martedì 31 marzo 2015

IL PRIMO STATO AL MONDO A PROIBIRE LA TRATTA DEGLI SCHIAVI FU LA REPUBBLICA SERENISSIMA DI VENEZIA




Il primo Stato al mondo a proibire la tratta degli schiavi fu la Repubblica Serenissima di Venezia nel 960, con la promissione del XXII Doge Pietro IV Candiano, 900 anni prima degli Stati Uniti!

Tuttavia già il Doge Orso salito al potere nel 727 proibì la commercializzazione di schiavi

Questi due Dogi furono importanti poiché Orso fu il primo eletto dai veneti ed il Candiano dopo varie vicessitudini che inizialmente l'avevano condotto in esilio a servire l'Impero tenne equidistanza da Bisanzio e dal Sacro Romano impero confermando l'indipendenza della Serenissima



GLI IMMIGRATI SI GUARDINO DAGLI SCHIAVISTI ANTIRAZZISTI, NON DA SALVINI







L’altra sera dopo la trasmissione su Rai3 D-DAY I GIORNI DECISIVI DI HITLER e MUSSOLINI il noto giornalista Paolo Mieli ha consigliato di pubblicare Main Kampf in modo tale da consentire a noi stessi di verificare come procedeva la storia del nazismo. Io proporrei di fare ancora un passo indietro per conoscere come si è evoluta la storia del razzismo. Perché non esiste nulla di più nuovo di ciò che viene dimenticato.

Il razzismo inizia ad apparire tra il XVI e più costantemente il XVII secolo. 
Gli europei per centinaia di anni riducevano in schiavitù i popoli dell’africa e del nuovo mondo. 
La storia del razzismo nel mondo eurocentrico è strettamente collegata con la schiavitù come prima forma del colonialismo.
Proprio in questo contesto appare il concetto delle razze; quale concezione che i popoli non europei ricadono sotto il potere e la gestione dei popoli europei.


Per gli americani del XVII e XVIII secolo la visione razzista era inevitabile. Poiché il razzismo è cresciuto dai coatti rapporti di interazione tra gli individui.
Il concetto di razzismo non è stato inventato dalle persone come un’astrazione intellettuale per poi calarlo nella realtà pratica.
Si può dire che i bianchi, cosi come i neri e gli indiani hanno sviluppato questo senso delle razze nel momento in cui si sono confrontati l’uno con l’altro.

I britannici sono diventati negrieri e schiavisti, non poiché razzisti, ma perché hanno iniziato a fruire del lavoro di schiavi per guadagnare maggiormente nelle Americhe, ed hanno sviluppato per se stessi questo comportamento nei confronti dei neri, giustificativo del loro sfruttamento.
L’economia è il motore dello schiavismo. L’utilizzo del lavoro dello schiavo è diventato un metodo di arricchimento per la Gran Bretagna.

I britannici con la forza portavano via dall’Africa gli schiavi, e quelli che portavano via le grandi navi attraverso l’oceano non hanno più fatto ritorno. In quattro secoli vennero trasferiti all’incirca 11 000 000 di africani trasportati nelle peggiori condizioni; incatenati e nelle gabbie alla stregua di animali. Durante le traversate sono morti circa 2 000 000 milioni di esseri umani.

Lo schiavo diveniva una persona priva di radici, di un luogo di nascita, isolato dalla società. Questa gente allontanata dalle proprie origini, era priva di qualsiasi diritto.
Dal punto di vista sociale gli schiavi erano morti. E ciò consentiva al proprietario di mantenere il potere assoluto sullo schiavo, al di là di ogni legge.  Il padrone disponeva sia della loro vita che della loro morte. Essi erano costretti a lavorare sia di giorno che di notte con la forza.
In quel periodo nasce la paura che lo schiavo potesse ribellarsi, uccidendo il proprio padrone e la famiglia nel sonno. Ed ogni bianco poteva essere visto da un nero come un nemico. Il risultato era che ambedue le parti si temevano vicendevolmente. E ciò poteva promuovere una divisione razziale. L’unico metodo di garantire la sicurezza nella società schiavista era quello di fornire tutti gli uomini e le donne bianchi di armi.

Nonostante l’abrogazione della schiavitù da oltre un secolo e mezzo, gli anglosassoni sono passati da essa ad una espansione ed ad un rafforzamento della loro oppressione coloniale in Africa.
Le multinazionali continuano a sfruttare le risorse dell’Africa, aumentando la loro produzione di cibo, ma non per sfamare il popolo bensì per l’unico scopo di guadagnare più soldi.

Irina Sokolova


Fonte: da Imola Oggo del 29 marzo 2015


lunedì 30 marzo 2015

CHIEDERE OGGI AD UN OPERAIO DI VOTARE PD...





Chiedere oggi ad un operaio di votare PD e' come chiedere ad una zanzara di diventare rappresentante Autan.

(da un sindacalista di Verona)


GLI ANTICHI ROMANI PIÙ BRAVI DI NOI NEL TUTELARE AMBIENTE, PAESAGGIO, ARCHITETTURA E NEL SCONFIGGERE GLI SPECULATORI E I LORO PROTETTORI POLITICI


La Postumia a Verona, sullo sfondo la porta romana di Porta Borsari



Tutto il mondo, dall’America all’Europa, ha adottato i principi dell’antica roma per sconfiggere gli speculatori e i loro protettori politici

Un modello insuperabile di razionalità legale: così rimane il sistema messo a punto dagli antichi giuristi romani per proteggere ambiente, paesaggio e architettura. «Res omnium gratissima»: già nell’antica Roma qualsiasi singolo cittadino poteva agire legalmente in nome del populus Romanus. Gli americani e l’Europa hanno recepito l’insegnamento romano. Ma in Italia speculatori e politici ignorano o fanno finta di aver dimenticato quello che da sempre è riconosciuto un diritto universale.


Le riflessioni che ora proporrò  hanno molto a che fare, più che con la mia formazione e la mia esperienza di insegnamento di archeologia greca e romana, con il mio recente, e piuttosto arduo, impegno nella discussione sulle tematiche legate al paesaggio e all’ambiente nell’Italia di oggi.
Come era solito dire Arnaldo Momigliano, in un «Paese classico» come l’Italia o la Grecia, intorno a qualsivoglia questione nasce inevitabile il paragone tra passato e presente, e questo avviene proprio perché sappiamo quante volte nel nostro recente passato (mi riferisco agli ultimi secoli), la dimensione greco-romana, apparentemente distante da noi nel tempo e nello spazio, abbia invece avuto una forte influenza nel processo di costruzione di atteggiamenti politici, progetti e narrazioni che riguardano il presente e il futuro. Non occorre sottolineare la natura politica connaturata nei problemi ambientali. Nell’Italia contemporanea questo tema implica diversi aspetti di fatto radicati nella longue durée della gestione ambientale, come la tutela dell’ambiente e le più o meno radicali distruzioni dello stesso di cui siamo oggi testimoni.

Concentrerò la mia attenzione su due punti diversi (ma collegati), ovvero:

- il ruolo del diritto romano nel dibattito politico italiano sulle tematiche ambientali;

- il ruolo della ricerca sugli ambienti antichi (soprattutto in epoca romana) per la definizione della nozione di conservazionismo nel XIX e inizio XX secolo, in Italia e negli Stati Uniti.

Tuttavia, prima di affrontare questi due punti, vorrei brevemente sottolineare che nella tradizione (e nella legge) italiana, la nozione giuridica di «ambiente» (che è ovviamente imprescindibile per la sua tutela) è strettamente legata a quelle di «patrimonio culturale» e di «paesaggio».
Il paesaggio italiano è stato modellato nel corso dei secoli da un’intensa presenza umana: come disse Goethe dopo aver visitato l’acquedotto romano a Spoleto, l’architettura nel paesaggio italiano è «una seconda natura (eine zweite Natur), volta al bene pubblico» o che «favorisce le finalità civiche» (die zu bürgerlichen Zwecken handelt).
L’architettura (e più in generale il patrimonio culturale) e il paesaggio costituiscono quindi per la tradizione giuridica italiana un tutto unico, come chiaramente affermato dalla nostra Costituzione all’articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione».
Questa concezione ha una lunga storia, che non posso riassumere qui: risale a una serie di leggi degli stati italiani preunitari (in particolare il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio) e, più tardi, alle principali leggi sulla tutela del patrimonio e del paesaggio (1902, 1909, 1922, 1939), frutto di una profonda consapevolezza della documentazione storica in questo campo: basti ricordare che il ministro che nel 1920 presentò la prima legge italiana sulla tutela del paesaggio fu Benedetto Croce e che il ministro del 1939,  Giuseppe Bottai, lavorò, tra gli altri, a stretto contatto con Giulio Carlo Argan.

D’altro canto, la Costituzione italiana non menziona la nozione giuridica di «ambiente» come meritevole di protezione e tutela. Tuttavia, negli anni, la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto la protezione dell’ambiente come principio costituzionale basilare, affermandone la garanzia attraverso la convergenza di due diversi principi costituzionali: la protezione del paesaggio (articolo 9) e la protezione della salute del singolo «come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività» (articolo 32).
Per questo nel sistema italiano le nozioni giuridiche di tutela del «paesaggio» e dell’«ambiente» sono ampiamente sovrapposte, e sono a loro volta interconnesse con quella di tutela del patrimonio culturale.
Ma, in netta opposizione rispetto al principio costituzionale poc’anzi menzionato, il paesaggio italiano è sempre più spesso vittima della speculazione edilizia.
Porterò un solo esempio: secondo i dati ufficiali, dal 1990 al 2005 il 17,06% del paesaggio agricolo italiano è stato abbandonato o interessato da nuove costruzioni. Purtroppo, le aree più interessate da questa nuova devastazione del paesaggio sono quelle considerate, fin dall’epoca dell’Impero romano, tra le più fertili d’Europa, come la Pianura padana e la Campania.

Inizio ora a esporre il primo dei due punti che desidero trattare, ovvero il ruolo del diritto romano nel dibattito pubblico sul paesaggio e l’ambiente nell’Italia contemporanea.
Come tutti sanno, durante il XIX secolo il sistema messo a punto dagli antichi giuristi romani venne considerato un modello insuperabile di razionalità legale, e le loro soluzioni ritenute quasi il risultato di un calcolo matematico, dal momento che, come scrisse Carl von Savigny, «i romani calcolavano basandosi sui loro concetti».
La pretesa che il diritto romano comprendesse potenzialmente anche principi orientati alla protezione dell’ambiente e del paesaggio fu di estrema importanza, per due temi in particolare: la natura e la proprietà dei «beni comuni», come l’acqua, le strade, il litorale e i pascoli; e la gerarchia tra la piena garanzia della proprietà privata e la ricerca del bonum commune.

Tematiche entrambe spesso discusse in ambienti legali e governativi nell’Italia preunitaria.
 Nel 1574, ad esempio, papa Gregorio XIII emanò una Constitutio Apostolica che prese il nome dall’incipit «Quae publice utilia ac decora», in cui riconosceva chiaramente la priorità assoluta della publica utilitas e del decorum sulla cupiditates e i commoda dei proprietari terrieri. Da quel momento nelle loro leggi i papi ribadirono costantemente il concetto di publica utilitas, soprattutto nelle norme relative al patrimonio culturale promulgate dai camerlenghi Albani (1733), Doria Pamphilj (1802) e Pacca (1819).
Intorno al 1800 Carlo Fea, commissario pontificio delle Antichità, pubblicò tre saggi dove sosteneva che il concetto legale di publica utilitas, come elaborato nella legislazione papale, aveva le sue fondamenta nel diritto romano, in particolare nel principio della dicatio ad patriam (o legatum ad patriam), in base al quale qualsiasi bene privato posto sulla pubblica via (come la facciata di una casa o la sua decorazione scultorea) ricade, almeno parzialmente, nella condizione legale di res populi romani, e quindi comporta una servitus publica che è un chiaro limite alla proprietà privata e implica una gerarchia di priorità che vede al primo posto il bonum commune.

Questo aspetto è stato spesso oggetto di discussione nell’Italia unita, soprattutto nei primi vent’anni del ’900, animati da accesi dibattiti sulla necessità di approvare o meno una legge generale sulla conservazione del paesaggio.
Come detto sopra, fu Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Giolitti del 1920, a lanciare la legge in questione: il ruolo del diritto romano nelle argomentazioni, anche in Parlamento, a favore della tutela del paesaggio si può esemplificare citando un lungo saggio di Giuseppe Lustig, giurista e procuratore del re a Napoli, pubblicato nelle pagine della rivista giuridica «Il Filangieri» (1918). Il titolo del saggio è eloquente: «La tutela del paesaggio in Roma antica». Sfruttando espressioni quali decor urbis, publica utilitas, dicatio ad patriam, Lustig afferma la continuità assoluta dalla repubblica romana fino a Giustiniano nella conservazione del patrimonio e del paesaggio, e accosta leggi e pratica comune nell’antica civiltà romana all’imperativo etico di Ruskin sulla tutela del paesaggio come fonte di importanti esperienze etiche ed estetiche, non solo per l’individuo ma anche per la collettività dei cittadini. Persino l’interconnessione tra spazi naturali e urbani si fonda, secondo Lustig, su una tradizione tipicamente italiana che risale all’antica Roma.

Nel breve testo di introduzione al suo disegno di legge, Croce non cita espressamente il diritto romano, anche se da esso deriva la nozione stessa di «servitù di pubblica utilità» e il principio di «pubblico interesse», dichiarandolo gerarchicamente superiore ai diritti dei proprietari privati; ma quando Augusto Mancini, professore di greco a Pisa e deputato, fece alla Camera dei deputati un discorso a favore della proposta di Croce (1921), citò il saggio di Lustig, sostenendo che il progetto di Croce era effettivamente fondato sul diritto romano e poteva addirittura considerarsi un ampliamento di una novella di Giustiniano, dove si affermava il principio generale della servitus prospectus (servitù di veduta), applicandolo alle belle vedute sulle montagne (prospectus montium) o sul mare (maris aspectus), che in particolare a Costantinopoli venivano tutelate come «res omnium gratissima». Questa e altre citazioni dal diritto romano, messe in rapporto con problemi più attuali, richiamano un’inattesa metafora di Goethe che descriveva la legge romana come «un’anatra in immersione, che scompare sott’acqua ma solo per ricomparire poco dopo».

Il diritto romano ebbe poi un ruolo importante nei dibattiti del nostro Paese all’inizio del XX secolo in tema di actio popularis, un’invenzione giuridica dei romani secondo la quale, attribuendo l’identità di populus sia all’insieme sia ai singoli cittadini (cives) si autorizzava il singolo civis (quivis de populo) ad agire legalmente in nome di tutto il populus Romanus, potendo promuovere un’azione legale (actio popularis) in difesa dell’interesse pubblico, in particolare nei casi in cui fossero coinvolte res communes omnium (come l’acqua, il mare, il litorale ecc.).
Questo antico principio fu riproposto nell’Italia unita dal deputato Giovanni Rosadi e approvato dalla Camera nella legge sul patrimonio culturale del 1909, che in origine prevedeva anche un articolo sul paesaggio, ma il Senato respinse sia l’articolo sul paesaggio sia quello sull’«azione popolare». L’argomentazione di Rosadi derivava direttamente dal diritto romano; egli sosteneva che il principio giuridico dell’«azione popolare» avrebbe «conferito ai cittadini la facoltà di far valere i diritti che spettano allo Stato», e cioè di difendere in prima persona il pubblico interesse su un tema tanto delicato quanto importante come il paesaggio.

Passiamo al mio secondo (e ultimo) punto, ovvero quanto le conoscenze (o le congetture) sull’ambiente nell’Italia antica e nel Mediterraneo abbiano contribuito a modellare la nozione di conservazionismo nel XIX e all’inizio del XX secolo in Italia e negli Stati Uniti.
George Perkins Marsh, primo ambasciatore americano nell’Italia unita, dove rimase per vent’anni (1861-1882), nonché pioniere del conservazionismo americano, fu fondamentale nella creazione di un ponte culturale tra Italia e America sulla tematica del paesaggio.
Marsh è una figura molto interessante, la cui biografia è stata analizzata sia in America, da David Lowenthal, sia in Italia, da F.O. Charlotte Vallino (si veda anche il diario della moglie, Caroline Marsh, edito da Allemandi nel 2004 con il titolo Un’americana alla corte dei Savoia. Il diario dell’ambasciatrice degli Stati Uniti in Italia dal 1861 al 1865, a cura di David Lowenthal e Luisa Quartermaine, Ndr).
Prima di venir nominato dal presidente Lincoln ambasciatore in Italia, Marsh era stato inviato presso la Sublime Porta (il Governo ottomano Ndt) durante la guerra di Crimea, e aveva molto viaggiato in Grecia, Turchia, Siria, Egitto e lungo le coste del Mediterraneo. Aveva scoperto iscrizioni greche a Petra e messo insieme un’ampia collezione di incisioni e disegni europei, recentemente ricomparsi alla Smithsonian.
Marsh inoltre, in qualità di trustee della Smithsonian Institution nei primi anni dalla sua fondazione, fu uno dei primi ad argomentare in favore della tutela dei siti degli indiani d’America e fu mentore di Charles Eliot Norton, traduttore di Dante e primo professore di storia dell’arte ad Harvard.  A Marsh era stata offerta la cattedra di storia ad Harvard, incarico che rifiutò per restare in ambito diplomatico, cosa che fece fino alla morte, a Firenze, nel 1882.
Durante la sua permanenza in Italia fu molto vicino a importanti statisti come Bettino Ricasoli e Massimo D’Azeglio, e proprio in Italia scrisse il suo importante libro Man and Nature (1864), tradotto (almeno parzialmente dallo stesso Marsh) in italiano nel 1870. Nella prefazione all’edizione italiana, Marsh sottolinea come il suo libro fosse stato «profondamente trasformato» per adattarlo agli interessi del pubblico italiano, e infatti l’inizio del primo capitolo sui «Vantaggi naturali del territorio dell’Impero Romano, il suo decadimento fisico e le cagioni di questo decadimento», era perfetto per catturare l’attenzione dei lettori italiani. In verità le differenze tra la versione originale inglese e quella italiana non sono così marcate come afferma Marsh nella prefazione. In entrambe le versioni del libro Marsh elenca eloquentemente le enormi ferite inflitte dall’uomo alla natura, in particolare nell’area mediterranea.
Nato dalla natura, l’uomo ben presto ne è diventato acerrimo nemico e continua a distruggere tutte le risorse naturali. Solo una nuova, meditata consapevolezza dei rischi e delle devastazioni (in specie quelle derivanti dalla deforestazione), basata sull’analisi attenta del passato, può rallentare questo processo fatale, persino arrestarlo e invertirlo attraverso strategie di conservazione.
Ecco un passo abbastanza caratteristico dal primo capitolo: «L’Impero romano godette di una felice combinazione di elementi. Il Mediterraneo beneficiava di condizioni senza pari di salubrità, clima e fertilità del suolo. Ma oggi più della metà di questa regione è piegata a una desolazione senza speranza. Le foreste sono sparite dalle montagne; il suolo è arido; i campi sono improduttivi, perché non ci sono più le cisterne e i bacini che rifornivano gli antichi canali, o si sono prosciugate le fonti che li alimentavano: fiumi che furono famosi nel corso della storia sono diventati umili ruscelli, corsi d’acqua navigabili sono ostruiti da banchi di sabbia, i porti sono in secca, il mare pescoso e la terra fertile sono acquitrini improduttivi e miasmatici. Il decadimento è in parte dovuto a cause geologiche, ma principalmente all’aver colpevolmente ignorato le leggi della natura, all’aver compiuto azioni che hanno portato alla sterilità e al decadimento fisico della parte più nobile dell’impero dei Cesari».
La narrazione storica eloquentemente approntata da Marsh si rivelò essenziale per lo sviluppo del movimento conservazionista in Italia e negli Stati Uniti.
Ecco un altro interessante passaggio dal suo testo: «In alcune parti dell’Asia Minore, del Nord Africa e della Grecia, e persino delle montagne europee, le azioni dell’uomo hanno portato la superficie terrestre a una desolazione talmente profonda da ricordare quella lunare. La terra sta rapidamente diventando una casa insalubre per i suoi più nobili abitanti, e una nuova era di simili crimini e incuria da parte dell’uomo la ridurrebbero a una tale situazione di impoverimento e di eccessi climatici da rischiar di causare la depravazione, la barbarie e forse l’estinzione delle specie viventi».
Charles Eliot Norton partì proprio dal libro di Marsh per lanciare il programma di tutela della natura negli Stati Uniti, per salvare ad esempio le cascate del Niagara dallo sfruttamento commerciale. Nei suoi scritti e nei moniti di Marsh, natura e cultura sono intimamente legate, e meritano entrambe, o forse sarebbe meglio dire necessitano, forme organizzate di salvaguardia, perché entrambe sono custodi di memorie collettive che devono essere preservate e trasmesse alle generazioni future.
Come sottolinea Lowenthal, una delle Reflections on the Revolution in France (1790) di Edmund Burke venne ripetutamente citata nell’Inghilterra vittoriana e negli Stati Uniti di fine Ottocento: «Gli uomini che non guardano mai indietro, verso i propri antenati, non saranno capaci di guardare avanti, verso i posteri».
Forgiare un contesto sociale in grado di costruire il futuro, prosegue Burke, «richiede un tempo molto più lungo dello spazio di una vita» ed esige «collaborazione non solo tra i vivi, ma anche tra i vivi, i morti e chi deve ancora nascere».
I moniti apocalittici di Marsh furono ispirati da Burke e a loro volta ispirarono il dibattito sulla tutela dell’ambiente in America e in Italia.
Secondo lui, «la terra è stata data all’uomo in semplice usufrutto, non per essere consumata, ancor meno per essere devastata; la conservazione è un dovere che dobbiamo a coloro che verranno dopo di noi».
Inoltre, secondo Marsh, la tutela della natura è «un dovere soprattutto per gli americani, debitori ai sacrifici dei loro antenati che si possono ripagare solo prendendosi cura allo stesso modo dell’interesse della nostra posterità».

Per riassumere senza ulteriori citazioni, la narrazione storica di Marsh, centrata sulla distruzione e sul decadimento del paesaggio nell’area mediterranea, in un lungo processo che iniziò a partire dall’Impero romano (o subito dopo), fu molto importante per innescare sia il conservazionismo americano, sia una nuova consapevolezza della tutela del paesaggio e dell’ambiente in Italia.
È importante ricordare, inoltre, che i diritti delle generazioni future, una nozione giuridica sempre più centrale nelle odierne battaglie per la tutela dell’ambiente, devono molto alla «prospettiva sul lungo termine» adottata da Marsh nella descrizione del declino dell’area mediterranea come conseguenza dell’incuria umana, e come monito per l’America.  Questa prospettiva di longue durée ha avuto, e ha ancora oggi, uno spessore politico e significative implicazioni etiche.
Essa ha ispirato, tra le altre cose, le sagge parole di Gifford Pinchot (primo direttore dello United States Forestry Service): «conservare vuol dire il maggior vantaggio per il maggior numero possibile [di cittadini], quanto più a lungo possibile», che furono così commentate dal presidente Theodore Roosevelt: «Il criterio del maggior numero possibile deve applicarsi all’intero svolgersi del tempo: e in esso noi, che siamo vivi oggi, non siamo che una frazione insignificante. Abbiamo il dovere di rispettare l’insieme degli uomini, specialmente le generazioni non ancora nate: dobbiamo dunque impedire che una minoranza priva di principii distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è essenzialmente democratico per spirito, finalità e metodo».

La stessa prospettiva di longue durée ha ispirato anche l’economista britannico Arthur Pigou che nel 1920 scriveva: «Il Governo ha il chiaro compito di amministratore dell’ambiente per le generazioni future, per evitare lo sperpero e la distruzione, per proteggere gli interessi del futuro contro l’interesse che ogni individuo ha nell’immediato per sé a scapito dei propri discendenti».
Per concludere, il conservazionismo americano ha ispirato profondamente, insieme ad altre fonti come il diritto romano e gli scritti di Ruskin sulla necessità della tutela ambientale nell’industrializzata Inghilterra, la proposta di legge di Benedetto Croce sulla protezione del paesaggio (1920-22), dalla quale nacquero nel tempo la legge del 1939, l’articolo 9 della Costituzione, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio oggi vigente, e infine gli accesi dibattiti sulla tutela che animano oggi il nostro Paese.
Come sempre accade, una sincera preoccupazione per il futuro è possibile solo se siamo capaci di «guardare ai nostri antenati», com’era solito dire Edmund Burke. E questo è vero non solo in un «Paese classico» come l’Italia, ma, come ho tentato di dimostrare, anche in America.

Traduzione di Gaia Graziano dell’intervento di Salvatore Settis al convegno «History and environment in the ancient Mediterranean» tenutosi a Roma (American Academy e Institutum Romanum Finlandiae) il 15 e 16 giugno 2011



Fonte: visto da IL GIORNALE DELL’ARTE.COM


domenica 29 marzo 2015

OGGI SCATTA L'ORA LEGALE. PANICO TRA I RAPPRESENTATI DEL GOVERNO!



LA MORTE VIOLENTA DEL FARAONE SENEBKAY

Scheletro del faraone SENEBKAY


Avrà condotto una vita da re, ma le nuove prove forensi raccolte dai resti del faraone Senebkay indicano che il sovrano egizio morì in battaglia – il primo faraone che sappiamo essere morto così – brutalmente attaccato da molteplici assalitori.

L’anno scorso, la tomba di re Senebkay (1650-1600 a.C.) era stata scoperta nel sito di Abydos dai ricercatori dell’Università della Pennsylvania in collaborazione con le autorità egiziane. Ora il team del Dr. Josef Wegner ha completato lo studio dello scheletro di Senebkay e i resti di diversi altri re le cui tombe sono state scoperte nelle vicinanze.


Un re guerriero


Il cranio con le  ferite mortali


Il  faraone Woseribre Senebkay, che visse durante la fine del Secondo Periodo Intermedio (1650-1550 a.C.) è attualmente il primo faraone che sappiamo essere morto in battaglia.
Un’analisi dettagliata dei dottori Maria Rosado e Jane Hill della Rowan University ha documentato numerose ferite sullo scheletro di Senebkay, dimostrando che morì a 35-40 anni per mano di più persone. Sono ben diciotto le ferite penetrate fino all’osso. I tagli si trovano su piedi, anche, ginocchia, mani e zona lombare. Tre grandi colpi al cranio conservano la tipica misura e curvatura delle asce da battaglia usate all’epoca. Il faraone potrebbe essere morto in battaglia, o magari in un’imboscata.

L’emergente ruolo del cavallo





I tipi di ferite suggeriscono che Senebkay venne attaccato mentre era in una posizione più alta rispetto ai suoi assalitori, quindi probabilmente si trovava a cavallo. Un altro risultato sorprendente dell’analisi osteologica è i muscoli attaccati a femore e bacino indicano che trascorse una quantità significativa della sua vita adulta a cavallo.

Anche il corpo di un altro re, trovato quest’anno in una tomba vicina a quella di Senebkay, mostra tracce di ripetute cavalcate, suggerendo che i re di questo periodo ad Abydos fossero abili cavalieri.

I reali di Abydos forniscono importanti informazioni sull’introduzione del cavallo in Egitto. Sebbene l’uso in combattimento di questo animale non fu comune fino a dopo l’Età del Bronzo, gli Egizi sembrano aver padroneggiato il suo uso durante il Secondo Periodo Intermedio. L’andare a cavallo potrebbe aver giocato un ruolo crescente nei movimenti militari dell’epoca, persino prima del pieno avvento della tecnologia del carro in Egitto, avvenuto poco dopo, all’inizio del Nuovo Regno (1550 a.C. circa).

Una battaglia con chi?


Cartiglio del faraone Senebkay


La morte di Senebkay sembra aver avuto luogo molto lontano da Abydos. Il corpo del re mostra che passò un certo tempo tra la sua morte e la preparazione del corpo alla sepoltura. Il mistero è dove e per mano di chi morì Senebkay. È possibile che il re cadde in battaglia combattendo contro gli Hyksos che all’epoca governavano il nord dell’Egitto. Oppure contro i nemici a sud: le fonti storiche risalenti alla vita di Senebkay raccontano di almeno un tentativo di invasione dell’Alto Egitto da parte di una grande forza militare dalla Nubia. In alternativa, Senebkay potrebbe aver avuto altri opponenti politici, forse dei re basati a Tebe.


Faraone Senebkay;  titoli


Ma chi era Senebkay? Le tombe di altri sette re sono state ora scavate a Abydos, aprendo un nuovo squarcio in uno dei periodi più oscuri dell’Antico Egitto. Sembra probabile che tutti questi sovrani abbiano formato una breve dinastia che scelse Abydos come terreno di sepoltura. I prossimi scavi degli archeologi del Penn Museum, in collaborazione con la National Geographic Society, sperano di gettare luce sulla loro storia.

University of Pennsylvania


Fonte: visto su Il Fatto Storico del 3 marzo 2105