lunedì 31 dicembre 2012

MARIO MONTI - WEIMAR RELOADED


Heinrich Brueningr-Mario Mmonti

Di Maurizio Blondet


Articolo di Maurizio Blondet tratto da EFFEDIEFFE.COM cui consiglio caldamente l’abbonamento (50€ per un intero anno di informazione fuori dai media mainstream.)

Lo scorso 14 dicembre il nostro ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, è volato a Washington ad incontrare il suo pari grado, Tim Geithner, e «investitori» finanziari non meglio identificati. Ad essi, secondo Il Corriere, Grilli ha spiegato il piano del governo Monti per ridurre un poco il debito pubblico, che Monti ha continuato a far salire rispetto al PIL, inarrestabile. Il calo del PIL (e non le tasse, secondo Grilli) ha fatto sì che esso si divaricasse dal debito: quello scende e, per forza, questo sale. La soluzione è aumentare il PIL «nominale», cioè quello reale più l’inflazione (che è al 2%, secondo loro), per far convergere le due entità. Come fare? Tranquilli, ha detto Grilli ai finanzieri esteri: «Il continuo aumento della disoccupazione spinge chi cerca un posto ad accettare compensi sempre minori pur di lavorare, ridando così un po’ di competitività di prezzo alle imprese»Le imprese italiane potranno dunque «ridurre i costi… del lavoro» (Il Tesoro e la via anti-debito).

Ecco dunque il progetto di «rilancio» e «crescita» di Monti (e di Bersani poi, per cui Monti è «un punto di non ritorno»): nessuna liberazione delle imprese dallo strangolamento della burocrazia pletorica inadempiente, nessun taglio ai «costi della politica»; niente blocco degli statali e dei loro stipendi, già il 15% superiori a quelli privati; niente fiscalità che non sia persecutrice di chi produce, nessun taglio agli statali di lusso con stipendi miliardari. Quello che vuol ridurre, il governo, sono i salari privati, ossia di quelli che producono, non dei parassiti. Mettendo in competizione gli occupati con i disoccupati, costretti ad «accettare compensi sempre minori».

A parte l’odiosità morale, è il caso di avvertire che proprio questa «soluzione» fu quella che stroncò definitivamente l’economia della repubblica di Weimar (1919-1933), e fece sì che i tedeschi votassero il NSDAP e la facessero finita col liberismo. Non fu infatti l’iper-inflazione, come alcuni credono, a provocare il rigetto della democrazia; l’inflazione tedesca, benché atroce per la classe media, era già finita nel 1923, e l’istituzione pluralista durò ancora 10 anni. A provocare il tracollo fu invece la deflazione, unita alla recessione, provocata da programmi di «austerità» rigorosi secondo l’ortodossia liberista, e infine il taglio dei salari privati ordinato per decreto dal cancelliere Heinrich Bruening.

I punti di contatto fra la repubblica italiana d’oggi, e fra Monti e Bruening, sono così numerosi da inquietare. Andiamo per ordine:

Fu la prima globalizzazione (1919-1929): vigeva il Gold Standard, il che significa: negli scambi internazionali si usava una moneta comune globale: l’oro, e le monete in quanto erano agganciate all’oro con cambio fisso. Una volta domata l’inflazione, la Germania – sconfitta nella Prima Guerra Mondiale – riagganciò il marco all’oro, e conobbe una rapida ripresa.
Crescita drogata da grandi prestiti USA: la Germania era stata condannata a pagare colossali «riparazioni» a Francia e Gran Bretagna perché bollata dalla «comunità internazionale» (la conosciamo bene anche oggi) come colpevole della Grande Guerra. Tutti gli anni avrebbe dovuto versare 2,5 miliardi di marchi oro fino al 1929 (piano Dawes), poi 37 versamenti di 2,05 miliardi di Reichsmark, poi altri di 1,65 miliardi di marchi fino al… 1988 (piano Young). Berlino non ce l’avrebbe mai fatta, se il governo americano (appunto Dawes e Young, banchieri-politici USA) non avesse fornito altrettanto enormi crediti.

Tanta generosità non era disinteressata, e fruttava grassi profitti. Gli USA avendo venduto forniture belliche gigantesche agli Alleati durante la guerra europea, erano divenuti i grandi creditori del mondo, e Fort Knox traboccava di oro affluito dai Paesi debitori (che erano poi gli alleati; ma gli affari sono affari). Il Gold Standard obbligava a moltiplicare di altrettanto i dollari: un mare di liquidità in eccesso stava per abbattersi sull’economia USA, che già subiva la recessione inevitabile una volta finita la super-produzione bellica. La Federal Reserve e i banchieri USA impedirono tale effetto abbassando artificialmente i tassi – la stessa cosa fatta da Greenspan negli anni ’90, e da Bernanke poi – ed incitando all’esportazione di dollari: come nella storia dei petrodollari degli anni ’70, esportarono così la loro inflazione all’estero.

Assoluta libertà di circolazione dei capitali: questa fu la decisione decretata da Washington e da Londra, potenze vincitrici. I capitali americani, poco remunerati in patria, affluirono in Germania. Nel 1925, il tasso di sconto della Federal Reserve era del 3%; in Germania, era sul 10%. Negli anni seguenti, la remunerazione del capitale investito in USA fu sul 4%, in Germania spuntava l’8%. Il doppio.

Pura finanza speculativa, perché basata su un circolo vizioso finanziario: i capitalisti USA si facevano prestare dalla FED al 4%; con questa liquidità indebitavano i tedeschi all’8%, e con questi prestiti i tedeschi pagavano le riparazioni a francesi e inglesi. Come «garanzia» per i generosi prestiti, furono ipotecate la Reichsbank (la Banca Centrale), le Reichsbahn (le ferrovie nazionali), i diritti di dogane e l’imposta sui consumi.
Ma una parte delle riparazioni doveva essere pagata in merci e beni: e dunque parte dei prestiti USA andarono anche a finanziare l’industria tedesca.
La repubblica di Weimar piaceva all’alta finanza USA come uno Stato «business friendly»: le dava le due garanzie che il liberalismo capitalista desidera in un Paese per investire, il «mercato» e la «democrazia». E inoltre, i salari tedeschi erano bassi – milioni di soldati smobilitati cercavano un lavoro a qualunque prezzo – e i bassi salari stimolano sempre gli investimenti industriali: come abbiamo visto fino ad oggi in Cina.

Bolle finanziarie: il risultato di tanto denaro a disposizione provocò oltre ad un surriscaldamento industriale, gigantesche «bolle». Rapidamente, i terreni e i fabbricati rincararono del 700% a Berlino, e del 400% ad Amburgo. I giornali seguaci del liberismo (perché pagati dai capitalisti) lanciarono una campagna per «liberalizzare gli affitti». Gli affitti erano stati bloccati durante la guerra; ma ormai era «ingiusto», dicevano i media, visto che gli immobili si erano tanto apprezzati, che essi rimanessero fermi. Una legge sbloccò gli affitti, che crebbero immediatamente del 125%. A pagarli erano soprattutto gli operai, appena urbanizzati, risucchiati nelle metropoli dall’industria assetata di manodopera. Berlino passò da 2 a 6 milioni di abitanti, e gli alloggi non bastavano mai. I padroni immobiliari erano quelli che guadagnavano.

Anche a spese delle industrie, che pagavano di più affitti e mutui e fidi per i fabbricati industriali. «L’economia era sempre più dipendente dal capitale estero; il peso degli interessi continuava a crescere (…) I crediti esteri erano per lo più a breve, ma erano piazzati in investimenti a lungo termine, sicchè la minima crisi economica presso i creditori avrebbe avuto conseguenze gravissime per la repubblica» (così lo storico Horst Moeller).
Allora la crisi fu quella del 1929, che da un giorno all’altro lasciò l’economia germanica a secco di capitali americani. Oggi è stata la crisi dei sub-prime in USA, che ha destabilizzato il sistema bancario globale, rivelandone l’insolvenza.

Ma intanto, tra il 1925 e il ’29, l’economia cresceva trionfalmente. Erano Die Goldener Zwanziger, i dorati anni ’20 immortalati dalle vignette di Grosz, coi ricconi grassi in cilindro, sigaro e frac che palpano puttanelle (figlie della classe media rovinata) nei cabaret. Gli industriali tedeschi rispondevano al peso crescente degli interessi passivi e dei costi da «bolla» sui fabbricati, creando un apparato industriale ad alta intensità di capitale, in modo da risparmiare sui salari.

«Le industrie smantellavano le vecchie fabbriche e le rimpiazzavano coi più nuovi macchinari. La Germania stava diventando il Paese industriale più avanzato del mondo, più degli stessi Stati Uniti (…) l’intero sistema ferroviario fu rinnovato…». Così Bruno Heilig, giornalista ebreo dell’epoca, che scampò nel 1938 a Londra (Bruno Heilig, “Why the German Republic Fell”).

Non mi dilungherò sulle «privatizzazioni» scandalose e truffaldine che allora prosperarono. Mi limito a citare il nuovo porto sulla Sprea, che il municipio di Berlino rammodernò spendendo milioni di marchi, attrezzandolo di gru e magazzini (era il porto che serviva il rifornimento della capitale) e che poi fu ceduto a due privati – con l’argomento che la mano pubblica non poteva gestirlo «con efficienza e profitto» .  Il consorzio privato, Schenker & Busch, pagò 396 mila marchi – unico pagamento per 50 anni di affitto (il solo prezzo d’affitto del nudo terreno del porto sarebbe stato di 1 milione di marchi l’anno) e per giunta si fece dare dal comune un prestito di 5 milioni di marchi come capitale operativo. L’alto funzionario pubblico responsabile del progetto, e che aveva poi consigliato la privatizzazione, lasciò l’impiego pubblico e fu assunto da Schenker & Busch con uno stipendio principesco. Intanto «i lavoratori berlinesi, già aggravati dal rincaro delle pigioni, pagavano un tributo a quei privati per ogni pezzo di pane che mangiavano» (Heilig).

La crescita a credito cominciava a perdere colpi. Gli interessi sui debiti degli industriali crescevano, crescevano i costi degli affitti e dei macchinari. Ma per qualche anno «ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori» (Heilig). È significativo che anche durante il boom dei Venti Dorati, i disoccupati restarono tanti, si mantennero sui 2 milioni. Tanto meglio, per gli industriali: manodopera a basso costo. E coi «risparmi» sui salari, comprarono macchinari ancora più efficienti onde aumentare la produttività. Così gli aveva insegnato il liberismo anglosassone. E i tedeschi sono allievi-modello.

L’altra faccia della produttività. Accadde quello che sempre accade quando si retribuisce troppo il capitale (i banchieri, essenzialmente) e poco il lavoro: le merci, prodotte in quantità sempre maggiore, non trovano acquirenti, perché i consumatori (che sono i lavoratori) hanno perso potere d’acquisto.

Gli imprenditori corsero ai ripari applicando i dettami del liberismo americano appena appreso. Nel 1931, ridussero la quantità di merci prodotte, sperando con ciò di sostenerne i prezzi. Ma così facendo «interessi, tasse, ammortamenti ed affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni beneIl costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti, fino a divorarli» (Bruno Heilig).

Quali misure vennero prese? Altri licenziamenti in massa. Ovviamente, «per ogni lavoratore licenziato era un consumatore che scompariva», ha scritto Heilig, sicché i datori di lavoro «ne ebbero ben poco sollievo».

Già. A far colare a picco le imprese erano i «costi non comprimibili», non già il costo del lavoro; ma questo era il solo ritenuto «comprimibile» – e fu compresso senza pietà. Furono i costi incomprimibili, nel corso del 1931, a rendere insolventi sempre più imprese. Gli interessi sui debiti diventarono impagabili, e non furono più pagati. Con l’insolvenza dei debitori-imprenditori, cominciarono a fallire le banche.

Il cancelliere Heinrich Bruening, salito al potere nell’ottobre ‘31, spese miliardi di marchi (dei contribuenti) per «salvare le banche», applicando da allievo modello i dettami del liberismo anglosassone. Come oggi, quando sono le banche a crollare per i loro investimenti sbagliati, il «mercato» viene sospeso, e invece di lasciarle fallire, si invoca la mano visibile dello Stato, l’intervento pubblico a loro favore.

Non bastò, ovviamente. Allora Bruening, che ormai gestiva l’economia a forza di decreti d’autorità, lanciò una politica di austerità e rigore, tagli di bilancio, deflazione deliberata. Il cancelliere «ascoltava i funesti consigli del dottor Sprague, l’emissario della Bank of England. Il quale naturalmente voleva la continuazione della politica di deflazione ad ogni costo; deliberata per mantenere il valore dei fantastici investimenti della City in Germania» (Robert Boothby: Recollections of a Rebel, 1978).

Anche oggi, il rigore e la deflazione decretati da Mario Monti sono nel solo interesse dei grandi creditori internazionali, che vogliono mantenere il «valore dei loro investimenti». Proprio di questo il nostro (loro) Grilli è andato a rassicurare gli investitori americani che creerà «crescita» tagliando i i salari.

Nel 1931, Bruening fece lo stesso:
per decreto, ordinò una riduzione generale dei salari del 15%.

Nella sua teoria, riteneva che riducendo il potere d’acquisto del lavoratori, si sarebbe prodotta di conseguenza una riduzione dei prezzi. Il «prezzo umano», la messa alla fame dei lavoratori e delle loro famiglie, non gli sembrò indegno d’esser pagato.

La massa salariale prima del 1929, ossia nel boom liberista, ammontava a 42,4 miliardi di marchi. Durante il cancellierato Bruening scese a 32 miliardi (il Terzo Reich la fece risalire, nel 1937, a 48,5 miliardi).

Ovviamente, il drastico taglio dei salari non funzionò come sperava Bruening, anzi accelerò il tracollo. Come abbiamo visto, i prezzi delle merci erano determinati da fattori ben diversi che dalle paghe: dai costi incomprimibili, dal servizio del debito, dagli indebitamenti per comprare suoli sopravvalutati dalla bolla. Bruening avrebbe dovuto agire su quelli. Non lo fece.

I disoccupati salirono a 7 milioni: un terzo della forza-lavoro nazionale; a cui si dovettero aggiungere «i «disoccupati parziali», part time e precari, altri milioni non censiti.

«L’apparenza di prosperità economica degli anni Venti si rivelava ingannevole. Quando la crisi americana del 1929 e la poca fiducia nella stabilità economica e politica di Weimar spinsero (gli stranieri) a ritirare i crediti, l’economia tedesca collassò… La generazione giovanile si vide privata di possibilità professionali, economiche e sociali; era sradicata e si sentiva derubata dell’avvenire». (Moeller). «La classe media (era) spazzata via: questa la situazione ad un anno dall’apice dalla prosperità» (Heilig).

In quell’anno, il numero dei deputati nazisti al Reichstag passò da 8 a 107. Avevano votato per loro 13,4 milioni di tedeschi; il 60% erano persone che prima non avevano votato, astenendosi. Nel gennaio 1933, divenne cancelliere Adolf Hitler
E cominciò la ripresa, usando ricette contrarie a quelle del liberismo (1).

Oggi, i poteri forti – che hanno la memoria lunga – hanno agito d’anticipo, di fatto favorendo un colpo di Stato dall’alto in Italia, svuotando di senso le votazioni; hanno accelerato la creazione della giunta oligarchica a livello europeo, in modo – mentre cadono a picco tutti i dati dell’economia reale – da prevenire una deriva «populista» della volontà popolare, che scalzi il loro potere come avvenne «allora».

1) Bruening se ne andò in USA, dove fu accolto a braccia aperte dall’Università di Harvard. Vi restò come docente di politica liberista fino al 1951.

Fonte: da Stampa libera del  28 dicembre 2012
Fonte: EFFEDIEFFE.com  del 31 dicembre 2012

domenica 30 dicembre 2012

PROVE INVALSI 2011: I RAGAZZI MIGLIORANO IN MATEMATICA QUELLI PIÙ BRAVI SONO NEL NORDEST




RISULTATI DELLE PROVE INVALSI 2011:  BENE I RISULTATI DEGLI IMMIGRATI DI SECONDA GENERAZIONE

I ragazzi migliorano in matematica. 
Quelli più bravi sono nel Nordest. Le valutazioni meno incoraggianti in Calabria e Sicilia.  Ma in altre regioni del Sud ci sono segnali di recupero

ROMA - Ci sono eccezioni, specie all'inizio della carriera scolastica, quando le abitudini della famiglia pesano più di quanto si impara in classe. In seconda elementare, ad esempio, i bambini più bravi in matematica sono quelli delle Marche e della Basilicata, mentre in italiano vanno forte quelli del Lazio e dell'Umbria. Ma poi - con il trascorrere degli anni, passando alle medie e alle superiori - i colori sulla cartina dell'Italia diventano definiti, netti, stabili. E i risultati migliori li raggiungono gli studenti di Veneto e Friuli Venezia Giulia, quelli peggiori i ragazzi siciliani e anche quelli della Calabria, dove probabilmente le pagelle andrebbero ritoccate al ribasso visto che «si riscontrano alcune evidenze di cheating», termine tecnico per indicare le copiature di massa. Ma se la classifica generale è sempre quella (Nord, poi il Centro, in fondo il Sud), dal Mezzogiorno arrivano segnali di recupero, soprattutto dalla Puglia ma anche da Abruzzo e Basilicata.

Sono ricchi di numeri e tabelle i risultati dei test Invalsi (l'Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) pubblicati ieri. Si tratta delle prove che tanto hanno fatto discutere a maggio con le proteste di una parte di studenti e insegnanti. Prove standard, cioè uguali in tutte le scuole d'Italia, con l'obiettivo di misurare il livello degli studenti a prescindere dal variabile metro di giudizio dei loro insegnanti.

Queste tabelle non ci dicono perché gli studenti sono più bravi in alcune Regioni che in altre. Non spiegano se dipende dai ragazzi, dai professori o da altro. Ma fotografano lo stato dell'arte, confermando che le ragazze vanno meglio in italiano e i ragazzi meglio in matematica. Che tutti, maschi e femmine, rispondono bene quando si tratta di usare il dizionario, mentre zoppicano se devono maneggiare punteggiatura e tempi dei verbi, che migliorano in matematica ma faticano in geometria.

Le analisi dell'Istituto nazionale di valutazione ci dicono anche che gli immigrati di seconda generazione, cioè nati in Italia, raggiungono un livello abbastanza vicino a quello dei loro compagni di classe con la cittadinanza italiana. Non è un caso se le Regioni in cima alla classifica, come Veneto e Friuli, sono anche quelle dove ci sono più immigrati, con il 13% degli studenti. E le differenze fra licei e istituti tecnici? Naturalmente restano ma per la matematica, almeno nelle Regioni settentrionali, i risultati sono «sostanzialmente equivalenti». Un dato - sottolineano al ministero dell'Istruzione- che «smentisce la presunta maggiore efficacia dei licei rispetto all'istruzione tecnico professionale».

Secondo Roberto Ricci, che all'Invalsi è il responsabile del servizio nazionale di valutazione, c'è un altro dato significativo: «Il calo delle mancate risposte, segno che i ragazzi si stanno abituando a questo tipo di rilevazione». Considerando solo le risposte aperte - quelle in cui bisogna scrivere e non barrare la casella giusta - sono scese dal picco del 27% dell'anno scorso ad una media del 10%, considerata fisiologica. Una cattiva notizia, invece, è che resta una grande differenza tra scuole buone e scuole cattive, fenomeno più evidente che in altri Paesi dove bravi e somari si distribuiscono più equamente. «Puntiamo con decisione sulla valutazione, così come nei migliori sistemi scolastici» dice il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, che parla di risultati «incoraggianti» che arrivano dal Sud. Secondo il ministro si tratta «dell'unico percorso in grado di modernizzare il nostro sistema, ed è un percorso lungo ma necessario». L'anno prossimo i test Invalsi riguarderanno le stesse classi coinvolte finora, seconda e quinta elementare, prima e terza media, seconda superiore. Sarà sperimentale alla Maturità, diventerà stabile dal 2013.


Fonte: srs di Lorenzo Salvia, da Il Corriere della Sera del  
28 luglio 2011


Il commento


MA ATTENTI AI COPIATORI  IL RECORD IN CALABRIA


La buona notizia è che anche in Italia si sta diffondendo la cultura dei test, come dimostrato dal fatto che aumentano gli studenti che argomentano le risposte invece di rispondere alle domande dove devono solo «mettere la crocetta». La cattiva è che la riduzione del fenomeno del «cheating» (barare, copiando e suggerendo) dichiarata dal ministero vale solo per i 40 mila studenti del campione che avevano un «osservatore» esterno. Per i 3 milioni che non lo avevano non c' è nessuna garanzia che i dati siano veri e, purtroppo, la storia passata sembra indicare che il «cheating» abbonda, soprattutto al Sud (l' Invalsi evidenzia che la «pecora nera», la Calabria, continua ad esserlo anche in presenza di osservatori): gli italiani, soprattutto al Sud, non hanno ancora capito che si rispettano le regole perché conviene e non per ragioni morali.
La notizia peggiore è che non si è ridotta la spaventosa ineguaglianza, soprattutto tra Nord e Sud.  Al Nord i risultati al liceo e agli istituti tecnici sono simili tra loro in matematica (la qualità della didattica è più importante che per l' italiano) e superiori ai licei del Sud. La scuola al Nord riduce i privilegi della nascita. Cosa che non fa al Sud: i privilegiati che vanno al liceo hanno risultati peggiori di chi va all' istituto tecnico al Nord. E non sembra un «problema del meridione», Puglia e Abruzzo migliorano.
La vera pessima notizia è che il contesto sociale di provenienza conta poco perché nelle elementari le differenze tra Nord e Sud sono basse, aumentano alle medie e soprattutto al liceo. Cosa vuole dire? Che la qualità dell' insegnamento è peggiore e che le pari opportunità continuano a fermarsi a Roma. Molto da fare per chi si propone di migliorare la qualità della scuola italiana.


Fonte: srs di ROGER ARRAVANEL, da Il Corriere della Sera del  
28 luglio 2011



sabato 29 dicembre 2012

IL TITOLO DI PONTIFEX MAXIMUS PASSÒ NEL 376 DAGLI IMPERATORI ROMANI AL VESCOVO DI ROMA


Augustus as pontifex maximus

La carica di Pontefice massimo, anche se di carattere più che altro rappresentativo, era il massimo grado religioso al quale un romano poteva aspirare, secondo la tradizione istituita da Numa Pompilio.
Nella Roma repubblicana, nel 253 a.C. abbiamo notizia dell'istituzione del Pontifex Maximus. Sebbene già 712 a.C. - Numa Marcio, secondo altre fonti lo stesso Numa Pompilio fossero stati legati a questa carica.
Anche il Grande Cesare nel 63 a.C. assunse il titolo di Pontifex Maximus rifiutando quello di Imperatore, che poi fu prerogativa dei grandi Imperatori Romani. Questo titolo fu poi assunto dai papi.
Con la rinuncia del titolo da parte dell'Imperatore Graziano nel 376,  la carica di pontefice massimo non fu più assunta da nessun imperatore, il titolo di Pontifex maximus fu assunto dai vescovi di Roma.

IL COSTRUTTORE DI PONTI

Il pontefice era un sacerdote della Religione romana. L'etimologia della parola pontifex (pontem facere) significa "costruttore di ponti", è erroneamente attribuito al fatto che in Grecia ci fossero i sacerdoti gephyraei, con lo stesso significato di "costruttore di ponti". Il che deriverebbe dal fatto che in Tessaglia le immagini degli Dei venissero poste sopra il ponte sul fiume Peneus.  I gephyraei erano una famiglia, forse un clan, e non una casta. Inoltre i sacerdoti greci adoravano Dei sul ponte, non costruivano ponti.
Viceversa l'arte di costruire ponti, che i Romani appresero dagli Etruschi, perchè i Romani non conoscevano l'arco ma gli Etruschi si, era considerata un'arte sacra, segreta e tramandata attraverso una casta, un po' come i costruttori delle cattedrali gotiche nella Francia medievale.............


Fonte: da Luigi Pellini del  3 dicembre 2012

venerdì 28 dicembre 2012

SIRIA: LA “STRAGE DEL PANE A NATALE”:




DI MARINELLA CORREGGIA


E’ troppo chiedere ai media di analizzare le denunce e i materiali video che ricevono, facendosi le classiche domande: chi, come, se, perché, cui prodest eccetera? Non lo hanno fatto, né in Italia né all’estero, di fronte alla cosiddetta “strage del pane” ad Halfaya, Siria, 23 dicembre 2012: “Mig di Assad uccidono trecento persone mentre in mille facevano la fila per il pane”. Gli oppositori dell’Osservatorio siriano per i diritti umani basato a Londra e dei Comitati di coordinamento locali hanno diffuso video che proverebbero un bombardamento dell’aviazione siriana (Mig russi) contro mille civili in coda per il pane ad Halfaya. Perché? Per ritorsione contro l’avanzata dell’opposizione armata, sostengono i media. 

Mandare un aereo a massacrare per ritorsione persone inermi affamate e per di più intorno a Natale, sarebbe non solo un atto diabolico ma anche suicida. Quel che ci vuole per tirarsi addosso l’ira armata del mondo, alienandosi anche chi continua a sostenere il negoziato anziché interventi militari.

Tanto più che in Siria e dunque nel mondo infuria quel che l’emittente Russia Today ha definito guerra chimica delle parole (con governo e gruppi armati a reciprocamente accusarsi dell’uso di armi vietate; ma solo le accuse dei gruppi armati sono tenute per buone). E tanto più che nello stesso giorno arrivava a Damasco l’inviato dell’Onu Lakdar Brahimi per parlare con il presidente Assad.

Eppure le notizie e i video sul 23 dicembre sono ripresi da tutti i media internazionali – e italiani – esattamente nella versione proposta dall’opposizione, senza avanzare dubbi di natura giornalistica sulle “prove video” le quali mostrano molte contraddizioni e nulla rivelano sui colpevoli, né sulla dinamica.

L’unica cosa certa, come per tantissime immagini e notizie su questa orrenda guerra fomentata, è che ci sono morti.

LA GUERRA MEDIATICA NON SI CHIEDE “CHI COSA COME PERCHE’”

Madrina della “notizia” è stata la tivù satellitare saudita al Arabiya, con la cifra di 300 uccisi che ha rotto ogni argine nella diffusione della notizia. La tivù saudita non è nuova agli exploit: nel febbraio 2001 un suo twitter lanciò la enorme e tragica bufala dei “diecimila morti in Libia”, una strada senza ritorno. Nel poco tempo in cui l’ Ansa ha dato per certo il numero di 300 morti la notizia – poi ridimensionata, questa è stata posta in testa alla home page del sito, dopo il ridimensionamento è tornata in una posizione meno visibile. Poche ore dopo, l’emittente qatariana al Jazeera metteva in evidenza la denuncia di “attivisti” di Homs per i quali sette persone sarebbero morte per aver inalato un gas sconosciuto.

In questi giorni, è una coincidenza?  I paesi del Golfo si sono incontrati e hanno parlato anche di Siria. Inoltre, nei giorni festivi o prefestivi ci sono meno notizie, addirittura mancano i quotidiani (a ferragosto e natale), le agenzie staccano almeno per qualche ora completamente. Quindi le notizie hanno una “persistenza” molto maggiore. Insomma una notizia in un giorno del tipo ferragosto, Natale, capodanno, può avere un impatto molto superiore a una notizia analoga uscita in un giorno feriale qualsiasi.

Oltre a ciò i media, non solo italiani, prendono per buone le denunce dell’opposizione senza cercarne le prove.

Per il Tg3: “Novanta morti secondo fonti ufficiali, oltre 300 secondo il canale satellitare al Arabiya”. Per il Tg3, dunque, “ufficiale” è la fonte dell’Osservatorio siriano di Londra.

Surreale anche il Fatto quotidiano (versione stampata) del giorno 24 dicembre: “Nessuno si aspettava che lo spietato regime siriano avrebbe fermato i suoi jet carichi di bombe e il lancio di scud, per concedere ai cittadini siriani di fede cristiana di prepararsi al Natale” (eppure, come tutti sanno, i cristiani in Siria sono nel mirino non dei Mig e degli Scud ma dei gruppi armati dell’opposizione islamista). Il Fatto online cita l’emittente saudita, con le sue fonti: testimoni oculari e attivisti anti-regime dei comitati locali (Lcc) e dall’Osservatorio per i diritti umani.

Qualche richiamo internazionale. Dall’agenzia Reuters: “Decine di persone uccise e molte altre ferite in un attacco aereo governativo contro una panetteria, domenica, secondo gli attivisti” (…); “se confermato, l’attacco ad Halfaya, presa dai ribelli la settimana scorsa, sarebbe no egli attacchi aerei più mortali nella guerra civile in Siria”. Come prova si citano i video e un “attivista” locale: “Quando sono arrivato sul posto c’erano pile di corpi a terra, e fra questi donne e bambini” (NB. L’attivista non parla di aerei) (…) “I residenti di Halfaya parlano di 90 morti, l’Osservatorio di Londra di 60”. 

Cifre in libertà anche sulla Cnn (che almeno fin dal titolo precisa che è una denuncia dell’opposizione): secondo i Comitati di coordinamento locale – che riforniscono di notizie l’Osservatorio a Londra – “sono state uccise oltre 100 persone ma il numero è destinato a salire; un attivista ha visto la sepoltura di almeno 109 persone”. (…) L’attivista locale – sono sempre chiamati attivisti anche gli armati – spiega che “gli addetti dell’ospedale hanno dichiarato che l’area del panificio non era raggiungibile” (NB. Come mai se Halfaya è nelle mani dei gruppi armati?). Subito dopo lo stesso attivista sostiene che “gli ospedali non riescono a curare tutti i feriti”.

Ma le contraddizioni sarebbero state molto maggiori se i media si fossero dati la briga di analizzare per bene i video portati come prova…

LE SMENTITE IGNORATE

Naturalmente quasi nessuno riporta la smentita del governo di Damasco, veicolata dalla agenzia Sana. Eccola, per un po’ di par condicio: “Gruppi terroristi hanno attaccato la cittadina di Hilfaya e commesso crimini contro la popolazione (…) per poi girare video in modo da accusare l’esercito siriano di questi crimini. Residenti di Hilfaya hanno accusato i gruppi armati di aver attaccato il dispensario e la municipalità” (NB. Un video mostra armati trionfanti sui tetti di questi edifici). “Gli abitanti hanno detto di aver chiamato l’esercito il quale ha affrontato i terroristi eliminandone un gran numero”.
La Syrian Tv ha analizzato i video sottolineando le incongruità nelle denunce verbali che accompagnavano le immagini e le non corrispondenze fra lo stato e il numero dei corpi (e l’essere questi tutti uomini) e la denuncia di un massacro per via aerea su una folla enorme di donne e bambini.

ANALISI DEI VIDEO. COSA E’ SUCCESSO DAVVERO AD HALFAYA, E NON SOLO ?

Gruppi di persone sparse in diversi paesi (Siria inclusa) si sono permesse il lusso di ignorare entrambe le versioni (essendo esse di parte) e di studiare i video. Tutte le loro versioni – e il buon senso – concordano nel dire che a) i video non sono credibili perché sono contraddittori, b) i video non portano alcuna prova sul colpevole e sulle circostanze.
Ci soffermiamo su questi due link:


Rileviamo quanto segue.
- Non c’è traccia di passaggio di aerei e nessun segno che possa indicare chi ha sparato e in quale circostanza e contro chi.
- Non ci sono donne e bambini fra gli uccisi, i quali ultimi sembrano meno numerosi di quanto denunciato.
- Nessun indizio per capire che si tratti di un panificio, anzi… un particolare mostrerebbe la messinscena: nel video un uomo depone per terra un pane tondo tradizionale, sul sangue. Per mostrare al mondo che si trattava di una panetteria? Poco dopo un’altra mano raccoglie il pane. Ma come ha tradotto il Tg1 della Rai sul suo sito? “Uno scatto fra gli altri testimonia la strage, quello di un ribelle che raccoglie una tradizionale pita, il pane siriano, da una pozza di sangue”. A conclusioni simili sono arrivati anche gli attivisti europei di Mediawerkgroep Syrië


l’analisi del sito siriano Syriatruth che non è governativo né sostiene l’opposizione armata: “Anche volendo trascurare la solita “coincidenza” tra la strage e l’arrivo di Brahimi a Damasco, da una prima analisi dei filmati emergono alcune incongruenze rispetto alle notizie poi diffuse: – non si vedono donne o bambini, eccetto una donna e un ragazzo, forse solo dei passanti; e tutte le vittime sono uomini adulti.

- Il numero massimo delle vittime dovrebbe essere tra i 20 e i 30 (cifra ben distante dai 90 di cui si parla, figuriamoci dai 300!).
Se i primi due elementi possono ridimensionare la tragedia, ma non diminuirne la gravità, il terzo sembra più significativo:

- dalle immagini non risultano macerie tali da far pensare a un bombardamento aereo, non ci sono tracce dell’impatto della bomba o missile lanciato dal presunto Mig, ma solo un foro sull’edificio e rovine di piccola entità, più facilmente riconducibili a un ordigno di modesta portata. Questo particolare genera un altro quesito: da dove arrivano le macerie visibili sotto l’edificio? Non certo dall’unico foro che sembra visibile.

- Ulteriore interrogativo: se, come si racconta, sono state colpite delle persone in fila per il pane, perché si vedono solo corpi al di fuori della struttura e l’interno non è quasi inquadrato? E come mai è ancora quasi perfettamente integro?

- Un altro particolare riguarda la data: in un video più volte si ribadisce che è sabato 21 dicembre; mentre in un altro si parla del 23 dicembre.

- Il luogo, poi, è pieno di gruppi armati, alcuni in uniforme, altri in abiti civili, ma comunque armati (in una scena è chiaramente visibile che uno di loro toglie un kalashnikov dalle mani di un cadavere)”.

Non si sa dunque cosa sia successo. Le ipotesi sono diverse e nessuna per ora verificabile, ma la più assurda è proprio che un Mig bombardi sotto gli occhi del mondo mille persone in fila per il pane. Le vittime potrebbero essere come in altri casi (ad esempio il “massacro di Tremsheh”), membri di gruppi armati utilizzati per creare un altro possibile casus belli contro il governo siriano. Il sito potrebbe in effetti essere stato bombardato dall’esercito, negli scontri che avvengono quotidianamente con l’opposizione armata, in ambito anche urbano, là dove la guerra è stata portata. Poiché non ci sono prove che fosse un centro per la distribuzione del pane al momento della tragedia, potrebbe essere stato uno spazio preso dai gruppi armati per fabbricare esplosivi ed essere esploso. C’è poi chi (come la radio Irib) sostiene che potrebbe essersi trattato di un colpo portato da una delle fazioni dell’opposizione all’altra, piazzando un ordigno in piena città. Non si sa. Quel che è certo è che a causa della guerra, delle sanzioni, dei furti il pane scarseggia.

Abbondano invece le “notizie” di bombardamenti aerei su file per il pane e panifici: il Consiglio nazionale siriano, un po’ detronizzato dalla neonata Coalizione di Doha, denuncia alla tivù satellitare saudita un attacco a Homs con dieci bambini morti; e i Comitati di coordinamento di Homs parlano di un bombardamento aereo a Talbise, anche lì colpito un panificio (e un ospedale da campo) con vari morti fra cui bambini e donne. Anche lì, sul “chi, come, se, perché” non ci sono prove. La disinformazione legittima l’ingerenza anche militare e quest’ultima aumenta la guerra e i morti, in un perfetto circolo vizioso.

CASI PRECEDENTI: GLI AEREI DI GHEDDAFI E IL MERCATO DI SARAJEVO

Ricordiamo en passant che la guerra Nato in Libia dovette molto, nella fase di preparazione anche mediatica, alle denunce senza prove circa i Mig governativi che massacravano manifestanti pacifici. Tutto falso, si è scoperto. Ben presto, ma troppo tardi.

Ricordiamo anche alcuni episodi a Sarajevo negli anni 1990. Citando Michel Collon, giornalista belga da tempo attivo sulle “menzogne di guerra”:

“Il 27 maggio 1992 una bomba uccide almeno sedici persone che facevano la coda davanti a una panetteria a Sarajevo; un centinaio i feriti. Subito vengono accusati gli assedianti serbi. Il Consiglio di Sicurezza Onu decreta sanzioni economiche contro quel che rimane della Jugoslavia, ovvero Serbia e Montenegro, accusata di appoggiare i serbi di Bosnia. Un’inchiesta sui responsabili, effettuata in seguito all’Onu, non verrà mai pubblicata.
 Il giornale britannico The Independent spiegò in seguito: 
‘I responsabili delle Nazioni Unite e alti funzionari occidentali ritengono che alcuni dei peggiori massacri a Sarajevo, e anche la strage del pane, siano stati compiuti dai musulmani, difensori della città, e non dagli assedianti, per forzare un intervento militare occidentale’. (…) I due attentati che colpirono il mercato di Sarajevo nel febbraio 1994 e nell’agosto 1995 si possono far risalire alla stessa strategia. Il primo arrivò giusto per far fallire il piano di pace proposto dagli europei di fronte all’intransigenza degli Usa e del leader musulmano della Bosnia, Izetbegovic (la percentuale degli statunitensi favorevoli a un attacco armato contro i serbi passò d’un colpo da un terzo a oltre la metà). Il secondo legittimò i massicci attacchi contro le postazioni serbe intorno a Sarajevo”.

Aggiungiamo che mesi dopo la prima strage di Markale, 5 febbraio 1994, Jasushi Akashi, delegato speciale ONU per la Bosnia, dichiarò alla Deutsche Presse Agentur che un rapporto segreto Onu aveva attribuito da subito ai musulmani la paternità della strage, ma che il Segretario Generale Butrous Ghali non ne aveva parlato per ragioni di opportunità politica. Poco tempo dopo Akashi venne rimosso dall’incarico.


Fonte: srs di Marinella Correggia, da SIRIALIBERA del  25 dicembre 2012