giovedì 31 gennaio 2013

E MONTI SAREBBE UN PROFESSORE UNIVERSITARIO?


 Mario Monti

Se Monti capisce di economia come capisce di Università, siamo a posto! Ma non è stato perfino Rettore alla Bocconi? O era troppo occupato con il Bilderberg e con la Trilaterale? E intanto, a farne le spese è l'istruzione italiana. Meno cultura, meno consapevolezza dei propri diritti e più lavoro sottopagato: lentamente, il modello cinese si avvicina.


di Valerio Valentini
 Stringe il cuore vedere il presidente del consiglio Mario Monti darsi così tanto da fare per gli universitari italiani, sbattendo i pugni per permettere agli Erasmus in giro per l’Europa di poter votare alle prossime elezioni: “Bisogna fare tutto il possibile per consentire loro il diritto di voto”, aveva sobriamente ribadito ai suoi ministri Cancellieri e Terzi di Sant’Agata. Forse, però, un po’ troppo sobriamente. E infatti tre giorni dopo il Consiglio dei Ministri ha bloccato tutto: non ci sono i tempi tecnici. L’Erasmus, del resto, esiste soltanto dal 1987.

La responsabilità, va precisato, non può certo ricadere soltanto su Mario Monti il quale, al massimo, è colpevole di non aver fatto nulla per adeguare una legge ormai avariata per quanto riguarda le modalità di voto dall’estero. Una legge tra le più arretrate di tutta l’Unione Europea, la quale evidentemente è un modello a cui guardare solo quando si parla di banche e finanza. Ma, al di là della questione degli studenti Erasmus, che idee ha il professore Mario Monti sull’Università italiana?

 Leggendo l’Agenda Monti ci si può fare qualche idea. Va subito detto che, per essere stata scritta - si presume - da un professore universitario, nonché ex presidente di una prestigiosa università (privata), la superficialità con la quale viene trattato l’argomento è un po’ stupefacente. O, se volete, sconcertante. Ci si aspetterebbe di trovare – entro i limiti concessi da un documento di 25 pagine, ovviamente – un’analisi tecnica accurata e meticolosa, che esponga problemi non noti ai non addetti ai lavori e proponga soluzioni illuminanti. E invece su quelle pagine non c’è nulla che non avrebbe potuto scrivere un qualunque italiano cercando su google: “problemi università italiana” e spendendo mezzora a leggere qualche statistica, oppure pescando a caso nel repertorio dei cliché. Un esempio? “C’è bisogno di invertire la rotta. Per questo bisogna prendere l’istruzione sul serio”. (Il commento a quest’affermazione tanto arguta lo trovate qui).

 Il tutto diventa ancora più assurdo se si confrontano le miracolose soluzioni di Monti con le disposizioni prese dal suo governo negli ultimi mesi. Scrive Monti: “Serve rompere uno schema culturale per cui il valore dello studio e della ricerca e il significato della professione di insegnante sono stati mortificati. Gli insegnanti devono essere rimotivati e il loro contributo riconosciuto”. Sarà stato per questo motivo che Monti qualche mese fa aveva dapprima proposto di portare da 18 a 24 le ore settimanali di servizio dei docenti, e poi li aveva bollati come dei corporativisti animati “da spirito conservatore” a causa della loro “indisponibilità a fare due ore di lavoro in più”.  Scrive ancora Monti: “investire in capitale umano è la strada per sfuggire alla morsa della competizione di Paesi con costi di manodopera più bassi”. Investire in capitale umano? Ma Monti lo sa che la sua revisione di spesa (perché chiamarla “spending review”?) ha tagliato 200 milioni al Fondo di Finanziamento Ordinario dell’Università, imponendo un nuovo blocco del turn-over e riducendo drasticamente (di circa il 40%) la possibilità di nuove assunzioni?

 Tuttavia, leggendo tra le righe, forse si capisce qualcosa in più circa i progetti futuri di Monti sull’Università. Si potranno creare, chiarisce il professore, “nuovi spazi per investimenti nell’istruzione” soltanto “man mano che si riduce il costo del debito pubblico e si eliminano spese inutili”. Cioè, più o meno, tra qualche secolo. Tanto più che di sprechi Monti ne ha tagliati pochini (province? rimborsi elettorali? rimborsi spese parlamentari?); quanto al debito pubblico, erano quindici anni che non aumentava ad un ritmo così vertiginoso: oltre 15 miliardi al mese.

 E ora veniamo alla parte più sorprendente. Scrive Monti: “Bisogna rilevare per ogni facoltà in modo sistematico la coerenza degli esiti occupazionali a sei mesi e tre anni dal conseguimento di laurea, rendendo pubblici risultati”. Al di là del fatto che è discutibile l’idea di istituire una classifica dei vari atenei italiani sulla base di quanti dei laureati di quell’ateneo vengono immediatamente assunti, Monti parla di “facoltà”. Facoltà? Ma non lo sa, il professor Monti, che le facoltà, di fatto, non esistono più? E mica da ieri. Sono state abolite nel 2010, dalla famigerata riforma Gelmini. Il punto C del secondo comma della legge numero 240/2010, infatti, prevede la loro sostituzione con “strutture di raccordo, comunque denominate, con funzioni di coordinamento e razionalizzazione delle attività didattiche”. Ora, che uno sprovveduto cittadino che si occupa di tutt’altro nella vita, possa non conoscere questo dettaglio è comprensibile; ma che ad ignorarlo sia un esperto del settore, che per giunta aspira a governare il Paese anche con l’obiettivo di rilanciare l’Università italiana, forse è un po’ meno ammissibile.

 Ma forse una giustificazione a Monti la si può concedere: magari la riforma Gelmini non l'ha letta. O, se l’ha letta, l’avrà fatto distrattamente, mentre era indaffarato in uno dei ritrovi del Bilderberg. Lo dimostra un articolo che scrisse nel gennaio del 2011 per il Corriere della Sera, quando ancora non era premier ma cominciava già a formulare profezie da Sibilla.
Scriveva Monti che in Italia l’illusione marxista e la mancanza di una cultura autenticamente liberale avevano ostacolato le riforme volte alla competitività. Un ostacolo, questo, tuttavia superabile, a giudizio di Monti. “L'abbiamo visto di recente – affermava il professore – con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po' ridotto l'handicap dell'Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili”. 

 
L’abbiamo visto, infatti, professore...  L'abbiamo visto.

Fonte: srs di Valerio Valentini, da  http://www.byoblu.com, del  26 gennaio 2012


mercoledì 30 gennaio 2013

LA PRIVATIZZAZIONE FINALE DELLO STATO


Giorgio Napolitano

Può suonare paradossale, ma è una seria e certa realtà giuridica: lo Stato italiano non è la Repubblica italiana voluta dalla Costituzione del 1948. È in radicale antitesi e contrapposizione con la Costituzione e con i fondamenti della medesima. Forse più di quanto lo sarebbe un ordinamento di tipo fascista. Perché in Italia siamo alla proprietà privata dello Stato e dei poteri politici.


L’articolo 1 della Costituzione afferma «L’Italia è una repubblica democratica. La sovranità appartiene al popolo». Al contrario, nello Stato italiano la sovranità economica, la sovranità monetaria, appartiene interamente ai privati. Ai finanzieri privati proprietari di Banca d’Italia. Sì, la Banca d’Italia non è degli Italiani, non è dello Stato: è di finanzieri privati.


La sovranità economica sull’Italia appartiene anche alla Banca Centrale Europea, che, in base al Trattato di Maastricht, è un’istituzione autocratica sopranazionale, esente da ogni controllo democratico e persino giudiziario, gestita da un direttorio nominato dal sistema delle banche private. I suoi direttori sono esonerati da ogni responsabilità e decidono nel segreto. Una vera e propria potenza straniera, alla quale i paesi dell’Eurozona sono sottomessi..


Chi ha il controllo della moneta e del credito, ha il controllo della politica, e incassa il signoraggio sulla produzione della moneta e del credito – per l’Italia, si tratta di circa 800 miliardi di Euro l’anno. Chi ha il potere di fissare il tasso di interesse, di dare e togliere liquidità al mercato, ha perciò stesso il potere di dare e togliere forza all’economia, di far saltare i bilanci delle aziende private e degli Stati. Di costringere questi ultimi ad aumentare le tasse. Di ricattare parlamenti, governi, società. Come sta avvenendo. Come è sempre avvenuto, ad esempio, in America Latina. Bene: questo potere è in mano a privati, che lo esercitano in totale esenzione da ogni responsabilità e sorveglianza. Dicono che ciò sia bene, perché lo esercitano meglio dei politici, che sono corrotti e demagogici. Sì, meglio – ma per se stessi, non per la gente. Non per quelli che non riescono più a pagare il mutuo, e che perdono la casa, mandata all’asta dai banchieri, che la ricomprano attraverso loro società-schermo. Non per le imprese che chiudono o falliscono. Non per i contribuenti, non per i risparmiatori regolarmente truffati ad opera di banchieri privati (che poi forse ritroviamo azionisti di Banca d’Italia, da Parmalat a Enron a Cirio a Halliburton ai credit derivatives).


Veniamo alla Banca d’Italia. Fino al 12 Dicembre 2006, essa era un ente di diritti pubblico con uno statuto emanato per legge dello Stato, e questo statuto, al suo articolo 3, stabiliva che la proprietà della Banca d’Italia doveva essere per la maggioranza in mano pubblica  aveva la struttura legale di una società di capitali privati, di una s.p.a., ma una norma – l’art. 3 – stabiliva che la maggioranza del capitale dovesse essere in mano pubblica e che nessuna cessione di quote potesse avvenire, se non a soggetti pubblici. In realtà, questa norma era sempre stata violata: la grande maggioranza delle quote della Banca d’Italia era in mano ai finanzieri privati (banchieri e assicuratori), e quando Prodi eseguì le privatizzazioni delle tre banche di Stato (BNL, CREDIT e Banca Commerciale) proprietarie di quote di Banca d’Italia, non trattenne quelle quote allo Stato, ma le cedette ai privati. Operazione contraria all’articolo 3, o perlomeno elusiva, a cui nessuno di oppose, a suo tempo.

Berlusconi, verso la fine della scorsa legislatura, sollevò la questione della proprietà della Banca d’Italia, che doveva essere pubblica, e propose un piano per renderla tale. Ma il mondo bancario, e per esso Mario Draghi, nuovo governatore di Banca d’Italia, pose un secco veto: la Banca d’Italia deve restare privata.

Un altro esponente del mondo e degli interessi bancari, Romano Prodi della Banca Goldman Sachs, andato al governo assieme al suo collega della Banca Centrale Europea, Tommaso Padoa Schioppa, si mise subito all’opera: se la legge è violata perché la proprietà della Banca d’Italia è al 95% privata anziché in maggioranza pubblica, non bisogna – sarebbe un sacrilegio – mettere la proprietà in regola con la legge, bensì, al contrario, mettere la legge in regola con la proprietà. Così si è fatto col decreto del 12 dicembre 2006, firmato da Napolitano, Prodi, Padoa Schioppa. Già! Prodi e Padoa Schioppa è ovvio che lo firmino – sono fiduciari dei banchieri. Ma che lo firmi Napolitano, un vecchio comunista, uno che era comunista nel 1948, quando essere comunisti significava essere stalinisti, intransigenti fautori della proprietà collettiva dei mezzi di produzione – che lo firmi Napolitano, è davvero il colmo! Dov’è il suo comunismo? Dov’è la difesa della Costituzione, per la quale doveva dare, se necessario, la vita? Dov’è la difesa del supremo principio della sovranità popolare? E del lavoro come fondamento della Repubblica, del lavoro che invece viene sacrificato all’usura? Napolitano doveva semplicemente rifiutarsi di firmare per far salvi principi essenziali della Costituzione che giurò di difendere.


In realtà, chi conosce i “comunisti” (non la base ingenua e idealista, ma i capi freddi e lucidi – non i Rubashov, cioè, ma i Gletkin del romanzo di Arthur Köstler, Buio a Mezzogiorno), sa che essi non sono comunisti, non gli importa nulla di socialità etc. – i capi “comunisti”, da Stalin in poi, hanno come scopo la conquista e la gestione del potere fini a se stesse. Non hanno un’identità ideologica: per questo fine, essi si servono di tutto, di ogni idea, di ogni uomo, dello Stato, dei principi, come di un puro mezzo, strumenti sostituibili. Sono tecnici della manipolazione sociale. Tutto il resto, per loro, è puerile romanticismo. Va bene per il popolino. Paris vaut bien une messe. 


E i partiti della sinistra? Ebbene, si è visto anche nella vicenda Consorte: i partiti della sinistra seguono i finanzieri e si occupano di allineare la società agli interessi dei banchieri.
Marco Della Luna


Fonte: srs di Marco della Luna; da Il giornale del Ribelle,  del  24 dicembre 2012

martedì 29 gennaio 2013

LE PRESI LA MANO E LE DISSI: DEVO PARLARTI




Piccola storia che al di là di come sia scritta e da come la si pensi, mi è stata utile.


“Mentre mia moglie mi serviva la cena, le presi la mano e le dissi: ”Devo parlarti”.
 Lei annui e mangiò con calma. La osservai e vidi il dolore nei suoi occhi, quel dolore che all’improvviso mi bloccava la bocca. Mi feci coraggio e le dissi: “Voglio il divorzio”. Lei non sembrò disgustata dalla mia domanda e mi chiese soavemente: “Perché?”.


Quella sera non parlammo più e lei pianse tutta la notte. Io sapevo che lei voleva capire cosa stesse accadendo al nostro matrimonio, ma io non potevo risponderle. Aveva perso il mio cuore a causa di un’altra donna, Giovanna!  Io ormai non amavo più mia moglie, mi faceva solo tanta pena.
 Mi sentivo in colpa, ragion per cui sottoscrissi nell’atto di separazione che a lei restasse la casa, l’auto e il 30% del nostro negozio. Lei quando vide l’atto lo strappo a mille pezzi! Come?!  Avevamo passato dieci anni della nostra vita insieme ed eravamo ridotti a due perfetti estranei?!.


A me dispiaceva tanto per tutto questo tempo che aveva sprecato insieme a me,  per tutte le sue energie, però non potevo farci nulla, io amavo Giovanna!
 All’improvviso mia moglie cominciò a urlare e a piangere ininterrottamente per sfogare la sua rabbia e la sua delusione, l’idea del divorzio cominciava ad essere realtà.
Il giorno dopo tornai a casa e la incontrai seduta alla scrivania in camera da letto che scriveva, non cenai e mi misi a letto ero molto stanco dopo una giornata passata con Giovanna.
 Durante la notte mi svegliai e vidi mia moglie sempre li’ seduta a scrivere, mi girai e continuai a dormire.

La mattina dopo mia moglie mi presentò le condizioni affinché accettasse la separazione. Non voleva la casa, non voleva l’auto, tantomeno il negozio, soltanto un mese di preavviso, quel mese che stava per cominciare l’indomani. Inoltre voleva che in quel mese vivessimo come se nulla fosse accaduto! Il suo ragionamento era semplice: ”Nostro figlio in questo mese ha gli esami a scuola e non è giusto distrarlo con i nostri problemi”. Io fui d’accordo però lei mi fece un ulteriore richiesta:  “Devi ricordarti del giorno in cui ci sposammo, quando mi prendesti in braccio e mi accompagnasti nella nostra camera da letto per la prima volta, in questo mese però ogni mattina devi prendermi in braccio e devi lasciarmi fuori dalla porta di casa”.


Pensai che avesse perso il cervello, ma acconsentii per non rovinare le vacanze estive a mio figlio per superare il momento in pace. Raccontai la cosa a Giovanna che scoppiò in una fragorosa risata dicendo: ”Non importa che trucchi si sta inventando tua moglie, dille che oramai tu sei mio, se ne faccia una ragione!”.


Era da tanto che io e mia moglie non avevamo più intimità, così quando la presi in braccio il primo giorno eravamo ambedue imbarazzati, nostro figlio invece camminava dietro di noi applaudendo e dicendo: ” Grande papà, ha preso la mamma in braccio!”.


Le sue parole furono come un coltello nel mio cuore, camminai dieci metri con mia moglie in braccio, lei chiuse gli occhi e mi disse a bassa voce: ”Non dirgli nulla del divorzio, per favore”. Acconsentii con un cenno, un po’ irritato, e la lasciai sull’uscio. Lei uscì e andò a prendere il bus per andare al lavoro.

Il secondo giorno eravamo tutti e due più rilassati, lei si appoggiò al mio petto e potetti sentire il suo profumo sul mio maglione. Mi resi conto che era da tanto tempo che non la guardavo. Mi resi conto che non era più così giovane, qualche ruga, qualche capello bianco! Si notava il danno che le avevo fatto! Ma cosa avevo potuto fare da ridurla così?


Il quarto giorno, prendendola in braccio come ogni mattina avvertii che l’intimità stava ritornando tra noi, questa era la donna che mi aveva donato dieci anni della sua vita, la sua giovinezza, un figlio e nei giorni a seguire ci avvicinammo sempre più. Non dissi nulla a Giovanna per rispetto!


Ogni giorni era più facile prenderla in braccio e il mese passava velocemente. Pensai che mi stavo abituando ad alzarla, e per questo ogni giorno che passava la sentivo più leggera. Una mattina lei stava scegliendo come vestirsi, si era provata di tutto, ma nessun indumento le andava bene e lamentandosi disse: ”I miei vestiti mi vanno grandi”. Lì mi resi conto che era dimagrita tanto, ecco perché mi sembrava così leggera! Di colpo mi resi conto che era entrata in depressione, troppo dolore e troppa sofferenza pensai. Senza accorgermene le toccai i capelli, nostro figlio entrò all’improvviso nella nostra stanza e disse: ”Papà è arrivato il momento di portare la mamma in braccio (per lui era diventato un momento basilare della sua giornata).


Mia moglie lo abbracciò forte ed io girai la testa, ma dentro sentivo un brivido che cambiò il mio modo di vedere il divorzio. Ormai prenderla in braccio e portarla fuori cominciava ad essere per me come la prima volta che la portai in casa quando ci sposammo, la abbracciai senza muovermi e sentii quanto era leggera e delicata, mi venne da piangere! L’ultimo giorno feci la stessa cosa e le dissi: ”Non mi ero reso conto di aver perduto l’intimità con te”.


Mio figlio doveva andare a scuola e io lo accompagnai con la macchina, mia moglie restò a casa. Mi diressi verso il posto di lavoro, ma a un certo punto passando davanti casa di Giovanna mi fermai, scesi e corsi sulle scale, lei mi aprì la porta e io le dissi: ”Perdonami, ma non voglio più divorziare da mia moglie. Lei mi guardò e disse: “Ma sei impazzito?” Io le risposi: ”No, è solo che amo mia moglie, era stato un momento di noia e di routine che ci aveva allontanato, ma ora ho capito i veri valori della vita, dal giorno in cui l’ho portata in braccio mi sono reso conto osservandola e guardandola che dovevo farlo per il resto della mia vita!”


Giovanna pianse mi tirò uno schiaffo e entrò in casa sbattendomi in faccia la porta. Io scesi le scale velocemente, andai in macchina e mi fermai in un negozio di fiori. Le comprai un mazzo di rose e la ragazza del negozio mi disse:  “Cosa scriviamo sul biglietto?” Le dissi: ”Ti prenderò in braccio ogni giorno della mia vita finché morte non ci separi”.

Arrivai di corsa a casa, feci le scale, entrai e di corsa, mi precipitai in camera felicissimo, col sorriso sulla bocca.  Trovai mia moglie distesa sul letto,  immobile…troppo immobile… troppo immobile per essere viva:   lei era morta!
Stava lottando contro il cancro ed io non me n’ero mai accorto:  io ero occupato a passare il tempo con Giovanna.  Lei per non farmi pena, non me lo aveva detto, sapeva che stava per morire e per questo mi chiese un mese di tempo. Sì, un mese  affinché a nostro figlio non rimanesse un cattivo ricordo del nostro matrimonio, affinché nostro figlio non subisse traumi, affinché a nostro figlio rimanesse impresso il ricordo di un padre meraviglioso e innamorato della madre.”


“Non  diamo il giusto valore a cio' che abbiamo fino a quando non lo perdiamo”.

lunedì 28 gennaio 2013

AI PIEDI DEL...




Ai piedi dell’invidia per gridare come ingiustamente siamo stati trattati,
in verità, per far sentire tutti gli altri, Dio compreso, ingiusti e cattivi.


Ai piedi del giudizio per dimostrare di avere ragione e avere l’appoggio degli altri, 
in verità, per far sentire gli altri in torto, e togliere loro il consenso. 


Ai piedi dell’ambizione per essere ciò che gli altri non sono,
in verità, per impedire agli altri di essere quello che potrebbero essere.


Ai piedi del passato per ripetersi come sarebbero dovute andare le cose,
ai piedi del futuro per ripetersi come dovrebbero andare le cose,
in verità, per pensare male di Dio, della vita, di se stessi e degli altri, e per non vivere il presente.


Ai piedi della competizione per avere successo e gratificazione,
in verità, per togliere successo e gratificazione agli altri.


Ai piedi della gara per avere l’elogio e il primo posto,
in verità, per togliere elogio e primo posto agli altri.


Ai piedi dell’avidità per avere la soddisfazione di avere tutto,
in verità, per avere la soddisfazione di togliere tutto agli altri.


Ai piedi del possesso per avere spazio dentro gli altri,
in verità, per togliere spazio agli altri e assoggettarli a noi.


Ai piedi della sete di dominio per avere potere,
in verità, per togliere potere agli altri.


Ai piedi delle aspettative altrui per avere legittimazione dagli altri,
in verità, per assicurarsi l’eredità dello spazio altrui.


Ai piedi della ricchezza perché nulla manchi,
in verità, perché manchi ogni cosa agli altri.


Ai piedi del lusso per avere il riconoscimento e lo sguardo degli altri,
in verità, per distogliere il riconoscimento e lo sguardo degli altri dagli altri.


Ai piedi della morale e della legge per ottenere l’omologazione degli altri,
in verità, per togliere loro il premio e la ricompensa. 


Ai piedi della reputazione per ottenere l’approvazione, l’apprezzamento degli altri,
in verità, per togliere agli altri l’approvazione, l’apprezzamento da parte degli altri.


Ai piedi della prepotenza per ottenere tutto senza chiedere, 
in verità, per togliere agli altri la possibilità di dissentire. 


Ai piedi della violenza per sentirsi forti e onnipotenti, 
in verità, per far sentire gli altri deboli e inermi. 


Ai piedi della rabbia per far comprendere la gravità della ferita ricevuta, 
in verità, per far sentire gli altri insensibili, incapaci di capire e comprendere. 


Ai piedi dell’egoismo per fare quello che interessa e che fa comodo, 
in verità, per far fare agli altri quello che ci interessa e ci fa comodo. 


Ai piedi dei legami, degli affetti, delle relazioni familiari per non sentirsi soli,
in verità, per creare dipendenza e sottomissione.


Ai piedi dell’ego per avere tutto e ogni cosa,
in verità, per togliere tutto e ogni cosa agli altri.

È tutto un gettarsi ai piedi di qualcosa e di qualcuno per ottenere qualcosa o qualcuno.

Dopo aver provato che gettarsi ai piedi di qualcosa e di qualcuno non comporta alcun vantaggio reale per la vita, sperimentabile in gioia, felicità, pace, benessere veri, la vita dell’uomo è diventata tutto un gettarsi ai piedi di chiunque e di qualsiasi cosa per togliere agli altri ciò che non riesce a ottenere per sé.
Tutto quello che l’uomo,  gettandosi ai piedi dell’ego, compie per ottenere tutto e ogni cosa, in verità lo fa per togliere tutto e ogni cosa agli altri.



Fonte: tratto da http://www.peopleinpraise.org;  del 24 gennaio 2012