanotto


"Ma non fu tardo il Loredano a porsi sulla difesa; imperocchè ritratte alquanto le sue galee, e rinforzatele colle genti tolte dai legni minori, le girò in guisa di volger le spalle al sole, costringendo così i nemici ad avere in faccia l'infocato raggio e la luce smagliante del grande astro. Quindi investilli con sì alto valore, che quantunque rimanesse ferito nella mascella sinistra e nel naso da una freccia, n'ebbe vittoria pienissima e luminosa ... "


ANNO 1406


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Diretti in Turchia per trattare con gli "infedeli" la possibilità di continuare a commerciare nel Mediterraneo Orientale, i Veneziani vengono invece improvvisamente attaccati dalla flotta del Sultano, ma l'abilità dei marinai e dei comandanti costringe infine alla pace i musulmani ...


LA SCHEDA STORICA – 66  


Nel 1414 moriva il doge Michele Steno sotto il cui dogato si era compiuta da parte di Venezia la conquista dei principali comuni dell'entroterra veneto. Infatti alla fine del 1405 anche Padova, dopo Verona e Vicenza, aveva capitolato.
Allo Steno era prontamente succeduto sul trono ducale Tommaso Mocenigo, destinato a mantenere l'alta carica per circa dieci anni. Proprio alla fine del suo dogato, il doge, pare abbia pronunciato un accorato discorso davanti ai membri del Consiglio affinché non eleggessero dopo la sua morte, che evidentemente sentiva ormai prossima, Francesco Foscari.  
Il suo intervento può essere letto come uno dei più interessanti spaccati della situazione economica veneziana agli inizi del Quattrocento. Un ritratto a dir poco esaltante che testimonia la ricchezza e lo splendore di una città in costante, straordinaria, espansione.
Solo il valore complessivo degli immobili ammontava a 7.050.000 ducati, mentre le esportazioni annue raggiungevano i  10.000.000 di ducati, all'incirca 150 miliardi di lire al valore attuale dell'oro! E una cifra simile toccavano le importazioni. Il  reddito medio annuo si aggirava all'incirca su 1.614.000 ducati, mentre la Zecca ogni anno sfornava ben 1.200.000 ducati d'oro, ovvero quasi 19 miliardi di lire!
A tutta questa ricchezza corrispondeva una delle più potenti e numerose flotte dell'Occidente con 300 grandi navi e altre 3.000 di portata minore, affiancata da 45 galee in servizio permanente e pronte ad intervenire nelle situazioni di emergenza. In tutto, nel solo settore navale, erano impegnati ben 36.000 marinai.
Accanto all'orgogliosa conclamazione delle ricchezze e della prosperità di Venezia, Tommaso Mocenigo andò anche a toccare uno dei punti più dolenti non solo per Venezia, ma per l'intera Europa cristiana: l'avanzata turca verso Occidente.
" ... la guerra de Turchi cun vui ha fatto de valorosi homeni nel mar periti, ad ogni intromission provati, sì nel governo come nella virilitade ... per modo che il mondo dixe: li venetiani sono signori di capitanij, deli compagni et zurme (ciurme) de galie (galee)".
E che i marinai e la flotta veneziana fossero a dir poco indispensabili per tentare di arginare l'espansione e l'avanzata turca nel Mediterraneo, era fuori da ogni dubbio.
E i Turchi, Tommaso Mocenigo li aveva ben conosciuti prima di questo suo estremo discorso. Aveva iniziato infatti la sua carriera politico-militare nel 1381, proprio come Provveditore all'Armata e Capitano generale della flotta durante lo scontro con Bayazid I o quando riuscì a salvare all'ultimo momento l'imperatore Sigismondo con l'intervento della sua squadra navale.
Del resto da quasi un secolo - era il 1423 quando il doge parlava -, le navi veneziane si scontravano con i turchi, da quando venne creata la prima grande coalizione cristiana all'inizio del dogato di Andrea Dandolo (1342).
Ancor prima, nel 1334 un altro tra i più valenti comandanti veneziani, Pietro Zeno, aveva guidato le sue navi verso la conquista di numerosi centri della costa anatolica dove poi i cristiani avrebbero fissato il loro quartier generale nella città di Smirne.


Marinai? Soprattutto guerrieri


Aveva ragione il vecchio doge a decantare le virtù guerresche dei marinai veneziani che appunto da quasi un secolo si scontravano coraggiosamente col turco nel Mediterraneo Orientale. Il saggio Mocenigo aveva anche intuito che lo scontro con gli "infedeli" era tuttavia solo agli inizi e che dal suo esito finale dipendeva per Venezia la possibilità o meno di poter continuare i suoi vitali traffici con il Levante.
Spinto da questa consapevolezza, il doge aveva fatto spedire già nel 1416, ben 15 galee in Oriente al comando di Piero Loredan. L'ammiraglio era accompagnato da due Provveditori, Andrea Foscari e Delfino Venier, quest' ultimo con il compito specifico di recarsi dal sultano turco per cercare di arrivare ad un accordo il più possibile vantaggioso per Venezia, naturalmente:  L'incontro doveva avvenire a Gallipoli, in Turchia, e proprio lì la flotta del Loredan puntava sicura nel maggio del 1416.
Arrivati però in prossimità dello stretto, improvvisamente i turchi presero di mira le navi veneziane con frecce avvelenate. La reazione immediata di questi ultimi mise in serie difficoltà il nemico che convinto di riuscire a prendere le navi veneziane con l'inganno, chiese ad un certo punto una tregua al comandante Loredan. Accordata la pausa per incontrarsi e trattare, i turchi, non appena furono abbastanza vicini alle galee ducali, si lanciarono in un furioso e violento attacco. L'ammiraglio veneziano, giocando d'astuzia e con una straordinaria prontezza di spirito, ritirò al più presto le sue navi ponendole in modo tale d'avere il sole alle spalle. Così facendo i soldati turchi, al contrario, si ritrovarono improvvisamente con il sole infuocato negli occhi.
A quel punto lo scontro, per i veneziani, poteva anche iniziare. Lo stratagemma del Loredan facilitò non poco le cose ai suoi uomini che pur combatterono senza risparmiarsi e con il consueto coraggio. Lo stesso comandante, malgrado le innumerevoli ferite, una al naso e alla mascella, un'altra alla mano, continuò imperterrito a guerreggiare. Dopo alcune ore, l'esito dello scontro apparve in tutta la sua portata: ben 3.000 turchi erano caduti mentre 15 delle loro navi venivano vittoriosamente conquistate dai veneziani.
La notizia della straordinaria vittoria di Gallipoli giunse in Senato con una lettera datata 2 giugno 1416, scritta dal comandante Loredan dall'isola di Tenedo dove si era successivamente riparato con la flotta e i prigionieri nemici. L'ultimo giorno di luglio il Sultano turco siglava la pace con la Serenissima.
Malgrado il trattato e la clamorosa vittoria, tuttavia, lo scontro con i turchi per Venezia e per l'intera Europa doveva rivelarsi ancora molto lungo.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  3, SCRIPTA EDIZIONI