lunedì 28 febbraio 2011

Il premier britannico Tory David Cameron: Il multiculturalismo, un fallimento

Tory David Cameron

Il premier britannico condanna la «tolleranza passiva» e lancia un monito all’Europa
Aurocritica. «Non abbiamo saputo garantire la visione di una società unica ormai e tempo di lanciare  un liberalismo muscolare». «Con la dottrina del multiculturalismo abbiamo incoraggiato differenti culture a vivere separatamente». L’Europa deve svegliarsi.

LONDRA - Il premier britannico dichiara guerra al multiculturalismo e volta pagina nella politica sull'immigrazione. «Basta con la tolleranza passiva». I diritti delle minoranze etniche e religiose vengono dopo il dovere, che esse hanno, di imparare e di rispettare le norme etiche e giuridiche della società e dei Paesi democratici dove vivono. Le nuove strategie che governano le relazioni fra le civiltà, e soprattutto fra la civiltà occidentale e la civiltà islamica, vengono riassunte da David Cameron in due parole: «liberalismo muscolare»

Il numero uno di  Downing Street, che sceglie la platea della  conferenza sulla sicurezza a Monaco per lanciare la sua campagna, straccia le teorie relativiste con l'assunto secondo cui le comunità possono formarsi e svilupparsi in contesti urbani vicini ma distinti, con modalità di comportamento anche conflittuali fra loro, seguendo i canoni morali e di costume imposti dalle rispettive storie, e prospetta un equilibrio con altre fondamenta: «Con la dottrina del multiculturalismo abbiamo incoraggiato differenti culture a vivere separatamente. Abbiamo fallito nel garantire la visione di una  società unica. Abbiamo tollerato che queste comunità segregate potessero agire contro i nostri principi. Se un bianco esprime concetti razzisti, giustamente  lo condanniamo. Ma quando punti di vista e pratiche ugualmente inaccettabili provengono da chi non è bianco diventiamo troppo cauti, persino timorosi nel prendere posizione contro di essi».

Il «liberalismo muscolare» o vigoroso, nella versione di David Cameron, significa percorrere strade alternative, più severe.  Dunque, per appartenere al Regno Unito si deve credere ai valori che sono nati e si sono consolidati nel Regno Unito, i valori dell'uguaglianza fra i sessi, della democrazia politica, delle libertà.

Queste sono le premesse dell'integrazione. Se altrimenti, afferma il premier conservatore, si ammette, magari col silenzio, che i gruppi di immigrazione possono costituirsi in entità autoregolamentate e chiuse, estranee ai codici della nazione che li ospita, allora si favorisce l'insorgere dei ghetti e del razzismo,  inoltre si sottovaluta il pericolo del terrorismo.  Il fanatismo ideologico, infatti, si consolida nelle comunità che non hanno contatti con l'esterno, che si chiudono, che rifiutano di capire e di  adeguarsi agli stili e ai valori occidentali.

L'avvertimento di Cameron esce dai confini del Regno Unito: «L'Europa deve svegliarsi e deve rendersi conto di ciò che sta accadendo nei nostri Paesi.  Abbiamo bisogno di essere assolutamente chiari sulle origini degli attacchi terroristici e su come si diffondono le ideologie estremistiche islamiche che vi stanno dietro».

È quindi necessario prendere atto che le politiche fino a oggi adottate mostrano il passo e si rivelano fallimentari perché non hanno contrastato quelle derive terroristiche che non rappresentano l'islam e che ne offrono, semmai, una interpretazione integralista e pericolosamente sbilanciata. Nessuna condiscendenza  allora, verso il multiculturalismo che, nel giudizio di Cameron (in verità molto simile a quello già espresso dal laburista Tony  Blair), favorisce lo scontro anziché il confronto e che accoglie le ambiguità di molte organizzazioni operanti  in un'area ideologica di confine, un'area che non condanna esplicitamente l'estremismo. «È legittimo chiedersi: queste organizzazioni sono a favore dei diritti umani? Credono nella democrazia? Credono  nell'uguaglianza di fronte alla legge? Incoraggiano l'integrazione o incoraggiano la segregazione e il separatismo culturale?». Il messaggio è chiaro: nessun aiuto e nessun finanziamento saranno ammessi. E non si avvierà nessun dialogo in assenza di pronunciamenti che ripudiano il fanatismo e accettano le leggi britanniche.  O da questa parte o dall'altra. Londra manda in soffitta la «tolleranza passica».

Fonte: srs di  Fabio Cavalera  da Il Corriere della sera di domenica 6 febbraio pag. 5



Il multiculturalismo è fallito

Pubblichiamo un ampio estratto del discorso che il premier britannico, David Cameron, ha pronunciato a Monaco di Baviera durante la Conferenza sulla sicurezza dedicata all’Islam.

Oggi voglio concentrare le mie osservazioni sul terrorismo. Alcuni hanno suggerito che, tenendo una strategia difensiva e riducendo le forze armate, la Gran Bretagna in qualche modo si ritira da un ruolo di protagonista nel mondo. Questo è il totale rovesciamento della verità.  Sì, abbiamo a che fare con il deficit, ma stiamo anche verificando che le nostre difese sono forti. Il nostro è ancora il quarto bilancio militare più consistente del mondo. Stiamo investendo sul miglior utilizzo e ci concentriamo sulla prevenzione dei conflitti. Questa non è ritirata, è testa dura. Ogni decisione che prenderemo ha tre obiettivi. In primo luogo, sostenere la nostra missione Nato in Afghanistan. In secondo luogo, rafforzare le nostre capacità militari effettive. (Come il governo del cancelliere Merkel sta mostrando in Germania ciò che conta non è la burocrazia ma la volontà politica di costruire capacità militari). In terzo luogo occorre assicurarsi che la Gran Bretagna sia protetta dalle minacce nelle sue diverse espressioni. Ecco perché stiamo investendo in un programma nazionale di cyber-sicurezza... La più grande minaccia arriva da attacchi terroristici, alcuni dei quali sono purtroppo effettuati da nostri cittadini. È importante sottolineare che il terrorismo non è legato esclusivamente a una religione o a un gruppo etnico... Ciò nonostante, dobbiamo riconoscere che la minaccia proviene prevalentemente da giovani che seguono una interpretazione completamente perversa e distorta dell'Islam e che sono pronti a farsi saltare in aria e a uccidere i loro concittadini... Non si sconfigge il terrorismo semplicemente con le azioni che intraprendiamo al di fuori dei nostri confini. L’Europa deve svegliarsi e vedere ciò che accade nei nostri Paesi.

Radice del problema
Naturalmente, questo significa rafforzare la sicurezza di reazione ... ma dobbiamo arrivare alla radice del problema. Dobbiamo essere assolutamente chiari sull’origine degli attacchi terroristici che è l’esistenza di una ideologia, "l'estremismo islamico". E dovremmo essere altrettanto chiari su che cosa intendiamo con questo termine, distinguendolo dall’Islam. L'Islam è una religione, osservata in modo pacifico e devotamente da oltre un miliardo di persone. L'estremismo islamico è una ideologia politica, sostenuta da una minoranza che ... promuove il suo obiettivo finale: un intero regno islamico, regolato da una interpretazione della sharia... È vitale questa distinzione tra religione e ideologia politica. Di volta in volta, le persone equiparano le due visioni. Pensano che se qualcuno è un estremista dipende da quanto osserva la propria religione. Così si parla di "moderati" come se tutti i musulmani devoti dovessero essere estremisti. Questo è sbagliato. Si può essere musulmani devoti e non essere estremisti. Dobbiamo essere chiari: l'estremismo islamico e l'Islam non sono la stessa cosa.

Pensiero confuso
Ciò evidenzia un problema rilevante quando si parla della minaccia terroristica che abbiamo di fronte: c'è troppa confusione su questa questione. Da un lato, la destra dura ignora la distinzione tra l'Islam e l'estremismo islamico e dice: Islam e Occidente sono inconciliabili. Questo è uno scontro di civiltà... Così si fa crescere l’islamofobia.  E io respingo con forza questa tesi. Se vogliono un esempio di come i valori occidentali e l'Islam possono essere compatibili, basta guardare a quello che è successo nelle ultime settimane per le strade di Tunisi e del Cairo. Centinaia di migliaia di persone chiedono il diritto universale a libere elezioni e alla democrazia. Il punto è questo: l'ideologia dell'estremismo è il problema.  L’Islam non lo è ... Dall’altra parte, ci sono quelli di sinistra soft che pure ignorano questa distinzione. Essi accomunano tutti i musulmani e fanno coincidere la fine del terrorismo con la fine della povertà e delle ingiustizie... Dimenticano che molti terroristi che hanno colpito in Gran Bretagna sono laureati e di classe media. La sinistra soft dice che per battere il terrorismo basterebbe smettere di calpestare i paesi musulmani.  Ma ci sono molte persone - musulmani e non - che sono arrabbiati per la politica estera occidentale e non per questo ricorrono ad atti di terrorismo. Essi sottolineano anche il numero consistente di leader non eletti in tutto il Medio Oriente che favorirebbero il prosperare dell’estremismo. Ma questo ci fa chiedere: se la mancanza di democrazia è il problema, perché ci sono estremisti in società libere e aperte? ... Sì, dobbiamo lottare contro la povertà. Sì, dobbiamo risolvere le fonti di tensione - anche in Palestina. ... Ma io non accetto che ci sia una scelta senza uscita tra uno stato di sicurezza e uno di resistenza islamico. E poi, non prendiamoci in giro, anche se risolvessimo tutti questi problemi, il terrorismo non sarebbe sconfitto. Identità e radicalizzazione.  La radice si trova nella esistenza dell’ideologia estremista... Si tratta di una questione di identità... Nel Regno Unito, alcuni giovani hanno difficoltà a identificarsi con l'Islam tradizionale praticato dai genitori. Ma hanno anche difficoltà a identificarsi con la Gran Bretagna dove abbiamo permesso l'indebolimento della nostra identità collettiva... Non siamo riusciti a fornire una visione della società di cui vorrebbero far parte. Abbiamo addirittura tollerato che comunità isolate si comportassero in modi che vanno contro i nostri valori. Così, ci è facile condannare il razzismo, ma di fronte a comportamenti discutibili di non bianchi siamo stati troppo prudenti, mostrando, francamente, anche paura... Di sicuro, i musulmani non si trasformano in terroristi in una notte. Quello che vediamo è un processo di radicalizzazione... In internet e in alcune moschee i seminatori di odio seminano disinformazione sulla condizione dei musulmani... Si potrebbe dire: finché non fa male a nessuno, qual è il problema? I terroristi condannati sono stati inizialmente influenzati da quelli che alcuni hanno definito "estremisti non violenti"... Se vogliamo sconfiggere la minaccia, credo sia il momento di voltare pagina sulle politiche fallimentari del passato. In primo luogo, governi e società non possono ignorare l’ideologia estremista con la quale si sono già confrontati... In secondo luogo, invece di incoraggiare le persone a vivere separate, abbiamo bisogno di un chiaro senso di condivisa identità nazionale, aperto a tutti.

Affrontare l’estremismo
Dobbiamo vietare ai predicatori di odio di venire nei nostri paesi. Dobbiamo anche proscrivere le organizzazioni che incitano al terrorismo, contro le persone in patria e all'estero. I governi devono anche essere furbi nel trattare con coloro che, pur non violenti, sono, in alcuni casi, parte del problema... Alcune organizzazioni cercano di presentarsi come una porta per la comunità musulmana.  Muovono una pioggia di denaro pubblico, nonostante facciano poco per combattere l'estremismo... Cerchiamo di giudicare correttamente tali organizzazioni: credono nei diritti umani universali anche per le donne e persone di altre fedi? Credono nella parità di tutti davanti alla legge? Credono nella democrazia e nel diritto delle persone di eleggere il proprio governo? Hanno favorito integrazione o separatismo? ... Niente soldi pubblici a chi non può rispondere ai requisiti imposti da queste domande. Allo stesso tempo, dobbiamo impedire a questi gruppi di raggiungere le persone in istituti finanziati pubblicamente, come università e prigioni anche se qualcuno, senza considerare le conseguenze dice che ciò è incompatibile con la libertà di parola e di espressione intellettuale... Abbiamo bisogno di sostenere che il terrorismo è sbagliato, in tutte le circostanze. Abbiamo bisogno di sostenere che le profezie di una guerra globale della religione dei musulmani contro il resto del mondo sono spazzatura. I governi non possono farlo da soli. L'estremismo che abbiamo di fronte è una distorsione dell'Islam. E di questo devono discutere anche tutti quelli che fanno capo all’Islam. Quindi cerchiamo di dare voce a quei seguaci dell'Islam nei nostri paesi - la grande maggioranza spesso inascoltata - che disprezza gli estremisti e la loro visione del mondo.

Cittadinanza
Dobbiamo costruire società più forti e identità di nazione. Francamente, abbiamo bisogno molto meno della tolleranza passiva degli ultimi anni e molto di più del liberalismo attivo e muscolare. Una società tollerante passivamente dice ai suoi cittadini: se rispetti la legge, ti lasciano in pace. Si erge neutrale tra valori diversi. Un paese veramente liberale fa molto di più. Crede in certi valori e li promuove attivamente. Libertà di parola. Libertà di culto. Democrazia. Lo stato di diritto. La parità di diritti indipendentemente da razza, sesso o genere. Questo è ciò che ci definisce come una società. Per appartenere a questo posto devo credere in queste cose. Per ognuno di noi tutto questo deve essere chiaro e sostenuto a muso duro per la difesa della nostra libertà...

Conclusione
Questo terrorismo è indiscriminato e preme su tutti noi. Non può essere ignorato. Abbiamo bisogno di affrontare la questione con fiducia. Di affrontare l’ideologia che lo sostiene. Di affrontare le questioni di identità che lo tengono in piedi per una visione molto più ampia e generosa di cittadinanza. Niente di tutto questo sarà facile. Abbiamo bisogno di resistenza e di pazienza. E non potrà cambiare nulla se agiremo da soli. Questa ideologia attraversa i continenti. Siamo tutti sulla stessa barca. In gioco non è solo la vita, è il nostro modo di vivere. Ecco perché questa è una sfida che non possiamo evitare. E che dobbiamo vincere. 
 


Fonte:  srs di David Cameron da Il tempo.it  del   06/02/2011


domenica 27 febbraio 2011

ANDY WARHOL: UN ARTISTA RELIGIOSO?


Con un ritardo di qualche decennio, l’Osservatore Romano scopre Andy Warhol, genio  della Pop Art, come artista religioso - per tutta la vita pregò quasi ogni giorno nella sua parrocchia di San Vincenzo Ferrer, a Lexington Avenue, dove stava inginocchiato per tutto il tempo della messa-

Non bisogna mai dar nulla per scontato. Questa è la prima riflessione che viene da fare dopo aver ascoltato la conferenza "Andy Warhol, un artista religioso?", organizzata dall'Istituto San Luigi dei Francesi di Roma. A proporre una rilettura dell'opera e della vita di Andy Warhol è stato Alain Cueff, autore di "Warhol à son image" (Flammarion, 2009) e curatore di Le Grand Monde d'Andy Warhol al Grand Palais nel 2009, in un incontro-dibattito con Stefano Chiodi.
Alain Cueff sostiene che oggi siamo abituati a concepire l'arte del XX secolo come un'arte che ha rinunciato al sacro. L'idea base dell'avanguardia è stata costruita contro una tradizione in cui arte e religione erano spesso collegate tra loro. Forse però è venuto il momento di rivoluzionare questa visione troppo di parte. Andy Warhol infatti non sarebbe l'unico a essere interessato da questo cambio di prospettiva, poiché la sua opera "potrebbe essere meglio interpretata se venissero accettate le contraddizioni che la animano".

WARHOL - RAFFAELLO, 1985

Pochi sanno che il padre della pop art non solo era un dandy antiborghese, provocatorio e ambizioso, ma anche un uomo profondamente religioso, dedito alla preghiera e alla beneficenza. Dalle considerazioni di Cueff e dalla ricerca "religiosa" di Warhol degli ultimi anni sono nate spontanee alcune domande: cosa sappiamo e che cosa, soprattutto, non sappiamo della vita di Warhol? Ripercorriamo la sua biografia.
Terzo di due fratelli, Andrew Warhola - questo è il vero cognome - nasce a Pittsburgh il 6 agosto 1928 da Ondrej, operaio in una miniera di carbone, e Julia Zavacky. Entrambi i genitori sono originari di Miková, un villaggio ruteno della Slovacchia orientale, emigrati in Pennsylvania in cerca di fortuna. La nascita di Andy coincide con la grande depressione che segnò profondamente l'economia americana, ma l'intraprendenza del padre assicurò alla famiglia un certo benessere.

Tanto che riesce ad acquistare una casa nel quartiere di Oakland. Sia Ondrej che Julia sono ferventi cattolici bizantini di rito ruteno e a Pittsburgh frequentano assiduamente la chiesta bizantina di San Giovanni Crisostomo, dove i figli vengono battezzati. In questa chiesa, come in tutte le chiese ortodosse, incombe l'iconostasi con una sua sequenza di icone a più livelli. La visione di questa iconostasi ha influito molto su Warhol.
 EIGHT ELVISES - DI ANDY WARHOL

La ripetizione seriale a più livelli è infatti uno dei suoi tratti distintivi. Anni dopo, quando allestiva le mostre, pretendeva sempre che le sue opere venissero sistemate su pareti ricoperte da carta da parati, in modo da creare una sorta di iconostasi immaginaria. Le icone sono presenti anche nelle stanze di casa Warhola.  In uno suoi primi quadri, Il soggiorno di casa Warhola (1946), si può vedere persino un crocifisso sopra il camino.
Nel 1936 Andy si ammala di febbri reumatiche che gli procurano tre attacchi di corea (ballo di San Vito).

"Gli attacchi cominciavano sempre il primo giorno di vacanza. Non so cosa volesse dire, ma passavo l'estate sdraiato sul letto". I lunghi ricoveri in ospedale e le degenze a casa lo allontanano dalla scuola, trasformandolo in un ipocondriaco. Passa le giornate a letto a disegnare in compagnia della madre, che gli fa recitare preghiere in slovacco antico. Julia fa indossare ad Andy una collana con il crocifisso e lascia sempre il suo rosario e un piccolo messale bizantino accanto al letto.
Questo messale è decorato con la riproduzione dell'Ultima cena di Leonardo. Non sarà un caso che molti anni dopo quella stessa immagine diventerà il tema ricorrente dei suoi ultimi lavori. La salute cagionevole approfondì il legame tra madre e figlio, che si mantenne stretto fino alla morte di lei nel 1972.

 WARHOL-L'ULTIMA CENA CON SAN TOMMASO E SAN GIACOMO, 1986

Diplomatosi in grafica pubblicitaria, nel 1949 si trasferisce a New York, dove pubblica le sue prime illustrazioni, firmando col nome che lo renderà famoso: Andy Warhol. Inizia a dedicarsi alla pittura commerciale eseguendo disegni per la televisione e la pubblicità. Comincia a esporre dal 1952, all'inizio senza nessun riscontro economico. Nel 1955 il prestigioso negozio di scarpe Miller gli commissiona una serie di disegni pubblicitari che appaiono regolarmente sui giornali.

Nel 1957 vince un premio per meriti speciali proprio per la pubblicità delle scarpe Miller. Nel 1960 si dedica seriamente alla pittura, creando immagini ispirate alla pubblicità e ai fumetti, e riproducendo oggetti della cultura di massa, come le bottiglie di Coca-Cola. I suoi dipinti pop vengono esposti nelle vetrine dei grandi magazzini sulla cinquantasettesima strada e questo insolito modo gli permette di vendere le opere direttamente ai collezionisti.
Fino a quel momento Warhol aveva sempre lavorato su commissione. Intuiva che nel mondo dei nuovi mezzi di comunicazione bastavano poche idee,  ma buone, per raggiungere il successo. Egli cercava queste idee, anche a costo di doverle comprare. Avendo molta fiducia in Muriel Latow, arredatrice d'interni, le chiese un suggerimento a pagamento. Avrebbe dovuto trovargli qualcosa che lo identificasse con un'immagine. Qualcosa per cui la gente avrebbe potuto dire: "Warhol chi? Quello della minestra Campbell?".

WARHOL.    MINESTRA CAMPBELL

Stranamente Warhol era un ammiratore incondizionato di Marcel Duchamp, il quale come sappiamo, aveva deciso di dissacrare il concetto di arte. Warhol non solo dissacrava l'arte, ma cinicamente riusciva a trasformarla in una slot machine. Non gli bastava fare un gesto plateale come trasformare un simbolo della produzione commerciale in opera d'arte, ma con l'aiuto della serigrafia ripeteva quell'opera un numero infinito di volte. Fino a ottenere un riscontro economico smisurato. Le sue idee, semplici, efficaci, seriali, ripetitive, gli crearono un'immagine facile e sempre riconoscibile.
Un'immagine che gli fece guadagnare tanto di quel denaro che fu presto costretto ad assumere un direttore commerciale della sua famosa factory. Una sorta di studio gigantesco - uno dei primi loft a essere riconvertito - in cui entrava e usciva una folla di gente bizzarra, artisti di ogni tipo e razza, ma anche, purtroppo, sbandati e drogati. Fin dall'inizio della sua carriera Andy si ritrovò in mezzo a episodi estremi.
Un'artista di passaggio sparò alle sue tele, una femminista folle, Valerie Solanas - fondatrice della Society for Cutting up Men, ossia "Società per fare gli uomini a pezzi" - dopo qualche anno sparò direttamente a lui. Era il 1968. Entrato in crisi, durante la convalescenza Warhol ritrovò il gusto della pittura e della creazione. Ormai tutto il mondo - reali, capi di Stato, capitani d'industria - gli chiedeva ritratti e lui non li negava a nessuno.

Definitivamente accolto nel gotha della cultura e dell'arte internazionale, tra gli anni Settanta e Ottanta le sue opere vengono esposte nei più importanti musei del mondo, raggiungendo quotazioni da capogiro. Il 17 febbraio 1987, di ritorno dall'Europa, viene colpito da una forte colica biliare, tanto che viene ricoverato al New York Hospital. Viene operato il 21, ma il mattino seguente muore nel sonno per una crisi cardiaca. Deposto in una bara di bronzo massiccio con un libro di preghiere e una rosa rossa in mano, il funerale si svolse nella chiesa bizantina di Santo Spirito a Pittsburgh, alla presenza dei familiari e pochissimi amici.

È stato sepolto accanto ai suoi genitori nel cimitero bizantino di San Giovanni Battista, a Bethel Park. La madre gli aveva sempre raccomandato di vivere "in modo di non essere povero e avere i soldi sufficienti per un umile funerale". Così nel cimitero, a ricordare il grande artista, c'è solo una semplice lapide di pietra grigia. Il successivo primo aprile, nella St. Patrick Cathedral di Manhattan fu celebrata una messa commemorativa a cui parteciparono migliaia di persone. Durante la celebrazione l'amico John Richardson pronunciò un commosso elogio. Per la prima volta veniva resa pubblica la profonda religiosità di Andy Warhol.
"La conoscenza della sua segreta pietà - disse Richardson - ci fa cambiare inevitabilmente la percezione di un artista che ha ingannato il mondo, facendo credere che le sue uniche ossessioni fossero i soldi, la celebrità, il glamour, e che era così flemmatico da sembrare insensibile. Non prendete mai Andy alla lettera. L'osservatore insensibile era in realtà un angelo. Per quanto mi riguarda è il responsabile di almeno una conversione: la mia!".

Fu così che si venne a sapere che per tutta la vita Warhol aveva pregato quasi ogni giorno nella sua parrocchia di San Vincenzo Ferrer, a Lexington Avenue. Che aveva l'abitudine di restare in fondo alla chiesa, dove stava inginocchiato per tutto il tempo della messa. Nell'occasione è stata resa nota anche la sua opera di carità verso i senza tetto di New York, ai quali spesso serviva personalmente i pasti nelle mense per i poveri. Si è poi saputo della sua profonda delusione nell'apprendere che il nipote Paul Warhola jr. aveva abbandonato gli studi in seminario, dove lui orgogliosamente lo aveva mantenuto. Ma le rivelazioni non finiscono qua.

WARHOL E GIOVANNI PAOLO II

Pare che durante un viaggio a Napoli nella primavera del 1980, ospite del gallerista Lucio Amelio, Warhol avesse chiesto con insistenza di incontrare Giovanni Paolo II. Ci riuscì il 2 aprile. A testimonianza di quell'incontro in piazza San Pietro, ci resta una foto commovente in cui sembra che tra i due circoli una sorta d'intensa empatia. Nel suo diario Warhol scrisse che il Papa gli strinse la mano tra le sue e ciò lo fece sentire benedetto. Alla luce dei fatti che oggi conosciamo, riguardanti la vita intima dell'artista, ci appare evidente che Warhol fosse vittima di una scissione di personalità.

Forse perché la sua identità primaria, legata alla celebrità, era sempre così forte da oscurare tutto il resto, compreso il rapporto con un senso religioso della vita e dell'arte. Evidentemente era riuscito a crearsi una maschera impassibile, tale da far credere a mezzo mondo che lui era un indifferente egocentrico, appagato di se stesso. Forse quella corazza gli serviva a non farsi scoprire, mentre le sue opere "religiose" erano messaggi che avrebbero dovuto essere compresi solo da chi li avesse saputi leggere.

Del resto male e poco devono aver indagato i giornalisti che lo intervistarono regolarmente, se nessuno ha mai scoperto che la star della Pop Art e della trasgressione viveva in un appartamento arredato con mobili antichi, tappeti persiani e quadri di artisti preraffaelliti. Per non parlare del fatto che dormiva in un letto rinascimentale a baldacchino, circondato da immagini sacre. Un grande crocifisso antico sul comodino e una statua del Cristo risorto poco più in là.

CAMERA DA LETTO DI WARHOL-CERI CROCIFISSI E IMMAGINI SACRE

Né si è mai analizzato a fondo il passaggio che negli ultimi anni della sua vita subì la sua produzione, da rappresentativa della vita consumistica americana a una sorta di ossessivo omaggio al Rinascimento italiano. Come mai nessuno si era reso conto che Warhol aveva trasformato l'iconografia del proprio lavoro?
Gesù, Maria, gli Apostoli, l'Ultima cena di Leonardo, diventano improvvisamente la metafora di una sua inquietudine spirituale. Sembra che cerchi giustificazioni agli occhi di chi lo considera ancora un cinico arrivista, attraverso l'appoggio mimetico dell'arte rinascimentale. Nasce così una serie pazzesca di opere citazioniste, poco note al grande pubblico, anche se tutte di grandi dimensioni. Non ci resta che una domanda. Quale dei due Warhol era quello più autentico?

Fonte: srs di Sandro Barbagallo per l'Osservatore Romano
Fonte: Dagospia


sabato 26 febbraio 2011

Verona. Marina Tonini: «Gli extraterrestri esistono, li ho incontrati»

Marina Tonini

ESCLUSIVO. Marina Tonini, una donna di Rivoli Veronese, perito grafologico per il Tribunale di Verona, racconta al giornale  L’Arena di Verona  la sua incredibile esperienza di contatto, avvenuta due anni fa.

«Ho sentito un ronzio e poi ho visto una luce bianca. Poi un'astronave mi ha portata su un pianeta verde. Sono sicura, non ho sognato»

Una sensazione di serenità e tanta luce. Questo il racconto di Marina Tonini, perito grafologo del Tribunale di Verona, sull'esperienza di contatto con popolazioni «extraplanetarie», che sarà ospite alla trasmissione «Mistero» su Italia 1, stasera (martedì 22 febbraio), alle 21.10.
Ha un che di sorprendente la testimonianza della dottoressa Tonini, perché eravamo abituati a sentire storie di «abduction» (così si chiama l'incontro con gli extraterrestri, che secondo le testimonianze prelevavano persone per fare esperimenti): erano racconti spesso terrificanti di esseri bassi, di colore grigio, dai grandi occhi dalle orbite vuote o di microchip posizionati sottopelle.

Invece il racconto della dottoressa Tonini, che abita in Val d'Adige, a Rivoli, in mezzo a un bosco in località Fiffaro, in una corte del '400, che fu un antico monastero dei monaci bianchi cistercensi di San Bernardo di Chiaravalle, è ben diverso.

E' sicura di quello che afferma, per questo ha accettato di esporsi di persona, con il suo volto, sul nostro giornale e in televisione.

«Ero nella mia camera e mi apprestavo a dormire», racconta, «quando percepisco un suono, come un ronzio, e vedo una luce bianca che illumina il letto. Mi sento trasportare verso l'alto con una sensazione di sospensione, come un'assenza temporale. Mi ritrovo all'interno di una astronave, un ambiente essenziale, quasi antisettico, molto chiaro, dove vedo tre persone e alle loro spalle degli oblò e degli schermi».

«Mi guardo intorno, ma loro mi invitano a guardare fuori dall'oblò, non parlando, ma inviandomi il pensiero telepaticamente. E vedo un pianeta verde, con molta vegetazione e in mezzo enormi cupole color argento. In men che non si dica mi ritrovo nel raggio di luce e mi accorgo di essere all'interno della cupola. E lì mi accompagnano le stesse figure e cominciamo a parlare», continua Marina Tonini, «mi invitano a fare delle domande».

«Chiedo dove mi trovo. Il più alto dei tre, di circa 2 metri e 20 centimetri, mi risponde che siamo su una stella multidimensionale, chiamata Sirio B. Poi mi mostrano il giardino, quasi una giungla molto estesa, con moltissimi tipi di alberi da frutto».

Il racconto di Marina Tonini è dettagliato: «A loro ho chiesto come facessero a gestire una cosa così grande. Mi hanno risposto che utilizzano tecnologie molto avanzate. Poi ho domandato cosa facessero durante il giorno: ciascuno coltiva i suoi talenti, da mettere a disposizione della comunità, e i valori dello spirito», sottolinea la dottoressa.
«Mi hanno parlato della differenza tra la loro civiltà e la nostra: non usano il denaro, sono consapevoli del senso costruttivo della vita e vivono su altre frequenze, cosa che anche a livello fisico conferisce loro caratteristiche meno materiali, meno tangibili. Mi informano del fatto che alcune persone, come me sul pianeta in questo momento, dovranno anticipare questo messaggio di consapevolezza e di una possibile trasformazione dell'essere umano, che consenta anche la salvaguardia nel nostro pianeta, ora molto compromesso».


 Da questa esperienza di contatto, avvenuta circa due anni fa, Marina Tonini ha cominciato un percorso di ricerca in campo ufologico e fenomenologico, acquisendo interessante materiale fotografico, pubblicato su riviste del settore.
«Con atteggiamento razionale mi sono chiesta molte volte se questo viaggio avesse potuto essere un sogno», conclude, «ma diverse esperienze di contatto successive mi hanno convinto dell'esistenza di popolazioni extraplanetarie, per fortuna più evolute di noi, che si occupano di noi poveri, inconsapevoli terrestri».

Fonte: srs di Giancarla Gallo da L’Arena di Verona  di Martedì 22 Febbraio 2011  PROVINCIA,  pagina 25


venerdì 25 febbraio 2011

IL BILANCIO NEGATIVO DEL COLONIALISMO ITALIANO IN LIBIA: INTERE POPOLAZIONI FURONO DEPORTATE PER BATTERE I RIBELLI

Arresto di Omar al-Mukhtar

Tripoli, arido suolo 
di dolore e fallimenti
Mai colonizzazione fu più sfortunata di quella italiana in Libia. E pensare che tutto era parso facile nell'ottobre del 1911, quando le truppe italiane inviate dal governo liberale di Giovanni Giolitti erano sbarcate a Tobruk, Derna, Bengasi e si erano avventurate in quella terra senza quasi incontrare resistenza da parte dei duemila mal equipaggiati soldati ottomani lasciati a presidio dalla Turchia. Casomai il nostro esercito ebbe qualche problema da parte dei senussi, gli islamici che, senza entrare in conflitto con Istanbul, dalla metà dell'Ottocento (nel 1843 Muhammad al-Sanusi si era stabilito a sud-ovest di Cirene), avevano dato alle genti della Tripolitania e della Cirenaica nuove forme di organizzazione politico-sociale (oltre a una versione del tradizionale credo religioso maomettano più moderna, più adatta alla mentalità e alle esigenze delle popolazioni beduine). Ma l'impresa italiana ebbe comunque successo e nell'ottobre del 1912 la Sublime Porta (il governo di Istanbul) firmò il trattato di Ouchy (Losanna) in virtù del quale la Turchia ritirava le proprie forze armate dalla Libia, lasciando il Paese all'Italia. Dopodiché la guerriglia della Senussia proseguì e - con l'aiuto di parte dell'esercito turco non rassegnato a rispettare le decisioni di Ouchy - avrebbe potuto crearci seri guai se le ripercussioni in loco della Prima guerra mondiale e un'epidemia di peste (tra il 1916 e il 1917) non ne avessero mortificato le ambizioni.

Così, terminato il grande conflitto, l'avventura della colonizzazione italiana in Libia poté riprendere.
E procedere gradualmente alla conclusione che giustifica il titolo di un libro di Federico Cresti che l'editore Carocci si accinge adesso a dare alle stampe: Non desiderare la terra d'altri. La storiografia ci ha tramandato il racconto di un'Italia liberale che, dalla fine della guerra (1918) alla marcia su Roma (1922), tentò la via di una convivenza pacifica con i senussi e la popolazione locale; sarebbe stata poi l'Italia mussoliniana a riprendere la via delle armi. In parte le cose andarono così. Ma solo in parte. L'esperimento - successivo alla Prima guerra mondiale - di governo indiretto e di «associazione» dei locali, scrive Cresti, mostrò effettivamente «una volontà di conciliazione e di rispetto delle popolazioni della Libia che avrebbe forse potuto evitare, se applicata con continuità, gli eccidi e i disastri successivi». Ma già nel 1922, prima della marcia su Roma, all'epoca del governatorato di Giuseppe Volpi (quando era ministro delle Colonie Giovanni Amendola), da parte italiana, in Libia, si era tornati all'uso delle maniere forti. Sicché si può tranquillamente affermare che la seconda guerra italo-senussa, all'epoca enfaticamente presentata come la riconquista fascista della Cirenaica, era stata impostata prima dell'avvento del fascismo.

Anche se poi la stagione più cruenta del conflitto sarà riconducibile alla responsabilità del maresciallo Pietro Badoglio,
Il quale entrò sulla scena libica alla fine del 1928 affermando che non avrebbe dato tregua a chi non si fosse sottomesso («né a lui né alla sua famiglia né ai suoi armenti né ai suoi eredi») e a quella del generale Rodolfo Graziani, che dal marzo del 1930 diede avvio all'ultima e più dura fase di repressione della resistenza. In questo contesto furono organizzati spostamenti coatti di popolazione mai visti prima di allora. Scriveva Badoglio, poco dopo l'arrivo di Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben deciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa; non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa; ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». E Graziani prese l'ordine alla lettera, organizzando lo spostamento dell'intera popolazione della Cirenaica lungo la pianura costiera, tra il mare e le pendici dell'altipiano. Fu una marcia, in inverno, di centinaia e centinaia di chilometri. Si ebbe qualche gesto di pietà nei confronti delle popolazioni nomadi del Gebel? Pressoché nessuno. Badoglio così scrisse a Graziani nel 1932: «Non ricercare il rientro dei fuorusciti. È meglio perderli per sempre... Il Gebel deve essere dominato prevalentemente dal colono italiano... L'indigeno si convinca o, per meglio dire, si abitui a considerare quella (dei campi di concentramento lungo i territori costieri della Cirenaica e della Sirtica) come la sua destinazione permanente». Le direttive di Badoglio sul mantenimento delle popolazioni nei campi di concentramento, a meno che non fossero determinate da una precisa volontà di sterminio, erano insostenibili, osserva Cresti; «se si fossero concretizzate avrebbero portato, con ogni probabilità, alla progressiva distruzione delle popolazioni concentrate». Graziani fu più duttile.

Ma l'esito di quelle politiche fu in ogni caso drammatico.
Impossibile calcolare con esattezza il numero dei morti, che furono numerosissimi. Oltretutto Badoglio ordinò di passare per le armi chiunque, tra i nativi, fosse stato trovato sul Gebel da dove la deportazione aveva avuto inizio. Nel settembre del 1931 Umar al-Muktar, l'anziano capo della resistenza (aveva quasi 70 anni), fu catturato e impiccato. Il 24 gennaio del 1932 Badoglio fu in grado di dichiarare che la ribellione era definitivamente stroncata e la Libia «del tutto pacificata». Secondo i dati ufficiali italiani i morti nelle operazioni contro la guerriglia erano stati, tra il 1923 e il 1932, 6.500. Ma già gli studiosi Giorgio Rochat e Angelo Del Boca, che negli anni passati hanno approfondito la questione, hanno calcolato che furono invece diverse decine di migliaia. Forse centomila. Molti, certo, anche se infinitamente meno di quelli indicati da esponenti politici libici contemporanei quali Salah Buissir (un milione e mezzo) o Gheddafi (750 mila) che corrisponderebbero nel primo caso al doppio, nel secondo alla quasi totalità della popolazione locale presente all'epoca del censimento ottomano del 1911. Ali Abdellatif Ahmida, uno studioso di origine libica che attualmente insegna negli Stati Uniti, stima che mezzo milione di suoi connazionali morì in battaglia o di malattia, fame e sete; altri 250 mila furono costretti all'esilio in Egitto, Ciad, Tunisia, Turchia, Palestina, Siria e Algeria. Un altro storico libico, Yusuf Salim al-Bargathi, sostiene che i morti per la deportazione furono tra i 50 e i 70 mila (laddove Rochat e Del Boca calcolano che furono circa 40 mila).

Il 13 agosto del 1932, su proposta del ministro per le Colonie Emilio De Bono, Luigi Razza viene nominato presidente dell'Ente per la colonizzazione della Cirenaica.
Razza, già giornalista nel mussoliniano «Popolo d'Italia», sansepolcrista, ex segretario dei fasci d'azione, futuro ministro dei Lavori pubblici, vara un ambizioso piano per far giungere sul luogo italiani disposti al lavoro duro. Gente, in genere, con la fedina penale non immacolata. Non importa se pregiudicati a seguito di condanne politiche o per delitti comuni. Circostanza che costringerà in seguito Italo Balbo a «depurare», tra il 1938 e il 1939, quella corrente di immigrazione. Ma nella prima metà degli anni Trenta non si va per il sottile. Nel 1934 arriva in Cirenaica anche Amerigo Dumini, già condannato (anche se con una pena risibile: sei anni di cui quattro condonati) per l'uccisione, nel giugno del '24, di Giacomo Matteotti.  Dumini, riarrestato in Italia per traffico d'armi, aveva cominciato a ricattare Mussolini e, su pressione del ministro dell'Interno Arturo Bocchini, era stato «accolto» in Libia. Arrivato lì, cominciò subito a lamentarsi dei terreni che gli erano stati assegnati e della riduzione dei finanziamenti che gli erano stati promessi. Poco dopo essere giunto in Libia, riprese a scrivere a Mussolini lettere sottilmente ricattatorie, i soldi arrivarono e nel giro di tre anni divenne un ricco possidente. Nel 1939 i terreni della sua azienda furono acquisiti dal governo della colonia e Dumini ne uscì con un lauto indennizzo. Restò in Libia dove, quando arrivarono gli inglesi, grazie alla sua padronanza della lingua (era nato negli Stati Uniti), per un breve periodo fece anche da interprete. Insomma se la passò più che bene. Ma per tutti gli altri che non avevano armi di ricatto nei confronti del Duce, fossero o meno pregiudicati, le cose andarono assai diversamente.

Pieno di difficoltà è già l'adattamento dei nuovi arrivati.
Si registrano casi «di eccitamento delle varie funzioni organiche seguito da lieve stato depressivo... specialmente nel sesso femminile»; «qualche caso importante di malattia cronica... qualche caso di forme oculari contagiose croniche e qualche caso di tricofizia e di tigna, tutti però cronici e cioè non avvenuti per contagio con elemento indigeno»; frequenti disturbi artritici, malattie cardiache, lue; tra i bambini, linfatismo, scrofolosi, altre patologie cutanee, qualche sporadico caso di tubercolosi. A detta di Armando Maugini, che dirigeva l'Ufficio per i servizi agrari della Cirenaica, i pugliesi erano quanto di meglio l'Italia potesse offrire alla Libia per la loro capacità di affrontare la durezza delle condizioni di vita di quella fase pioneristica. «Il colono pugliese» scriveva Maugini in un rapporto «è molto indicato per tale tipo di colonizzazione, non solo per lo spirito di adattamento e per la notevole sobrietà, ma anche perché, essendo molto attaccato ai parenti, ed essendo proveniente da territori aventi requisiti agrologici molto simili a quelli del Gebel Cirenaico, esercita un'influenza di attrazione verso gli elementi rimasti nella Madrepatria, i quali pertanto potrebbero un giorno intensificare spontaneamente l'opera di popolamento delle zone già occupate dai pugliesi». Luigi Razza conferma: «La scelta delle famiglie è stata effettuata in un primo tempo nelle Puglie, e più largamente nel barese, perché il primo nucleo di sei famiglie di Corato trasferite al completo in colonia all'inizio delle attività, a titolo di esperimento, dettero ottimo risultato, e si ebbe quindi un primo punto di appoggio che avrebbe potuto funzionare come assimilatore qualora fossero stati messi a suo contatto elementi della stessa provenienza... I coloni sono già ambientati tutti benissimo e si sono attaccati alla loro terra, della quale hanno già potuto accertare le buone attitudini alla valorizzazione». In subordine vengono apprezzati abruzzesi e calabresi.

Le condizioni per avviare in colonia una nuova attività erano terribili.
Agli inizi del 1935 una comunità di trenta pescatori fu trasferita a Zuetina. Ma già ai primi di giugno molti di loro chiedevano di tornare in Italia. L'isolamento e lo stato di abbandono della ridotta rendevano la vita assai difficile: un mobilio ridotto all'indispensabile, il pane che arrivava saltuariamente da Agedabia dove il piccolo forno funzionava poco e male per la mancanza di fornaio, farina e combustibile. Le imbarcazioni erano poche e si erano rovinate durante il tragitto dall'Italia. La calura lungo la costa sirtica, riferisce Cresti, era tale che già alla fine della giornata di lavoro una parte del pesce, ridotto in pessime condizioni, doveva essere buttata via. A terra le attrezzature di refrigerazione erano scadenti: uno dei locali della ridotta era stato trasformato in cella frigorifera, ma il ghiaccio disponibile era insufficiente. Ancor più difficile, prosegue Cresti, «si era dimostrata la vendita del pesce; la vettura disponibile non era attrezzata per il trasporto e si era dunque fatto ricorso ad un commerciante privato». Ma l'impresa si era rivelata poco remunerativa e il contratto era stato presto stracciato. In più i pescatori ebbero a lamentarsi dell'eccessiva fiscalità delle autorità locali dal momento che, una volta giunto a Bengasi e sottoposto al controllo dell'ufficio d'igiene, spesso il pesce era stato giudicato avariato e buttato via prima che potesse arrivare al mercato. Nel mese di settembre a Zuetina non rimanevano che quattro persone, anch'esse desiderose di rimpatriare al più presto. Nel tentativo di rilanciare l'esperimento furono presi contatti con una cooperativa di Trapani. Ma, a fine stagione, anche gli ultimi rimasti furono rimpatriati.

Il 1936 fu poi, in Tripolitania, causa la siccità, un anno pessimo per i raccolti.
Si giudicò da quel momento un errore l'aver mandato in Libia famiglie numerose: la presenza di bambini e vecchi si era rivelata un peso morto per la bonifica. E si cambiò registro. Il 1938 fu l'anno dell'operazione cosiddetta dei «ventimila». Tanti dovevano essere, secondo Italo Balbo, i «non emigranti» da trapiantare in Libia. Perché «non emigranti»? Il fascismo aveva sempre fatto una politica antiemigratoria e non poteva smentirsi. Il trasferimento in Libia dei ventimila, racconta Cresti, «venne così presentato dai giornali italiani come l'esatto contrario di tutto ciò che era stata l'emigrazione sofferta fino ad allora da quanti partivano alla ricerca di condizioni di vita che l'Italia non poteva offrire: non più un evento triste, ma un'avventura eccitante - dove l'inatteso era fonte di curiosità e non di angoscia (ovvero dove l'inatteso, come fonte di angoscia, era eliminato) - piena di sorprese positive, allegra; non più separazione, unicamente, dal proprio ambiente di vita e dalla società in cui coloro che partivano erano vissuti fino ad allora, ma la possibilità di realizzare nuovi legami forti, di gruppo, con coloro che partecipavano allo stesso evento; non più continuazione della miseria nelle condizioni del viaggio, ma partecipazione al lusso della modernità; non più la prospettiva della penuria, ma quella dell'abbondanza; non più la fredda, sospettosa accoglienza riservata a stranieri alla frontiera, ma la manifestazione del calore di un'accoglienza fraterna in una terra che si affermava non essere più "Oltremare" ma parte costituente della madrepatria».

La partenza fu organizzata da Venezia il 28 ottobre, nell'anniversario della marcia su Roma.
Grande fu la risonanza su tutti i giornali. Mussolini gradì fino a un certo punto l'enfasi che Balbo diede all'operazione. E, quando mancava meno di un anno all'inizio della Seconda guerra mondiale, cominciò a dare segni di insofferenza nei confronti dello stesso Balbo. L'Italia entrò in guerra solo nel giugno del 1940, ma l'andamento sfavorevole della stagione agricola aveva provocato notevoli difficoltà già alla fine del 1939. All'inizio del '40 si dovettero organizzare nuove spedizioni, in particolare di foraggio e di mangime per gli animali. Furono comprati più di mille buoi maremmani, ma molte bestie si ammalarono prima ancora di partire e dovettero sostare a lungo a Civitavecchia, con nuove spese per il foraggio che diventava sempre più caro. Il bestiame patì, nell'inverno del '40, di denutrizione a cui seguirono perdite di capi per mancanza di foraggio. Con il passare dei mesi, poi, era divenuto sempre più difficile trovare spazio per il trasporto delle merci. Nei mesi di aprile e maggio 1940 quasi tutte le navi erano state requisite per i servizi militari: in alcuni casi i beni e i materiali già imbarcati per la Libia erano stati scaricati a Siracusa e a Catania per liberare le navi. Un piroscafo carico di materiali agricoli partito da Genova nel mese di ottobre, a metà dicembre era ancora bloccato a Palermo in attesa di compiere la traversata. «In queste condizioni» nota l'autore «era sconsigliabile l'invio di merci deperibili, come le sementi o le talee di viti». Per cui, a ridurre le perdite, fu deciso di rivendere in Italia i materiali già acquistati per essere inviati in Libia. Una catastrofe.

L'Italia entra in guerra nel giugno del 1940 e il 28 di quello stesso mese cade, nel cielo di Tobruk, l'aereo su cui è imbarcato Italo Balbo (la morte desta qualche sospetto di un ancora non provato coinvolgimento di Mussolini).
Prende il suo posto Rodolfo Graziani, che è subito impegnato dal Duce in un'offensiva contro l'Egitto. Segue, nei mesi di febbraio e marzo del 1941, la prima occupazione inglese che, scrive Cresti, «dette una violentissima scossa all'edificio ancora malfermo della colonizzazione in Cirenaica». Praticamente non c'è pace per la Libia che, quando dovrebbe raccogliere i primi frutti dell'opera dei «ventimila», si ritrova ad essere teatro di guerra. I coloni vengono presi dal panico e si accalcano all'istituto di credito per ritirare i risparmi, cercando di fuggire verso Tripoli e di rientrare in Italia. Man mano che avanzano le truppe alleate, gli arabi in loco - spalleggiati da un corpo senusso che combatte a fianco degli inglesi - saccheggiano ogni volta che gliene è offerta la possibilità. Si distinguono per assenza di scrupoli gli australiani. Scrive nel suo diario l'agronomo Paolo Sabbetta: «Militari australiani entrano, di giorno e di notte, nelle case coloniche chiedendo generi diversi pagandoli, alcuni, profumatamente, altri invece, quasi sempre ubriachi, saccheggiando e violentando le donne mentre tengono gli uomini a bada con le armi in pugno». E le testimonianze di queste violenze sono numerose. Dall'Italia il regime cerca di minimizzare e di promuovere l'immagine di una popolazione libica della Cirenaica solidale con i coloni. Ma tra il dicembre del 1941 e il gennaio del 1942 per gli italiani è l'inizio della disfatta. Ancora un anno terribile e il 23 gennaio del '43 le truppe britanniche fanno il loro ingresso a Tripoli. Tra Libia e Italia è interrotto ogni contatto. Qualche migliaio di italiani resta lì a lavorare fino alla fine della guerra e oltre. Anche dopo che nel '49 l'assemblea generale delle Nazioni Unite vota per il progetto di una Libia come Stato a sé e dopo la proclamazione, nel '51, dell'indipendenza. Va aggiunto che nel dopoguerra, venuta meno l'autorità italiana sulla regione, si registrano sanguinose manifestazioni arabe ostili alla comunità ebraica che era stata fin lì una colonna della presenza italiana, al punto che Balbo nel '38 aveva ottenuto una sorta di esenzione della Libia dalle leggi razziali.

I pogrom più sanguinosi saranno quelli del novembre 1945
(particolarmente raccapriccianti perché compiuti proprio nei giorni in cui, con l'uscita dei superstiti ebrei dai campi di concentramento d'Europa, il mondo veniva a conoscenza delle atrocità compiute nei lager nazisti) e del giugno del 1948, all'indomani della nascita dello Stato di Israele. Poi si ripeteranno nel 1967 all'epoca della guerra dei sei giorni. Nel 1956 un accordo tra Italia e Libia regola la presenza nella ex colonia dei nostri connazionali che si trasformano, la maggior parte, in piccoli possidenti. Ma saranno tutti cacciati dopo il colpo di Stato degli ufficiali liberi guidati da Gheddafi, che nel 1969 rovescerà la monarchia senussa. Nel frattempo la Libia, che ancora non conosceva la sua fortuna petrolifera, era tornata ad essere uno dei Paesi più poveri del mondo. I pastori-contadini della Cirenaica, una volta tornati sulle loro antiche terre, non potendo più avvalersi dei capitali, delle attrezzature e degli impianti italiani, avevano rapidamente ricondotto il Paese nel solco della tradizione. La Gran Bretagna, nel lungo periodo dell'amministrazione militare (1942-1951), aveva rifiutato di investire i propri soldi nella nostra ex colonia. E quando nel 1970 partirono gli ultimi italiani, il bilancio dei quasi sessant'anni di loro presenza in quella terra poteva vantare pochi punti al proprio attivo. Neanche quelli che hanno contrassegnato le esperienze coloniali negli altri Paesi del Terzo Mondo. Come se una punizione particolare si fosse abbattuta su chi aveva contravvenuto al comandamento inventato da Federico Cresti per il titolo del suo libro: Non desiderare la terra d'altri, appunto.


Fonte: srs di Paolo Mieli da  IL  CORRIERE DELLA SERA  di martedì 22 febbraio 2011



giovedì 24 febbraio 2011

Buon compleanno. Il 24 febbraio di 56 anni fa nasceva a San Francisco il co-fondatore di Apple, Steve Jobs.



Oggi Jobs compie 56 anni. Macity coglie l'occasione per raccontare e soprattutto ricordare alcuni passaggi della storia di Apple che sarebbero stati molto diversi se non ci fosse stato Steve Jobs.

L'ultima notizia è apparsa online pochi giorni fa: in una ricerca commissionata da Logitech a Wakefield Research, intitolata "Remote Control Global Trends Studio ", emerge tra gli altri un aspetto interessante: il telecomando del televisore (inventato nel 1950 dal fisico austriaco Robert Adler e realizzato per la prima volta dalla Zenith) è la periferica elettrica più amata e usata al mondo ma, soprattutto per il proliferare dei dispositivi digitali in casa (televisori, videoregistratori prima, decoder e media extender poi, infine stereo hi-fi e vari altri gadget) rimane la più complessa e quella più critica. Il 92% della gente, rivela la ricerca, vorrebbe una cosa sola: un telecomando unico e soprattutto molto più semplice.

Facciamo un salto indietro nel tempo: 12 ottobre 2005. Steve Jobs presenta l'Apple Remote, il telecomando bianco di Apple che serve a comandare dapprima Front Row sugli iMac G5 e i MacBook e MacBook Pro, poi a seguire i Mac mini e la Apple Tv (sia l'attuale che la precedente generazione). Come lo presenta? Mostrando il comando di un media center Windows, letteralmente un'orgia di tasti, e poi indicando il piccolo Apple Remote con i suoi sei tasti (diventeranno sette con l'edizione in alluminio rilasciata a fine 2009). L'Apple Remote, diceva Jobs, è l'esempio di come si ragiona in Apple: cerchiamo di fare le cose più eleganti, semplici e funzionali. Riducendo gli sprechi al minimo.

Chi usa, da poco o da molto non importa, i prodotti di Apple sa che questa è la filosofia e allo stesso tempo la capacità scenografica di far vedere le cose per quello che realmente sono nella loro essenza. Poco conta la volontà degli esperti di marketing e dei commerciali, degli scienziati e dei sognatori di impiastricciare e complicare le cose: Jobs punta all'essenza, al distillato di quel che serve, taglia senza scrupoli e ripensamenti tutto il resto e arriva al cuore del problema. Al bisogno primario. Alla necessità più intima che sempre serve e che sempre muove le cose.

Oggi Steve Jobs compie 56 anni. Li compie in un momento particolare e delicato della sua carriera pluriennale di innovatore, imprenditore e creatore di mondi informatici. È in congedo per malattia, in convalescenza (e qui il rispetto della privacy, checché ne dicano i grandi fondi pensionistici americani e i periodici scandalistici, è fermo e assoluto) e in transizione. Sì perché Apple sta facendo un'ulteriore, straordinaria transizione. L'azienda che è rinata dalle sue ceneri con una serie di scosse innovative paragonabili a un terremoto, sta cambiando ancora e sempre più pelle.

Mutano i prodotti, muta la composizione del portafoglio prodotti e soprattutto del portafoglio ordini. Nell'arco di cinque compleanni Apple ha presentato iPhone, iPad e una teoria infinita di altri prodotti. È diventata fortissima nel settore dei prodotti post-Pc, ha definito un nuovo mondo con iTunes e soprattutto con App Store e adesso Mac App Store. Ha mostrato che l'innovazione di prodotto non conosce confini con l'introduzione di una teoria lunghissima di particolari e dettagli altrimenti straordinari: per tutti valga solo la lavorazione Unibody dei suoi nuovi MacBook Pro, che adesso evolve ulteriormente

È andata talmente avanti, la Apple guidata da Steve Jobs, da aver superato anche i confini che prima era stati faticosamente raggiunti. Da quando nel gennaio 2007 ha mollato il suo suffisso "Computer" dalla vecchia dizione Apple Computer Inc, per diventare un'azienda che fa molto nell'era dell'elettronica di consumo, Apple non si è più fermata. Adesso, dopo aver creato un secondo mondo con iOS, che i suoi avversari fanno fatica a raggiungere (figuriamoci poi ad eguagliarlo) è già sulla via di farlo convergere con il primo. Mac OS X e iOS sono destinati a un matrimonio che nell'arco di un paio di anni si trasformerà in una fusione. È immaginabile di tutto: anche Mac che funzionano con processori Arm realizzati dalla stessa Apple, con un ibrido di sistema operativo, mezzo iOS e mezzo Mac OS X. Interfacce ancora più nuove, sistemi di puntamento e interazione ricchi e complessi.

Si sta rivoluzionando anche il prodotto di maggior successo negli ultimi anni, cioè il computer portatile: la Apple di Steve Jobs è stata la prima a intuire che il portatile sarebbe stata la forma dominante (insieme alle macchine All-In-One come l'iMac) dell'informatica leggera e nomade del futuro. Adesso, con batterie che superano le 12 ore, con sistemi per i quali i computer si addormentano e si risvegliano in meno di un secondo, senza bisogno di essere mai veramente spenti, e forme che vengono finalmente a dettare il passo alle tecnologie delle componenti e non più viceversa (dalle schede madri alle batterie passando per i contenitori da 2,5 pollici delle memorie SSD che diventano stick) fino alle tecnologie come Light Peak, che rivoluzionano ancora una volta il modo in cui un computer è costruito al suo interno.

Parliamo di Apple e non di Steve Jobs anche se il compleanno è di quest'ultimo perché in realtà l'azienda ha la forma dei sogni e della volontà dell'uomo. Se si riesce ad arrivare tanto lontano quanto la nostra fantasia ci permette di sognare, Steve Jobs ha sognato molto più di tutti noi, o perlomeno molto più di tanttissimi altri. Dai tempi di Icaro mai un singolo uomo aveva volato così alto e così lontano nel mondo dell'informatica e della cultura digitale. Steve Jobs continua a ritenersi un ibrido, una creatura composta da molte anime, alcune delle quali assolutamente inedite nel mondo dell'imprenditoria o della tecnologia contemporanea. Si possono far risalire a lui molte, moltissime cose, tra le quali una visione umanistica, rinascimentale del calcolatore. Macchina personale, sempre più personale secondo la sua visione che procede ininterrotta dal 1976

Oggi il giro di boa, formale, di un compleanno. Che vale a ricordare come la volontà, la fantasia e l'intelligenza contino più di ogni altra cosa. Lo Steve Jobs adottato da una coppia di californiani di classe media, dropout dal college e forse condannato in un altro universo a finire come lavoratore precario senza futuro, nel nostro mondo ha sognato di lasciare un tassello nella storia, di segnare il nostro tempo. Ci è riuscito, possiamo dire assieme all'augurio di un buon compleanno, Steve


Fonte: rsr di Antonio Dini,  da  Macity  del 24-2-2011

Giancarlo Zucconelli: «Mio il ritratto del raìs Muammar Gheddafi diventato ufficiale»

Giancarlo Zucconelli con il ritratto di Gheddafi  (FOTO MARCHIORI)

Ha disegnato e dipinto uno dei ritratti più belli del leader libico Muammar Gheddafi ma l'opera sarà per sempre anonima. E questo è il suo grande rammarico: «Non hanno voluto che la firmassi, perché loro, i libici, non avevano bisogno di nessuno: autarchia totale. Pazienza».

Ma la gigantografia che per anni ha campeggiato in tutta la Libia che ritrae il raìs Muammar Gheddafi in grande uniforme, in sella a un cavallo bardato da parata, con finimenti dorati, che si staglia su un campo di grano spuntato nel deserto è nata a Verona. Per la precisione in un atelier del centro storico, dalla matita e dai colori del celebre Giancarlo Zucconelli, vignettista del nostro giornale.

Il retroscena di questo ritratto è raccontato dallo stesso Zucconelli, in arte Zuc.

«Era il 1976», ricorda l'artista, «e una delegazione libica arrivò alla Mondadori di Borgo Venezia per stampare un libro tecnico sull'agricoltura in Libia. Avevano portato anche molte foto del colonnello Gheddafi perché volevano al centro del libro un ritratto a doppia pagina che sintetizzasse l'impegno del loro leader per lo sviluppo dell'agricoltura perfino nel deserto».

E alla Mondadori chiamano Zucconelli, che non disegna solo vignette ma dipinge e fotografa pure, collezionando mostre su mostre. Zucconelli riceve le foto e le indicazioni. «Il risultato è stato questo: Gheddafi in sella a un cavallo con bardature di pregio, di cui mi avevano fornito foto e dettagli, e sullo sfondo un immenso campo di grano che sconfina nel deserto, a testimoniare del miracolo compiuto grazie alle politiche agricole del colonnello. La delegazione libica non volle che firmassi l'opera, perché la Libia non aveva bisogno di nessuno. Il ritratto venne pubblicato nel libro, doppia pagina centrale, e a Gheddafi piacque al punto che ordinò di riprodurlo in decine di migliaia di poster, due metri e mezzo per tre, per tappezzare la Libia».

In quanto tempo riuscì a realizzare il ritratto? «Tre giorni interi. Ma quello che mi richiese più tempo e impegno furono le spighe di grano: non finivano mai...».

Fonte: da L’Arena di Verona di Mercoledì 23 Febbraio 2011, CRONACA, pagina 11(FOTO MARCHIORI)


mercoledì 23 febbraio 2011

A Verona città lavora il liutaio di Pino Daniele: è Roberto Fontanot a realizzare le chitarre del cantautore napoletano

Pino Daniele

A Verona ha lo studio Roberto Fontanot, il liutaio di fiducia di Pino Daniele.  Da Giambattista Zerpelloni Pino compera le sue chitarre nuove. E, per finire, al Guitar Ranch di Pierpaolo Adda ha registrato il video del suo nuovo singolo "Pigro", tratto dall'ultimo album "Passi d'autore".

Giambattista Zerpelloni, Pierpaolo Adda e Roberto Fontanot "lavorano" spalla a spalla: Zerpelloni è il titolare del Musical Box in Zai, Pierpaolo Adda e Roberto Fontanot hanno i loro negozi proprio all'interno della struttura di Zerpelloni.

Pino Daniele a metà degli Anni Ottanta tiene all'Arena un trionfale concerto. E forse proprio da lì è iniziato questo suo amore per la nostra città. La decisione di girare il video di "Pigro" è nata, così, proprio all'interno del Musical Box.

«Circa un mese fa Giambattista viene da me - racconta Pierpaolo Adda - e mi dice: "Preparati perché Pino Daniele vuole girare un video qui da noi". Come al solito ho risposo che non c'erano problemi».

Video che è stato girato la domenica delle Palme con inizio dei lavori alle 7.30 del mattino. «Pino, che inizialmente doveva arrivare alle 11, è arrivato alle 9 in punto - continua Adda -. Hanno girato con il regista veronese Gaetano Morbioli, e alle 14.30 Pino ha lasciato il set e la compagnia perché aveva un importante appuntamento a Roma a cui non poteva mancare. Il tutto con la solita professionalità e disponibilità che contraddistingue l'artista napoletano».

Alcune scene del video, poi, sono state girate anche sul ponte della Vittoria e al centro commerciale di San Giovanni Lupatoto. Racconta la storia di un ragazzo che vende la sua chitarra e successivamente arriva al successo in campo professionale e con le donne. Ma il tutto è senza cuore, senza la sua amata chitarra la vita non è più la stessa: tornerà così al Guitar Ranch a ricomprarla. Semplice la trama per la bella canzone di Pino Daniele, come semplici e belle sono le immagini di Morbioli.

«L'idea di girare all'interno del Musical Box - continua Pierpaolo Adda - è venuta a Pino quando è arrivato per comperare tre nuove chitarre. E il Guitar Ranch, pieno di chitarra vintage e di amplificatori, lo deve aver in qualche modo ispirato. E io sono stato ben felice di mettere a disposizione il mio piccolo spazio per girare le scene dove Pino suona con un contrabbassista. Al tutto aggiungo che Pino mi ha dato la sua prima chitarra e quella Gibson nera, "storica", chiamiamola così, che lo ha accompagnato in tanti concerti. La sua prima chitarra era una Gibson anche quella, che lui ha comperato a rate nel 1970 e di cui va ancora fiero per come ha dovuto sudare per averla».

Fonte: srs di Luca Sguazzardo da L’Arena di Verona di Mercoledì 11 Agosto 2004, SPETTACOLI,  pagina 46



martedì 22 febbraio 2011

Un veronese conquista il mito dei Deep Purple: Le chitarre del liutaio Roberto Fontanot a Ritchie Blackmore


Altro colpo di prestigio per ROBERTO  FONTANOT  

Il liutaio veronese nei giorni scorsi ha consegnato due chitarre acustiche di sua produzione a Ritchie Blackmore, l’ex chitarrista dei Deep Purple.

Una cosa non facile, diciamolo subito. Ritchie Blackmore vive da oltre dieci anni in una specie di misticismo medievale e solo i suoi fan più accaniti, e in Italia ce ne sono tantissimi, lo possono avvicinare. Sempre a determinate condizioni.

A Fontanot  è stato chiesto dal presidente del fan club italiano di Blackmore se voleva approfittare del recente italiano tour del gruppo Blackmore’s Night per incontrare il musicista di «Smoke on the water», uno dei più famosi riff di tutta la storia della musica rock. Detto fatto. L’incontro è stato organizzato a Mantova al Teatro sociale, in una delle tappe del recente tour italiano della band.


«All’inizio ero molto incerto», confida Roberto Fontanot . «Non è una leggenda la fobia di Blackmore per tutto quello che significa contatti umani e rapporti con la gente.
Dopo il concerto di Mantova mi ha fatto aspettare oltre un’ora con le chitarre in mano. Quindi è arrivato l’addetto alla sicurezza e ha voluto vedere le chitarre. Per me sarebbe stato più che sufficiente questo. Poi, all’improvviso, ecco che sono stato accompagnato nel camerino di Blackmore assieme a una componente del fan club italiano».
Fontanot  alla fine dell’incontro, durato all’incirca 30 minuti, ha ricevuto l’ordine per una terza chitarra. «Vedere il musicista che ha scritto forse il riff più famoso della storia della musica rock suonare una delle mie chitarre è stato fantastico ed emozionante allo stesso tempo», continua Roberto.
«Ma il bello è che Blackmore ha immediatamente cambiato atteggiamento dopo la prima nota complimentandosi per la cura con cui sono stati costruiti gli strumenti, il bilanciamento e soprattutto il suono. E detto da lui…».


Ritchie Blackmore, 61 anni, dopo aver lasciato nel 1993 i Deep Purple, gruppo fondamentale del rock e ancora in attività, si è dedicato a una sorta di reminescenza musicale medievale che ha lasciato senza parole molti fan della band.
Un genio della sei corde che vive praticamente in un’altra dimensione, con un solido e agguerrito zoccolo duro di fan che lo segue in questa bizzarra avventura. Non è strano, infatti, vedere ai concerti del Blackmore’s Night ragazzi in costume medievale.
«Devo dire la verità», conclude Fontanot : «mi ha fatto un certo effetto vedere Blackmore con un abbigliamento del genere. Ma lui è fatto così. E mi ha colpito la disponibilità, alla fine, che ha dimostrato nei miei confronti. Ad essere sincero non me lo sarei mai aspettato».

Lontanissima la serata del 7 settembre del 1987 quando i Deep Purple suonarono in Arena…


Fonte: srs  di Luca  Sguazzardo da L'Arena di Verona  del 06.06.2007


lunedì 21 febbraio 2011

Amplificatore Ming Da Mc 34 B

Ming Da,  Mc 34 B

Il mio vecchio amplificatore Kenwood, dopo quasi tre decenni, ha deciso di abbandonarmi.   Indeciso  sul da farsi, ovvero se sostituirlo con un  impianto  audio integrato,  o  di ascoltare  solo musica “liquida” dal computer, ho provato ad  analizzare  per alcuni giorni quale poteva essere la soluzione migliore,  ma il risultato era  sempre lo stesso: non sì poteva barattare il piacere  dell’ “alta fedeltà” con la musica di  un racket  “hi fi, tutto compreso”.
Ho provato pertanto a girare i centri commerciali del  Veronese per vedere cosa potevo trovare:  moltissimi amplificatori audio/video per l’ home  cinema,  qualche amplificatore di media qualità, ma nulla di particolare e, soprattutto, nessun usato,  sì perché noi di una certa età cerchiamo anche l’usato, non possiamo buttar via soldi! Alla fine ho deciso di contattare AUDIO AUTOCOSTRUZIONE di  Sbisà  Giovanni, ed ho preso l’appuntamento e voilà a Carpi.

 Il sig, Giovanni si è mostrata  una persona cordialissima;  i prodotti in esposizione sono molti, alcuni sono usati, ma tutti di alta qualità.  Li ho osservati, valutati, ed … ascoltati.  Ho deciso quale prendere, ma prima ho chiesto al sig.  Giovanni di  togliermi una curiosità:  volevo sentire un amplificatore valvolare, non mi era mai successo precedentemente  di udirne uno.

Giovanni mi ha mostrato un piccolo integrato cinese, l’ entry level della Ming Da, il Mc 34 B, da 30 watt, per giunta usato.  Lo collega ed è stato ….amore a prima vista, anzi al primo suono.  Sono   rimasto contagiato  dal suono delicato,   gli altoparlanti sembravano scomparire e la spazialità della riproduzione aumentava. Il prezzo  buono, mi ha aggiunto un  cavo schermato di alimentazione: affare fatto!!

La prova a casa è stata ancora più avvincente. Le mie vecchie casse MK si sono trasformate, non sembravano  più le stesse, tutto più  piacevole  e dettagliato. La magia delle valvole ha fatto una nuova vittima.


domenica 20 febbraio 2011

SALVIAMO L’ ALTA FEDELTA’ SALVIAMO IL NOSTRO STEREO


Londra, inizi del '900. Una coppia è preoccupata per il proprio figlio che sembra non avere molto interesse per qualsiasi cosa faccia e sembra non riuscire a prestare attenzione alla stessa attività per più di qualche giorno.  Che ci sia qualcosa di sbagliato in lui?  Dopo tutto, non va molto bene a scuola e non ha ambizioni evidenti.  Il ragazzino in questione è vissuto dentro al suo piccolo mondo fino a quando, un giorno,  è inciampato nella nuova scienza dell'elettronica.

Qualcosa in lui è scattato. Questa era una materia che lo interessava. In effetti, più che interessarlo, è stata la chiave che ha sbloccato il suo interesse creativo e che ha permesso che fluisse il suo genio naturale. Ha recuperato rapidamente il tempo perso riguardo alla mancanza di un titolo accademico, prima di scoppiare come un raggio di sole nel mondo dell'elettronica, un numero sconcertante di brevetti, ben 128, prima che la sua vita finisse in un bombardiere in volo su Halifax il 7 giugno 1942 (qualche settimana prima del suo trentanovesimo compleanno), mentre stava continuando il proprio lavoro sui radar.  Il suo nome era  Alan Dower Blumlein.

Alan Dower Blumlein.

Nel suo cammino ha inventato la stereofonia.  In effetti, aveva anche pensato all'audio multicanale ed a come sarebbe potuto essere usato, ma si era reso conto che era possibile ricreare un avvenimento audio realistico con soli due canali.  Blumlein non si fermò alla sola teorizzazione. Si è seduto ed ha sviluppato i prototipi (per l'incredulità e la fortuna della EMI) ed ha sviluppato l'intera catena, dall'inizio alla fine,  ivi comprese le tecniche di registrazione. Egli definì le basi della tecnica di registrazione stereofonica con il microfono, la  "figura ad otto", usato ancora oggi con buoni risultati dai più moderni e preparati ingegneri del suono, specialmente quelli coinvolti nella riproduzione della musica classica.

Tecnica Blumlein

Essi sanno anche che, se propriamente utilizzate, le tecniche di registrazione sviluppate da Blumlein negli anni 30 possono fornire tutte le informazioni spaziali di cui abbiamo bisogno, accoppiate ad un grado di realismo nel catturare l'acustica e la performance originale, che non è stato più migliorato da allora. Potete sentirlo voi stessi su alcune delle migliori registrazioni di musica classica (ed a volte anche di jazz). Questo è anche il motivo per cui alcune semplici registrazioni fatte negli anni cinquanta suonassero così bene, prima che qualcuno cominciasse a distruggere tutto con l'inserimento di missaggi e manipolazioni varie all'interno del processo di registrazione.

Una buona registrazione stereofonica può fornire un  soundstage completo con l'esatta disposizione dello strumento e le giuste informazioni di profondità. Nelle registrazioni di operistica (sempre un buon test di prova per gli impianti hifi) si possono seguire esattamente i solisti mentre si muovono sul palcoscenico e le voci che arrivano dalla parte posteriore del palco stesso, o persino quando siano completamente fuori dal palcoscenico, come succede a volte. Può fare tutto questo con una larghezza di banda completa, con una dinamica che catturi non solo la performance artistica, ma anche la particolare acustica in cui è stata fatta la registrazione. In effetti i più attenti ascoltatori amanti di operistica e musica classica possono perfino affermare in quale particolare luogo sia stata registrata, identificando i sottili indizi acustici sempre presenti in una vera registrazione stereofonica.

Una registrazione multitraccia pesantemente ritoccata in studio di registrazione sacrifica questa informazione a fronte di un maggiore controllo della percezione della presenza di ogni strumento. Un ben misero guadagno.

Allora perché dovremmo aver bisogno di più di due canali? Che cosa sono tutte queste assurdità sull'Home Cinema, il 5.1 ed il 6.1? Certo il suono al cinema è sempre stato più rivolto agli effetti che non alla riproduzione accurata.

Ricordate le prime colonne sonore "stereo" e le variazioni successive sul tema, come i "Sensurround" e altri imbrogli vari dove i suoni vengono fatti rimbalzare fra i vari diffusori fino a quando non siete completamente storditi. Pallottole che fischiano da sinistra a destra ecc. ecc. Questi effetti piacciono particolarmente ai produttori di film. Può anche darsi che servano a distogliere l'attenzione da una trama poco più che banale.

Ai produttori di elettroniche piace poi ancora di più, perché possono proporre sempre nuovi prodotti. Con sei o sette canali essi possono vincere una vittoria campale, e vuotarvi i vostri portafogli sei o sette volte più velocemente.

Forse se avessimo sei o sette orecchie questo potrebbe essere giusto, ma non le abbiamo. Madre Natura era d'accordo con Alan Blumlein nel dire che due canali erano tutto quello che ci voleva per catturare realisticamente un evento sonoro.

E' inoltre tutto ciò che serve per riprodurre un evento sonoro. Pensateci su. Quando siete in una sala da concerto o in un teatro di opera il suono emanato dagli esecutori si distende davanti a voi. Il suono che sentite (attraverso il vostro sistema uditivo stereo) è una miscela di suono diretto e riverberato. Quello è il suono di diversi strumenti e delle voci, più il suono degli echi riverberati poichè le onde sonore viaggiano verso voi, rimbalzando sulle superfici riflettenti o venendo parzialmente assorbite lungo il percorso, fornendovi quindi le informazioni sul posizionamento ed il suono.

Quando il soprano canta, non sentite la sua voce provenire voi da 5+1 o 7+1 direzioni – ne' Dio ne' Verdi l'hanno pensata in questo modo. No, la sentite perfettamente localizzata nello spazio, con la sua voce che riflette la particolare acustica del posto in cui viene a cantare. Così come un buon ensemble jazz.  Parte del divertimento all'interno di un jazz club è vedere e sentire i musicisti interagire l'un l'altro sul palcoscenico.  Vi immaginate come potrebbe essere se ogni musicista fosse in un angolo differente del jazz club e voi seduto nel mezzo? Non è questo il modo in cui la Natura ha inteso il jazz - ed allora perché provare a ricrearlo in questo modo?

Potreste sostenere che molta musica moderna viene registrata su più canali (spesso strumenti elettronici che vengono direttamente registrati senza alcun riverbero naturale) e quindi possa essere mixata in qualsiasi modo vogliate, compreso il suono surround con 5.1 o 6,1 canali, con gli effetti speciali che riempiono l'aria come se fossero api in un caldo pomeriggio estivo. Sì, davvero.  Ma cosa c'entra tutto questo con la riproduzione di un avvenimento musicale?  I musicisti non stavano ronzando intorno allo studio a centocinquanta chilometri all'ora, suonando i propri strumenti mentre correvano di qua e di là.  Non erano sparsi nell'edificio, pronti a farsi sentire da ogni dove per un assolo.

Ancora, in una classica stanza d'ascolto media, installare un sistema come questo può generare soltanto un'esperienza d'ascolto non naturale. Naturalmente, ci saranno quelli che diranno che i canali in più possono essere utilizzati semplicemente per il riverbero e quindi per ricreare l'ambiente acustico originale, anche se è altamente improbabile che una qualunque registrazione multicanale sia stata fatta proprio per questo motivo.  Ma perché? Quando potete già fare questo con due canali, perché aggiungere maggiori complicazioni e maggiori distorsioni?

Non giudicatemi male, non ho nulla contro il suono multicanale del cinema per i film in cui gli effetti speciali (ma interamente artificiali) sono inclusi come parte del divertimento.  Ma questo non è alta fedeltà. Lasciatemelo dire ancora una volta - QUESTA NON È ALTA FEDELTÀ.

Allo stesso modo se le persone desiderano (provare a) riprodurre l'esperienza del cinema in casa, bene. È una loro legittima scelta. Ma non è alta fedeltà.  Così smettiamo di chiamarla alta fedeltà e di confondere la meravigliosa invenzione di Alan Blumlein con i ben più cinici piani di marketing della moderna industria di elettronica di consumo.

Il pericolo, ed è un pericolo veramente reale,  è che la registrazione e la riproduzione stereo genuina scompariranno non appena la macchina di vendita si concentrerà “sul cinema in casa” per l'intero mercato.  All'inizio,  i mezzi di comunicazione hi fi intellettualmente meno dotati, realizzeranno servizi sulle apparecchiature home cinema viste come validi strumenti per la riproduzione musicale, dedicando a tali componenti recensioni entusiastiche, dimenticandosi tutti i problemi di fase che questi comportano (e tutto ciò sta già accadendo)

Prima che ve ne rendiate conto, non venderanno più elettroniche stereo,  ad eccezione di costosissimi ed irrilevanti componenti "High End".  Poi derideranno le registrazioni stereo come “fuori moda” e si concentreranno soltanto sui media per la riproduzione multicanale.

Alla fine, non ci sarà più lo stereo vero e proprio e nessun realismo.  Solo musica artificiale, sparata verso di voi da ogni angolo della stanza. Quando succederà, la magia dell'invenzione di Blumlein sarà persa per sempre. Non sarà più possibile chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare in un grande evento musicale alla Scala o all'Albert Hall.  Le generazioni future non sapranno mai che cosa significa ricreare fedelmente un evento musicale in casa propria. Notate che questo era l'obiettivo della stereofonia quando fu, diciamo così, inventata, quindi il nome "alta fedeltà" come alta fedeltà all'avvenimento sonoro originale.

Ecco perché dico SALVIAMO IL NOSTRO STEREO.  Dobbiamo conservare la magia del vero suono stereofonico per le generazioni future. Dobbiamo fare in modo che le Majors si concentrino sull'Hi-Fi, non sull'Home Cinema. Dobbiamo influenzare le principali industrie di elettronica di consumo a continuare a supportare il suono a due canali. Dobbiamo incitare la comunità radiofonica a conservare e sostenere le registrazioni stereo. Dobbiamo incitare le aziende tradizionali di musica a conservare e sostenere le registrazioni stereofoniche. Se ci fermiamo ad aspettare silenziosamente, in cinque anni non ci saranno più componenti ad alta fedeltà accessibili (se si escludono "i mini" compatti plasticosi che vendono nei negozi di elettronica e negli ipermercati), solo kit home cinema, ed alcuni esoterici componenti stereofonici dal prezzo esorbitante, fuori portata da tutti coloro che non siano ben riforniti di soldi.

Questo anno (2003) è il centesimo anniversario della nascita di Alan Blumlein.  Celebriamolo sostenendo la vera stereofonia contro l'assalto del rumore multicanale guidato da una industria di elettronica senza scrupoli. Come sapete, stiamo organizzando un elenco on line di veri sostenitori della stereofonia, per dimostrare ai giganti dell'elettronica di consumo che non desideriamo perdere questa particolare parte di magia. Trovate tutte le istruzioni nell'articolo We Support Real Stereo. Le adesioni, alcune sorprendenti e molto prestigiose, non sono mancate. Stiamo lavorando ad un elenco completo di sostenitori.

© 2003 Copyright Julian Ashbourn - www.tnt-audio.com

Traduzione italiana ed HTML: Danilo Ronchi

Fonte: srs di   Julian Ashbourn   da   TRT AUDIO