giovedì 30 aprile 2015

STORIA VENETA - 6: 697 - SI ELEGGE IL PRIMO DOGE. A LENTI PASSI VERSO UNA FORMA DI STATO


Dal testo di Francesco Zanotto


" ... Eletto che fu, afferma Andrea Dandolo, essere stato egli posto in trono vestito delle insegne ducali; ma sembra doversi prestare fede a coloro che dicono, che come era il costume antico, e come fu sempre, di poi osservato con qualche variazione però, venisse il nuovo doge recato sugli omeri da alcuni, affinché fosse da tutti veduto, e quindi portato in giro fino alla chiesa, ove orato a Dio, e giurato il bene della sua nazione, passò al suo palazzo, spargendo larghi doni alla moltitudine circostante ... "


ANNO  697



 Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri


I Veneti delle isole accettano il principio dell'autorità, di un solo uomo che, pur se coadiuvato dai maggiorenti, diventa gradualmente una guida militare e poi anche politica. Così la parola duce, o dux, si trasforma nella lingua parlata in doxe, per arrivare al famoso "doge" ...


6 - LA SCHEDA STORICA


Con l'assestarsi nella penisola dell'equilibrio tra Longobardi e Bizantini, anche l'area lagunare, ormai ampiamente popolata, era alla ricerca di una sua organizzazione politica e sociale. Alla  fine del VII secolo la provincia risultava ancora retta da un duca e da un "magister militum" rispettivamente quale autorità civile e militare dipendenti dall'esarca bizantino di Ravenna.

Tuttavia la popolazione andava riconoscendo sempre più nel clero e nel ceto tribunizio locali i nuovi punti di riferimento all'interno di un processo di ristrutturazione che assumeva sempre più nel tempo i caratteri di una vera e propria volontà autonomista.

E all'insegna di questa volontà la cronicistica veneziana individua in Paoluccio o Paoulicio Anafesta, cittadino di Eraclea, il primo duca, poi dòxe (doge),  eletto autonomamente dai veneziani nel 697.  Pur ritenendo molto più probabile che per quella data l'area fosse ancora invece politicamente "devota" a Bisanzio e al suo esarca, resta tutto il fascino di una circostanza e di una figura sospese tra storia e leggenda.
Si narra così che Paoluccio venne eletto quale primo doge dopo che il Patriarca di Grado Cristoforo riuscì a stento a sedare gli animi infuocati dei lagunari riuniti nella cattedrale di Eraclea per tentare di trovare una soluzione pacifica alle feroci discordie che da tempo serpeggiavano fra i tribuni delle diverse isole. Questa debolezza interna doveva fare poi i conti anche con le continue incursioni corsare che venivano dal mare e con le scorrerie dei Longobardi alle foci dei fiumi. Evidentemente la neo-comunità lagunare stentava in quei primi decenni di vita a trovare un suo stabile equilibrio politico e sociale.


Il duca unico: garante del bene comune


L'esigenza di arrivare così ad una pace tra le diverse realtà isolane, avrebbe portato alla fine tutti i rispettivi rappresentanti e parte degli abitanti a radunarsi nella chiesa di Eraclea. Qui, una volta sedati gli animi, si sarebbe finalmente eletto un duca quale unico e legittimo rappresentante dell'intera comunità lagunare.
Il "doge" infatti, pur conservando i poteri che erano già stati dell'antico funzionario bizantino, sarebbe stato sentito innanzitutto, infatti, come il garante del comune interesse, il difensore del "bene comune". Una realtà che al di là della leggendaria circostanza, è certamente innegabile.
Il popolo, e lo vedremo presto, non esiterà infatti a cacciare, accecare o uccidere i dogi che governeranno male o dispoticamente, opponendosi ancora per molti secoli a chiunque tentasse di trasformare la ducea in un potere dinastico e famigliare. A questo spirito s'informavano anche i provvedimenti presi per fissare i poteri e le competenze del doge stesso.

Questi poteva convocare l'assemblea generale dei rappresentanti delle isole ma allo stesso organo doveva rispondere e render conto del suo operato. Poteva altresì eleggere i tribuni e i giudici; poteva convocare i concili del clero e conferire allo stesso benefici e poteri temporali; poteva infine decretare lo stato di guerra previo parere concorde o meno dell'assemblea.
Malgrado l'istituzione del primo doge, perdurarono ancora per molto tempo le figure dei tribuni, i veri gestori e rappresentanti della politica nelle singole isole. Non più indipendenti, questi erano molto più che dei semplici esecutori di leggi, in virtù di una certa autonomia di cui godevano ancora le singole isole che infatti non obbedivano direttamente al doge ma ai suoi rappresentanti, i gastaldi. Prevaleva ancora il carattere locale e famigliare del governo nelle varie realtà isolane. Questo aspetto politico sarebbe durato per molti secoli.

Ma torniamo a Paoluccio e alla sua presunta elezione. Prestato giuramento venne poi fatto sedere su di un trono ed insignito delle insegne ducali del potere o, secondo altri, portato in trionfo sino alla chiesa e successivamente al suo palazzo.

Sotto il suo dogato che sarebbe durato fino al 727, la comunità lagunare avrebbe raggiunto finalmente pace e prosperità grazie anche ad un'alleanza con il re longobardo Liutprando che procurò ai veneziani una serie di benefici commerciali. Non è dato sapere, in realtà, come e se effettivamente la vicenda sull'elezione del primo doge si sia svolta proprio come le alquanto tarde fonti veneziane ci tramandano.

La realtà storica sembra infatti smentire in pieno l'asserita autonomia dei veneti delle isole con l'elezione del loro primo doge Paoluccio. Le alte cariche amministrative infatti, durante il supposto periodo pauliciano (697-727), furono sempre ricoperte da funzionari bizantini che rispondevano ancora in toto all'esarca di Ravenna e quindi all'imperatore di Bisanzio.
Nessuna radicale modifica, poi, nell'organizzazione politica delle isole per quegli anni sembra essersi realmente verificata. Il referente politico, militare ed amministrativo per tutta l'area lagunare, continuava infatti ad essere l'esarca e Venezia, o meglio la futura Venezia, non doveva ancora costituire un'eccezione.
Di vera e propria autonomia del ducato veneziano, si potrà infatti parlare solo dopo il 726, quando il destino delle isole realtine inizierà a seguire una diversa strada rispetto a quella dell'Esarcato ravennate.
Un fatto resta tuttavia certo. Dal secolo successivo la presunta elezione di Paoluccio, il dogato veneziano si andrà sempre più affermando come una realtà autonoma rispetto all'esarca di Bisanzio, per il quale le cose non volgevano certo al meglio, anche a causa degli stessi isolani.




Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  1, SCRIPTA EDIZIONI



mercoledì 29 aprile 2015

STORIA VENETA - 5: 640 - SI LASCIA AQUILEIA. IL VESCOVO PAOLO FUGGE CON CLERO E POPOLO



Dal testo di Francesco Zanotto


"Adunque tolsero le sacre salme loro, come la cosa più preziosa che possedevano, se le fecero compagne del loro infortunio, e nel loro infortunio le guardarono come salvezza, e lenimento de' loro dolori.  Sur una barca, pensiamo, che le abbiano accomodate in guisa che spiccassero fra le sacre cose che sottraevano dalla mano rapace dei barbari: laonde da un lato la cattedra episcopale, dall'altro i vessilli, e sopra le casse custodi delle sante ossa i tappeti preziosi avranno disposto, e accompagnata fra le salmodie e le preci quella fuga"



ANNO 640


 Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri


Dopo gli Altinati è la volta degli abitanti di Aquileia a dover scappare davanti all'avanzata dell'esercito longobardo. Il vescovo Paolo guida il suo popolo verso una nuova patria, nella laguna amica, unico rifugio sicuro al riparo dalle incursioni di nemici sanguinari e barbari


5 - LA SCHEDA STORICA


L'arrivo dei Longobardi (568), costrinse dunque ad una nuova fuga le popolazioni indifese della Venezia-Giulia dove quello che restava dell'esercito bizantino si scontrava, con scarso successo, con  i nuovi invasori. E così, come Altino, anche Aquileia occupata e saccheggiata dai Longobardi, si preparava ad essere progressivamente abbandonata dai suoi abitanti.
L'importante centro commerciale romano, già al tempo dell'invasione degli Unni di Attila (452) aveva subìto un orribile saccheggio dopo un lunghissimo assedio. Attila, accampato da giorni ai piedi della cittadina, stava ormai abbandonando l'impresa che si stava dimostrando più difficile del previsto grazie alla strenua difesa della città da parte dei suoi abitanti.
Fu a seguito di un presagio, si racconta, che il capo unno si persuase proprio mentre stava abbandonando il campo, che la città sarebbe invece ben presto caduta nelle sue mani. Un nido di cicogne - simbolo della vita -, costruito sulle mura di Aquileia, cadde infatti improvvisamente a terra mentre nelle mura si apriva un varco d'accesso alla città. Il segno gli aveva dato la certezza che l'impresa, da lì a poco tempo, sarebbe andata a buon fine. E così fu.
E' tuttavia da ritenere, contrariamente a quanto alcune fonti riportano,  che la cittadina non venne completamente distrutta, ma "semplicemente" saccheggiata. Anzi, la lettera del papa Leone I al metropolita di Aquileia e datata 21 marzo 458, lascia intravvedere degli evidenti segni di una seppur lenta ripresa della vita cittadina.

Lo spopolamento e l'abbandono progressivi della città, sembrano infatti verificarsi, invece, solo a seguito dell'invasione permanente dei Longobardi della "Venetia". Allora Aquileia, anche per cause naturali, perderà il suo antico legame col mare, diventando un centro marginale e periferico nel nuovo assetto politico-geografico imposto dai Longobardi alla penisola.

Questo processo di progressivo decadimento dell'antico centro romano, andava invece tutto a vantaggio della vicina Grado che, tra l'altro, cosa non certo di poco conto, era rimasta nell'orbita dei possedimenti bizantini assieme a tutta la fascia lagunare veneta.

Grado era un centro lagunare già stabilmente abitato in epoca romana quale porto del retrostante emporio commerciale di Aquileia. Lo stesso nome "Gradus ", ovvero scalo,  lascia ben intendere questa importante funzione.  A seguito delle scorrerie dei Goti di Alarico prima e degli Unni di Attila poi nel corso del V secolo, gli aquilensi iniziarono a guardare al vicino porto come ad un possibile e sicuro rifugio, costruendo infatti una cinta muraria con quattro-cinque porte affiancate da possenti torri. Era l'inizio della fortificazione del centro che sarebbe diventato un  vero e proprio "castrum". Già sul finire del V secolo si era dato inizio anche ad una nuova basilica.

Il fatto che ancora non si pensasse a Grado come alla nuova e definitiva dimora, sembra trovare conferma anche dal fatto che i lavori di questa nuova fabbrica vennero subito interrotti e la basilica potè essere ultimata solo dopo il 570, quando ormai invece, da transitoria, la nuova sede si apprestava a diventare definitiva.

Nel 569, infatti, sopraggiunti i Longobardi che inglobarono fin da subito Aquileia nelle loro conquiste, l'esodo dei suoi abitanti si fece massiccio e continuo. Lo stesso vescovo e patriarca Paolino, guidò il primo, consistente nucleo di profughi. Con i profughi, Paolino trasferiva con sè anche il tesoro della sua chiesa e la sede stessa della diocesi, ugualmente a quanto faceva il vescovo di Padova che stabilì la sua nuova sede a Malamocco, quello di Concordia a Caorle, di Oderzo ad Eraclea-Cittanova e di Altino a Torcello. Non è dato sapere con certezza se la fuga di Paolino e dei suoi fedeli da Aquileia a Grado, avesse un carattere transitorio oppure meno.

Il fatto che non si possa sapere se Paolino stesso sia morto ad Aquileia o a Grado, lascia aperto il dubbio sulla vera natura del trasferimento. Tuttavia, il trasferimento del tesoro della chiesa aquilense e delle stesse sacre reliquie dei martiri Ermagora e Fortunato a Grado, lasciano ipotizzare che i fuggiaschi per lo meno temessero di non poter tornare tanto presto nella loro città. I rapporti con la patria, in ogni caso, non si interruppero subito e bruscamente' ma anzi continuarono. La relativa calma seguita allo stabilizzarsi dell'equilibrio tra Longobardi e Bizantini nella penisola, favorì certamente questa circostanza, tanto che il successore di Paolino, Probino, ritornò probabilmente ad Aquileia dove infatti morirà.
Tuttavia, la nuova vita a Grado si era rapidamente organizzata e radicata ed il 3 novembre del 579 veniva consacrata la nuova cattedrale finalmente ultimata e dedicata a S.Eufemia. In quell'occasione, e solo allora probabilmente, le reliquie dei due martiri aquilensi vennero trasferite a Grado sancendo così il definitivo distacco della comunità dall'antica patria.

La tradizione che voleva le reliquie trasferite a Grado dal vescovo Paolino durante la prima ondata migratoria, pur rispondendo difficilmente alle vicende storiche, trova tuttavia una sua valenza e un suo significato legati alla carismatica figura dello stesso Paolino.
Questi avrebbe dunque trasportato a Grado con il tesoro della sua chiesa, le venerate reliquie dei santi Ermagora e Fortunato, martirizzati all'epoca della grande persecuzione neroniana. Ermagora, discepolo dell'evangelista S.Marco che si voleva esser stato presente nelle Venezie per diffondere il cristianesimo' era stato creato dallo stesso evangelista vescovo di Aquileia, dove effettivamente si può credere alla presenza di una prima comunità cristiana già nel I secolo d.C. Fortunato, invece, diacono dello stesso Ermagora, venne successivamente da questi indicato quale suo successore alla cattedra vescovile.

I profughi, continua la leggenda, avrebbero così affrontato il periglioso viaggio verso Grado potendo contare sulla benevola presenza delle sacre reliquie custodite e ben protette in una delle loro imbarcazioni che raggiunsero infatti indenni la nuova meta dove venne subito eretta una basilica in loro onore.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  1, SCRIPTA EDIZIONI



lunedì 27 aprile 2015

STORIA VENETA - 4: 639 - IN FUGA DAI LONGOBARDI. GLI ALTINATI SI RIPARANO NELLE ISOLE REALTINE


Dal testo di Francesco Zanotto

"Fuggirono gli Altinati guidati da Arrio ed Arratore suo figlio, tribuni un tempo o magistrati di Altino. Ad essi si unirono i santi sacerdoti Geminiano e Mauro; il primo venutovi a bella posta da altra parte del continente in compagnia di altri pietosi cristiani, affine di raccogliere e per terra e per acqua i fuggitivi fratelli, dando loro consolazioni e soccorsi.  Mauro colle apparizioni del Salvatore, di Maria, de' santi martiri Antolino, Giustina, Giovanni Battista, rincorarli, ridestarne la fede, raddrizzare quei dolenti e tapini".


ANNO 639


Giuseppe Gatteri



Cosa ci racconta il disegno di Gatteri


L'irruzione dei Longobardi sconvolge il territorio padano mettendo in crisi il governo bizantino che è costretto sulla difensiva. Le popolazioni non più difese cercano scampo ancora una volta nei centri abitati della laguna, ormai divenuta un territorio franco e autogestito. Nell'esodo gli abitanti di Altino si portano appresso parte dei loro beni e le reliquie dei Santi ...


4 - LA SCHEDA STORICA


Le vittorie di Narsete segnarono la fine del regno dei Goti in Italia. Dopo una durissima e sanguinosa guerra i bizantini di Giustiniano avevano avuto la meglio e dal 553 si apprestavano a sostituire i  Goti nell'amministrazione della penisola che entrava così a far parte integrante dell'impero d'Oriente.  Ma Bisanzio si rivelerà ben presto troppo lontana e troppo impegnata nella difesa dei propri confini orientali -minacciati ora dai Persiani-, per poter contrastare efficacemente la calata in Italia di un nuovo popolo "barbarico".

Ad appena quindici anni dalla conquista della penisola, i Bizantini infatti ripiegavano sotto l'urto dei Longobardi. Questi, nella primavera del 568 varcando le Alpi Giulie, penetrarono praticamente indisturbati nel Friuli, occupando, guidati dal loro re Alboino, Cividale.
Si racconta che sia stato lo stesso Narsete a chiamare i Longobardi che in precedenza avevano combattuto nell'esercito bizantino guidato dallo stesso generale contro i Goti. Ricompensati, erano poi stati dallo stesso Narsete frettolosamente rispediti nelle loro sedi originarie in Pannonia (all'incirca l'attuale Ungheria). All'origine di questa personale vendetta contro i Romani e la stessa Bisanzio da parte di Narsete, ci sarebbe stato un ricorso degli stessi romani presso l'imperatore bizantino contro l'anziano generale che sarebbe stato richiamato prontamente in patria. Il novantacinquenne Narsete, offeso da quello che a lui parve essere stato un affronto, si ritirò invece a Napoli e da lì avrebbe sollecitato i Longobardi a scendere in Italia. Vero o falso che sia, resta il fatto che Narsete di fronte alla calata dell'agguerrito popolo longobardo, non mosse un dito.
Dalle originarie sedi scandinave, i Longobardi si erano successivamente spostati verso sud per stanziarsi infine lungo il corso inferiore dell'Elba e da qui in Moravia. Dall'inizio del VI secolo si trovavano invece in Pannonia da dove, divenuta impossibile la coesistenza con gli Avari, mossero alla volta dell'Italia nel 568.


I Longobardi: la spinta decisiva


 A spostarsi, come spesso accadeva per queste popolazioni, era un intero popolo di uomini, donne e bambini, carri e bestiame. Resta effettivamente inspiegabile come nè i Romani, nè i Bizantini non siano riusciti a fermare l'avanzata di un siffatto esercito umano che non doveva superare le 200-250 mila unità.
Effettivamente quella dei Longobardi non fu una vera e propria conquista, o per lo meno non immediata e totale, dal momento che andavano ad occupare le aree che i Bizantini progressivamente perdevano ed abbandonavano.
Dopo Cividale del Friuli caddero Aquileia, Padova e Monselice (601- 603), Verona, Milano e Pavia che divenne la nuova capitale del regno longobardo. Le successive conquiste nella Padania e nell'Emilia, costrinsero i Bizantini a ritirarsi nelle città dell'entroterra veneto che ancora restavano sotto il loro controllo: Altino, Concordia, perduta però nel 615, Oderzo, conquistata dai Longobardi nel 639, Eraclea-Cittanova, il nuovo centro della difesa e del potere bizantino in Italia, all'estremità della laguna veneta.
Ancora una volta il terrore induceva così alla fuga gli abitanti dei centri veneti per trovare rifugio nelle isole lagunari.
In particolare gli abitanti di Altino guidati dai tribuni Arro e dal figlio Arratore, riparavano nelle isole dove avevano già trovato rifugio le precedenti generazioni di Altinati. L'isola era quella di Torcello dove venne questa volta anche trasferita la sede vescovile. Oltre a Torcello, Burano, Mazzorbo, Costanziaco e Ammiana, isole che secondo la tradizione, prendevano il nome dalle porte che si aprivano nelle mura della loro città.
Un centro, Altino, antichissimo e che aveva conosciuto durante i primi secoli dell'impero romano, il suo periodo d'oro venendosi a trovare esattamente all'incrocio di due strade importantissime per i traffici commerciali: la via Claudia e la via Emilia. Ora, la nuova ondata devastatrice, costringeva gli Altinati alla fuga, abbandonando una città un tempo florida e ricchissima, ora devastata ed orribilmente saccheggiata e destinata ad un rapido e triste declino.
Al tempo dell'invasione longobarda, intanto, le principali isole della laguna erano già state in gran parte abitate o per lo meno esplorate. La nuova ondata di profughi, sicuramente la più significativa sino ad allora verificatasi, andava così ad aggiungersi alle popolazioni già da qualche generazione trapiantate nelle isole. L'arrivo di questi nuovi fuggiaschi tuttavia, non era sempre ben tollerato da questi più "antichi" abitatori. Esso significava spesso la rottura o comunque la messa in crisi di delicati equilibri economici e sociali di un'intera organizzazione che doveva così venir nuovamente ridefinita.
Pare anzi, che fu proprio solo a seguito dell'invasione longobarda che si iniziò a pensare al trasferimento nelle isole anche delle strutture ed istituzioni politiche ed ecclesiastiche della terraferma, cosa che in precedenza non si era verificato, restando ancora i centri dell'entroterra il vero ed unico punto di riferimento.
Approdati nell'isola, gli Altinati fuggiaschi diedero così, subito inizio alla costruzione di una nuova cattedrale. L'epigrafe scoperta nell'attuale basilica dice che su ordine dell'esarca ravennate Isacio, fu edificata una chiesa sul terreno del magister militum Maurizio, chiesa che venne dedicata alla Teotokos (Maria, madre di Dio). L'iscrizione è di per sè indicativa, confermando non solo la data dell'arrivo degli esuli - 639 - che infatti riporta, ma anche il fatto che la zona rientrava pienamente per quella data nella sfera d'influenza esarcale e quindi bizantina.
Dovevano passare ancora molti anni prima che nelle isole si potesse pensare e realizzare una vera autonomia politica e religiosa da Bisanzio che trovava nelle isole e nei centri dell'immediato entroterra veneto, l'ultimo baluardo contro il dilagare dell'esercito e del popolo longobardi.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  1, SCRIPTA EDIZIONI