lunedì 31 maggio 2010

Etiopia: Italiani, gente non tanto brava

Morti etiopi ammassati dopo l'attacco di Graziani

Nel monastero di Debre Libanos, dove sessantotto anni fa gli uomini del maresciallo Graziani massacrarono a sangue freddo forse duemila fra monaci e pellegrini per vendetta.

Di Emiliano Bos

Debre Libanos. Inerpicarsi nella stagione delle piogge sui monti Entoto, alle spalle di Addis Abeba, è come essere catapultati in una cartolina delle Highland scozzesi. Cielo plumbeo e un caleidoscopio di tonalità di verde. Abbandonate le ultime baracche della capitale, la strada si attorciglia in tornanti, porta a un valico che spalanca gli altipiani dello Scioà, culla degli imperatori d'Etiopia.  All'alba, una teoria infinita di donne, adolescenti e anziane - a piedi nudi - scende in senso opposto verso la città. Sulla testa, il fardello di fascine di legna: moneta di scambio dell'economia informale al mercato di Addis Abeba, distante ancora un'ora di cammino.  Qualche chilometro più in là ci si rende conto dell'interminabile salita che queste sherpa etiopi hanno percorso insieme ai loro muli prima di svalicare in discesa verso la capitale. Lo stradone ora s'allarga: l'antica direttrice - che conduce ai santuari ortodossi a nord del Paese e alla valle del Nilo - porta le cicatrici del periodo coloniale. Conduce a uno dei luoghi della memoria più tristi dell'occupazione fascista tra il 1935 e il `41: il monastero di Debre Libanos, dove un numero ancora imprecisato di monaci, diaconi e pellegrini - di certo oltre 1.400, probabilmente più di 2.000 - venne massacrato per rappresaglia all'attentato cui scampò nel 1937 ad Addis Abeba il maresciallo Rodolfo Graziani, Viceré d'Etiopia.

«La pagina più odiosa del colonialismo italiano»,  la bolla Angelo Del Boca, storico e giornalista, studioso di quel periodo.

Cento km d'asfalto

«Di recente la strada è stata riasfaltata grazie alla generosità dei giapponesi, ma solo per cento chilometri» sogghigna Meskel, che guida con disinvoltura il fuoristrada. A destra e a sinistra praterie verdissime, punteggiate di capanne. I cow-boy dell'altopiano cavalcano avvolti nel gabi, un mantello bianco che li fascia stretti. Eucalipti, acacie e qualche agave. Distese di tef, il cereale usato per impastare l'injera, il pane soffice che è qualcosa di più di un piatto nazionale. Un'improbabile stele - di dubbio gusto proprio qui, nella terra che ha generato questi monumenti funebri - conferma a imperitura memoria dei non molti automobilisti di passaggio l'investimento di riqualificazione stradale del governo nipponico. Una curva brusca a destra e il terreno d'improvviso sconnesso introducono al santuario di Debre Libanos.

Benvenuti nella Lourdes d'Etiopia.

 «Vaticano» degli ortodossi. Santuario fondato nel XIII secolo - si dice - da Tekla Haimanot, uno dei santi più venerati di tutto questo paese, che oggi con oltre 70 milioni di abitanti è il secondo più popoloso dell'intera Africa. Con le sue 85 comunità etniche è un mosaico di popoli e culture quasi unico nel continente. I fedeli arrivano qui a migliaia a bordo di ogni mezzo di trasporto. Poi camminano qualche chilometro prima di raggiungere la spianata del santuario. Sul ciglio della strada pellegrini, mendicanti, venditori di souvenir religiosi, anziani, piccoli vestiti di cenci, aspiranti parcheggiatori per i veicoli dei pochi turisti. Ma soprattutto una distesa di ammalati, storpi e menomanti: qui la cecità costituisce ancora un handicap diffusissimo (6 medici ogni 100.000 abitanti), una condanna senza appello alla miseria. È olfattivo il primo impatto sul piazzale del monastero: un fetore acre prende lo stomaco. L'odore della malattia.
Dell'antico edificio non resta più nulla, incenerito nelle lotte secolari tra cristiani e musulmani. Quella attuale è una chiesa costruita nel 1961 per volontà di Hailé Selassié. Il cupolone ora accesso dal sole sovrasta due blocchi cubici marmorei, sulla facciata le vetrate istoriate filtrano i raggi. Il caravanserraglio di rumori sembra fermarsi davanti alla sobria cancellata d'ingresso. Sul piazzale si prega sotto variopinti ombrelli colorati, spicchi color arcobaleno usati nelle cerimonie ma utili anche per difendersi dal caldo che inizia a picchiar forte. Quello che non si vede, dal sagrato, è la posizione mozzafiato di questo tempio. Abbarbicato sugli strapiombi di una rupe che poi precipita in un canyon scavato dall'erosione delle acque, non lontano dal leggendario Nilo Azzurro.

Cospiratori eritrei

In questo luogo sacro e isolato cercarono rifugio Moges Asgedom e Abriha Deboch, i due giovani cospiratori originari dell'Eritrea che lanciarono una gragnola di bombe a mano contro Graziani nel febbraio di 68 anni fa. Ne è certo Jan Campbell, esperto di sviluppo sostenibile della Banca Mondiale e appassionato ricercatore della storia recente d'Etiopia. «Fuggirono probabilmente nella notte da Addis Abeba a bordo di una Plymouth americana, come mi ha confermato Ato Tebeba Kassa, un testimone dell'epoca», racconta per telefono da Washington.
Le truppe italiane, dopo aver disseminato di morti la capitale etiopica («con gli strumenti del più autentico squadrismo fascista», annotò Ciro Poggiali, inviato speciale del Corriere della Sera), salirono a nord verso l'antico santuario copto, sotto i comandi del generale Pietro Maletti.

Del Boca ha ricostruito che nella loro marcia di avvicinamento a Debre Libanos, gli zelanti esecutori fascisti - tra cui i «feroci eviratori della banda di Mohamed Sultan» - bruciarono oltre 115.000 tucul (le tipiche capanne), tre chiese, un convento e 2.523 ribelli.
Giunti nella zona del santuario, Maletti ricevette le prove di una rapida inchiesta che avrebbe confermato la complicità dei monaci di Debre Libanos con gli attentatori.
In risposta, Graziani telegrafò a Maletti: «Passi per la armi indistintamente tutti i monaci, compreso il vicepriore». «La carneficina - dice oggi Del Boca - venne compiuta senza un minimo di certezza, ma solo per il sospetto che due eritrei coinvolti nell'attentato si fossero rifugiati dai monaci».
L'indagine dei carabinieri «fu troppo rapida, si comportarono in modo ignobile» aggiunge il professore torinese, 80 anni, che sta scrivendo un altro libro sul periodo coloniale, nel quale rievoca questo massacro (eloquente il titolo del volume: «Italiani, brava gente?»).

Le ricerche storiche hanno permesso ormai di costruire con ampi margini di chiarezza quello che avvenne: monaci, sacerdoti, diaconi, pellegrini e il vicepriore di Debre Libanos, vennero passati per le armi. «Maletti - spiega ancora Del Boca - si trovò davanti circa 4-5000 persone e fece una selezione. Se le cifre di Campbell e dello studioso etiope Degife Gabre Tsadik sono corrette, le vittime potrebbero essere oltre 2.000. Furono massacrati anche i poveri pellegrini arrivati il giorno prima a Debre Libanos». Alcuni vennero uccisi nella zona del convento; i cadaveri vennero trasportati con i camion verso il canyon a sette-otto chilometri dal luogo del crimine. Altri invece, sempre a bordo di camion, furono portati in un villaggio isolato e finiti a colpi di mitragliatrice sul bordo di un dirupo, precipitando nella gola di un torrente.

Radicale repulisti

Era il «radicale ripulisti» voluto da Graziani e già compiuto contro tutti gli oppositori ad Addis Abeba nei due mesi successivi all'attentato.
Il Viceré - ricevuto da Maletti un dettagliato resoconto dell'eccidio - inviò soddisfatto questo telegramma al Duce: «È titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'Abuna all'ultimo prete o monaco».
 Più che farle tremare, quelle viscere vennero disseminate nella stretta gola di Zega Waden, una manciata di chilometri a nord del monastero. «A Laga Wolde, presso il villaggio di Shinkurt'» conferma Campbell, che di quella terribile esecuzione di massa possiede uno schizzo preciso, eseguito forse da un italiano. Mostra la stretta gola asciutta di un torrente, i camion carichi delle vittime predestinate, e i treppiedi delle mitragliatrici posizionati per aprire il fuoco: i fucili dei plotoni di esecuzione, infatti, non sarebbero bastati. Sotto il precipizio, resta una desolante «valle della morte», dove negli Anni Novanta Campbell e Gabre Tsadik hanno ritrovato teschi, ossa e frammenti di tuniche bianche corrose dal tempo.

«L'ultimo testimone del massacro è morto qualche mese fa» ci dice il diacono Belet Agash, una delle guide del monastero. «
Nel maggio del 1974 la gente ha raccolto le ossa dei caduti di Shinkurt' e ha costruito questo piccolo sacrario» aggiunge Belet, anch'egli avvolto in un pesante gabi bianco, con un cappello di lana calcato sulla fronte. All'esterno della cancellata del monastero mostra l'unico monumento funebre dell'eccidio di Debre Libanos. Un piccolo edificio in muratura bianca, a un piano, circondato da una piccola balaustra di ferro e erba incolta. Sono sul tetto ci sono dei ragazzini. Un targa in amarico ricorda la strage di monaci e pellegrini. Impossibile entrare. «All'interno ci sono tre casse con le ossa di circa seicento persone». E le altre? Il diacono alza le spalle, come a dire «Non so». Probabilmente, sussurra, sono ancora nel dirupo. Sicuramente dimenticati dalla storia e dagli italiani. Forse anche dagli etiopi.

Guerre d'Africa dell'Italia nera

«Con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni. Ora basta!»: così il 2 ottobre 1935 Benito Mussolini annuncia l'inizio della guerra contro l'imperatore Hailé Selassié. È l'ultima tappa della disastrosa avventura coloniale italiana e fascista. Dopo la clamorosa batosta di Adua nel 1896, la campagna di Libia nel 1911-12, la conquista della Somalia (in realtà «affittata» dal sultano di Zanzibar per 150.000 sterline e poi comprata) il Duce vuole un impero.
All'inizio di maggio del 1936 il generale Pietro Badoglio conquista Addis Abeba: Mussolini proclama l'Impero italiano d'Etiopia e assegna la corona a Vittorio Emanuele III. Il prezzo pagato dagli etiopici è enorme: nella campagna militare sono utilizzati in modo indiscriminato gas chimici e armi batteriologiche. Secondo Angelo Del Boca, fino al 1939 vengono sganciate 2.121 bombe all'iprite, per un totale stimato in 500 tonnellate. Negli archivi italiani sono conservati i telegrammi del Duce che autorizzano «l'uso di qualunque gas e dei lanciafiamme su vasta scala». L'Etiopia è la pagina più tragica dell'intero periodo.
Dopo l'attentato dal quale scampa il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba, il viceré Graziani lancia una durissima rappresaglia. In pochi giorni mette a ferro e fuoco la capitale. Camicie nere, civili italiani ed ascari libici sterminano un numero imprecisato di etiopi: 1.000 morti secondo Graziani, da 1.400 a circa 6.000 stando ai testimoni stranieri, oltre 30.000 per la storiografia etiopica. «Sto facendo fare tabula rasa senza misericordia» scrive il Viceré al Duce: oppositori, ribelli, l'intellighenzia della comunità Ahmara - deportati in veri campi di concentramento. La vendetta si abbatte poi su indovini e cantastorie, accusati di vaticinare la caduta dell'impero. Infine sul clero, come dimostra la strage di Debre Libanos. I
 massacri perpetrati dagli italiani provocano una sollevazione che in breve porta alla sconfitta del fascismo in Africa. Il Duce - di lì a poco - trascina l'Italia e l'Europa nell'abisso del secondo conflitto mondiale, facendo dimenticare il genocidio africano e i crimini di guerra coloniali, rimasti a tutt'oggi impuniti. (ma. bo.)

Fonte: srs di Emiliano Bos da il manifesto - 05 Maggio 2005

domenica 30 maggio 2010

I deportati dalla Libia in Italia


Omar El Mukhtar, capo della resistenza libica, dopo l'arresto e prima dell'esecuzione


Intervista a Angelo Del Boca «La guerra del 1911 crimine della nostra storia.». Domani ( 29 ottobre 2007) un convegno a Roma

I danni di guerra sono stati rimborsati con taccagneria. Resta aperto il contenzioso con la Libia di Gheddafi che si aspetta a saldo dei suoi 100mila morti non promesse materiali ma il riconoscimento del loro sacrificio negato 29 ottobre 1911, alle Tremiti e a Ustica sbarcano i primi 2.975 esiliati. Presi a caso per le strade di Tripoli, stivati a forza nelle navi, senza alcuna prova di colpevolezza. Fra di loro bimbi in tenera età, donne e vecchi. Molti non sopravvivranno

Tommaso Di Francesco

Si apre domani, 29 ottobre, all'Archivio centrale di stato (ore 10, piazzale degli Archivi, 27) il convegno «I deportati libici in Italia negli anni 1911- 1912».
La data del 29 ottobre è stata scelta perché è quella dell'arrivo della prima nave di esiliati libici nelle Isole Tremiti. Il Comune del piccolo arcipelago è il promotore dell'iniziativa. Che ha il patrocinio del Ministero degli esteri italiano, la collaborazione dell'Ambasciata libica, dell'Isiao, insieme alla collaborazione dei comuni di Favignana, Ponza e Ustica, che hanno avuto il triste primato di avere ospitato i luoghi di detenzione dove si è consumata la vita di centinaia e centinaia di disperati. Abbiamo rivolto alcune domande ad Angelo Del Boca storico del colonialismo italiano.

L'avventura coloniale italiana in Libia (1911-1943) mostra da subito particolari forme di repressione: rappresaglie, uso di gas asfissianti proibiti e bombe incendiare contro i civili, i primi campi di concentramento per civili del ventesimo secolo.  Perché questa violenza rabbiosa e diffusa, tanto che lei nelle sue opere parla di genocidio?

La reazione violenta e rabbiosa delle autorità civili e militari italiane fu causata, innanzitutto, dalla spiacevole sorpresa di vedere che i libici solidarizzavano, al momento dello sbarco, nell'ottobre del 1911, con le truppe turche di guarnigione ed anzi costituivano i reparti più aggressivi. Giolitti, male informato, era persuaso che gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica attendessero l'arrivo degli italiani con autentica gioia. Deluso ed irritato, inviava al generale Caneva quei nefasti telegrammi con i quali ordinava stragi e deportazioni. Non soltanto gli italiani avevano sottostimato il patriottismo arabo, ma erano convinti che un «popolo di beduini» non sarebbe stato in grado di opporre una valida resistenza. Dovevano amaramente ricredersi. Già il 23 ottobre subivano, a Sciara Sciat, una pesante sconfitta con un bilancio di 21 ufficiali e 482 soldati uccisi. Ma non era che l'inizio. Nel 1915, durante la «grande rivolta araba», gli italiani avrebbero perso tutti i territori conquistati ed avrebbero conservato soltanto alcuni porti, dopo una frettolosa e disperate ritirata che era costata diecimila morti.
Ci vollero vent'anni per riconquistare integralmente la Libia e l'uso di tutti i mezzi, compresi quelli proibiti. In effetti, la civilissima Italia giungeva ad impiegare l'iprite e il fosgene sulle popolazioni civili, nonostante che il governo di Mussolini avesse firmato la convenzione di Ginevra che proibiva l'impiego dei gas.

Quanti furono i deportati libici nel paese, gli esiliati fuori dalla Libia nelle isole italiane che allora erano tra i luoghi più impervi e malsani, e quante le vittime di questa repressione di massa?

I deportati libici in Italia superarono i 4 mila nel solo ottobre del 1911. In seguito, dopo ogni rovescio, le colonie penali italiane vedevano giungere altri confinati, dei quali però non è stato possibile tenere precisa contabilità. Siamo, invece, molto più informati sui libici che furono internati nei campi di concentramento del Sud-Bengasino e della Sirtica. Come è noto, l'idea di rinchiudere in tredici lager gran parte della popolazione della Cirenaica venne al generale Badoglio quando si accorse che la controguerriglia tradizionale non dava alcun frutto ed era assolutamente necessario isolare Omar el-Mukthar e i suoi mugiahidin.
Scriveva infatti Badoglio e Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione». Badoglio era perfettamente consapevole del pericolo che incombeva sui libici, ma non modificò i suoi piani. Il risultato fu che dei 100 mila libici internati nei lager, 40 mila morirono per le epidemie, le spaventose condizioni igieniche dei campi, la scarsa e cattiva alimentazione, le frequenti decimazioni.

Quanto la mancanza di una memoria storica accettata - tuttora i libri di testo italiani non menzionano queste atrocità ed è ancora impossibile vedere il film sull'eroe libico Omar el-Mukhtar giustiziato dalle truppe d'occupazione fasciste guidate da Graziani - ha alimentato al contrario il mito di una occupazione italiana bonaria, alla «brava gente»?

Ovviamente su tutto ciò che accadeva di violento e negativo in Libia l'opinione pubblica italiana non veniva informata. La censura era rigidissima sia nel periodo della liberaldemocrazia che durante il ventennio fascista. Ma ciò che sorprende e indigna è che il silenzio sulle deportazioni e le stragi, consumate in Libia come in Etiopia, è stato mantenuto in Italia anche nel secondo dopoguerra, a libertà e democrazia ristabilite.
Ancora oggi i testi scolastici, salvo poche eccezioni, ignorano quei gravissimi fatti o li minimizzano. E si dà il caso che un film sulla resistenza libica, «Il leone nel deserto», sia stato in pratica proibito e visionato soltanto nei cineclub. Ciò che prevale ancora oggi in Italia, nonostante le precise ed assordanti rivelazioni sui misfatti del colonialismo italiano, è una visione mitica e bonaria delle nostre imprese coloniali.

In che modo questa responsabilità storica ha costituito e costituisce un elemento irrisolto di quello che il governo libico chiama «mancato risarcimento delle vittime»? Cosa chiede ancora la Libia che non non riusciamo ad esaudire ma che promettiamo soltanto?

I risarcimenti dei danni di guerra, richiesti dalla Libia e dall'Etiopia, sono stati rimborsati con estrema taccagneria, al punto da aprire, specie con la Libia di Gheddafi, un eterno contenzioso. Si è allora cercato, con altrettanta grettezza, di saldare il debito materiale e morale con la promessa di costruire un ospedale o una strada litoranea. Ma ciò che si attendono veramente i libici, a saldo dei loro 100 mila morti, non sono tanto dei beni materiali quanto il riconoscimento del loro sacrificio, della loro dignità troppo a lungo calpestata, del loro patriottismo sovente negato. Salvo alcune nobili parole dell'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema, il 1º dicembre 1999, dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, i vertici dello Stato italiano continuano ad ignorare i fatti e i loro debiti morali.

Come giudichi questa iniziativa nella quale, dopo il mausoleo allestito alle Tremiti l'anno scorso, proprio le piccole isole della deportazione prendono la voce della memoria?

Mi sembra estremamente lodevole che sia stato il sindaco delle Isole Tremiti a convocare questa giornata di studi sui deportati. E' proprio nelle Tremiti e ad Ustica che sbarcano, tra il 29 ottobre e il 3 novembre 1911, i primi 2.975 deportati. Sono stati raccolti a caso per le strade di Tripoli e poi ammucchiati nelle stive delle navi, senza alcuna prova di colpevolezza. Fra gli esiliati ci sono bimbi in tenera età, donne e persino un vecchio di 90 anni. Molti non sopravviveranno ai rigori della prigionia, alla cattiva alimentazione, all'angoscia per la separazione dai famigliari.

La disperazione dei deportati libici rimanda alla nuovissima tragedia dell'immigrazione che fugge dalla grande miseria dell'Africa. Non ti sembra che permanga una forma malcelata di colonialismo nella pressante richiesta da parte italiana e europea - il muro di Shengen - alla Libia perché si trasformi in gendarme degli immigrati?

I Centri istituiti in Libia negli ultimi anni, nell'ambito della lotta all'immigrazione clandestina, con il consenso e il finanziamento delle autorità italiane, non si possono configurare certo come autentici campi di concentramento, ma essi rientrano tuttavia in quel novero di strumenti odiosi che credevamo estinti. Pertanto rivolgiamo un invito alle autorità italiane e libiche a ricercare strumenti più umani per risolvere i problemi della convivenza. Aggiungere sofferenze a sofferenze non fa che acuire il contrasto fra il sud e il nord del pianeta, con tutte le conseguenze che sappiamo.

Fonte: srs di Tommaso Di Francesco;  da  Il manifesto 28 ottobre 2007


«Alle Tremiti siamo in 400, come tutti gli esiliati libici morti»

Nell'isola è stato edificato nel 2006, sopra la grande fossa comune, il primo mausoleo italiano per i deportati libici. Il sindaco Calabrese: «Per restituire dignità»

Tommaso Di Francesco

«I« deportati libici in Italia negli anni 1911-1912»: è il titolo del convegno che si apre domani, lunedì 29 ottobre 2007, a Roma presso l'Archivio Centrale dello stato (piazzale degli Archivi, 27 - ore 10) organizzato dal Comune delle Isole Tremiti, con il patrocinio del Ministero degli esteri e in collaborazione con l'Ambasciata di Libia, l'Isiao - Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente, l'Archivio centrale dello Stato, il Centro studi storici di Tripoli, e ancora piccole isole che hanno visto la deportazione coloniale come i comuni di Favignana, Ponza, Ustica. Ed è sicuramente un dato di valore che una memoria così troppo spesso non accettata, quella del colonialismo italiano, sia invece ricordata dalle piccole isole che, stavolta sono state capaci di coinvolgere con la loro iniziativa anche il governo italiano.

«Il senso di questa iniziativa - ci spiega Giuseppe Calabrese, sindaco delle Tremiti - è innanzitutto questo: noi isolani abbiamo voluto restituire dignità a persone che non ci sono più, di qualunque nazionalità siano, perché la dignità non ha colorazioni particolari, e che finora invece erano stati quasi cancellati, messi alla rinfusa in anonime fosse comuni. Perché secondo me la storia delle persone va rivalutata, a qualunque realtà nazionale appartengano. Per noi la dignità ha un solo colore e quindi abbiamo voluto ridare dignità a morti che erano sulle nostre isole così messi alla rinfusa, dimenticati in una fossa comune e abbiamo voluto dare loro un riconoscimento che finora non è ancora arrivato da nessuno».

Gli abitanti delle isole Tremiti, racconta il sindaco, sono circa 400, quasi quanto gli stessi deportati seppelliti. E le piccole isole che sulla memoria diventano grandi - chiediamo? «C'è stato come una scambio, pieno di scoperte - continua Giuseppe Calabrese - che riguarda perfino cimiteri di pescatori in isole dell'Egeo, ma che vuole impegnarsi anche sui cimiteri spesso dimenticati dei caduti italiani nelle avventure coloniali italiane».

Il fatto è che il comune delle Tremiti dal 2006 ha anticipato questa iniziativa sulla memoria. «Sin da ragazzo passavo nella parte più lontana dell'isola di S. Nicola dove c'è un cimitero che risale all'epoca dei benedettini» spiega il sindaco. Lì c'era un'abbazia ed era all'epoca l'unica isola abitata. Sopra ci passavano capre e le persone non sapevano nemmeno che laggiù in fondo fossero stati seppelliti in una fossa comune i deportati libici morti di stenti e malattie alle Tremiti.

Così, con un po' di fondi messi a disposizione dal ministero degli esteri e un po' di soldi trovati tra gli isolani, le Tremiti hanno eretto il primo mausoleo in terra italiana per i deportati libici. «E' venuto qui un imam che prima ha sconsacrato il luogo poi lo ha riconsacrato secondo il rito musulmano. In fondo il nostro mausoleo è stato solo un riconoscimento di dignità, un gesto molto semplice», conclude il sindaco Calabrese.

Fonte: srs di Tommaso Di Francesco;  da   Il manifesto 28 ottobre 2007

sabato 29 maggio 2010

Italiani brava gente? Storia di un mito attraverso i massacri tricolori

Grecia: civili uccisi per rappresaglia
Come si sa, i sogni muoiono all’alba. I falsi miti, invece, che a differenza dei sogni possono servire a qualcosa, sono più duri a morire. E infatti, fra le maledizioni che ci accompagnano e che puntualmente si ripresentano quando ci si vuole impedire di ragionare, c’è il vecchio, stantio, insopportabile mito del fante italiano buono e generoso che, a differenza dell’odioso e crudele nemico, sarebbe sempre un modello di umanità, ricco di buoni sentimenti e ottime intenzioni. Insomma, l’avrete capito, la solita solfa dell’italiano brava gente.

Purtroppo, invece, la storia del nostro esercito (come del resto la storia di tutti gli eserciti) è piena di episodi che definire infami e vergognosi è un eufemismo. Dall’Unità di Italia in poi, se si esclude il macello della prima guerra mondiale, l’unica combattuta sul suolo italico nelle terre “irredente”, i nostri soldati hanno continuamente varcato i patrii confini per aggredire popoli e nazioni che non ci avevano neppure dichiarato guerra. E il fatto che dopo l’aggressione l’esercito dovesse quasi sempre rientrare precipitosamente (quando ce la faceva) con le pive nel sacco, lasciando marcire moltitudini di caduti sui campi di battaglia, non toglie nulla alla brutalità dei suoi “interventi”, anche perché, quasi ovunque, sia pure con maggiore o minore frequenza e intensità, si è reso responsabile di crimini di guerra rivolti contro le popolazioni civili. E questo in tutte le fasi dello stato unitario, l’altro ieri con la monarchia liberale, ieri sotto il fascismo, oggi imperante la democrazia repubblicana.

Ed è evidentemente per questo che, con esemplare coerenza, in tutte le epoche e occasioni, il potere, chiamati a raccolta i suoi corifei, ha dato fiato alle trombe della retorica per coprirsi le vergogne, usando come efficace foglia di fico il mito del “bravo italiano”, sicuro che con il solleticare l’orgoglio nazionale e la presunzione di essere migliori degli altri, si poteva mettere la sordina all’indignazione o a fastidiosi sensi di colpa. Ma se si usasse di più l’arte della memoria, ci renderemmo conto che l’infamia del militarismo e dei suoi frutti ha colpito duro anche fra i bravi italiani.

A pochi anni dal raggiungimento dell’Unità, perseguita in nome dell’indipendenza dallo straniero e dell’autodeterminazione dei popoli, l’Italia cerca di far assaggiare ad altri la politica di potenza subita precedentemente, dando il via a una impressionante serie di aggressioni militari. Anche se i risultati sono le disfatte che sappiamo, nulla toglie alla gravità delle intenzioni con le quali ci si mosse. Si comincia con la prima guerra d’Africa, che, fra il 1885 e il 1896, vede l’esercito impegnato nella conquista di Eritrea e Abissinia. Una dura campagna costellata dalle “inevitabili” rappresaglie contro i civili, e interrotta solo dalla disastrosa sconfitta di Adua. Passati quindici anni, le voglie africane dei governanti, solleticate dal disfacimento dell’impero ottomano, riportano l’esercito sulle coste libiche, alla conquista di Tripoli “bel suol d’amore”. Nonostante l’opposizione popolare (ben sintetizzata dal nostro Augusto Masetti), le cose vanno un po’ meglio e la Libia diviene la prima colonia. Naturalmente le truppe devono affrontare la guerriglia della resistenza (banditi? terroristi?) la cui repressione porta alla morte e alla prigionia di decine e decine di migliaia di persone. Solo recentemente si è cominciato a parlare delle disumane condizioni in cui vennero lasciati morire come mosche i capi della resistenza nel confino di Lipari.

Terminata la prima guerra mondiale, non sazi del macello appena conclusosi, si invade l’Albania facendone un protettorato. Non è che il prodromo della politica di aggressione del fascismo, che fra i suoi primi atti porta le truppe in Libia, per la conquista dei territori ribelli. La bonomia che ci contraddistinse è testimoniata dall’amore che tuttora i libici portano al civilizzatore romano. E dal fatto che rimane un tabù, nella nostra democrazia, documentare le porcherie a cui si ricorse per piegare la resistenza di quel popolo. Fatti fuori i libici, si cerca di vendicare l’onta di Adua invadendo l’Etiopia. Già in altra occasione abbiamo avuto modo di parlarne, per cui non serve ricordare l’uso indiscriminato dei gas tossici contro i civili (oggi si chiamano armi di distruzione di massa), il massacro di migliaia di cittadini dopo il fallito attentato a Graziani, la vergogna dello sterminio sistematico dei religiosi copti, rei di infiammare la resistenza. L’anno dopo, nel 1937, altre truppe accorrono in Spagna in aiuto dei macellai di Francisco Franco. Ci comportiamo talmente bene, che gli stessi fascisti spagnoli devono porre freno alle “esuberanze” degli uomini guidati da Arconvaldo Bonaccorsi.

Passano due anni e si invade l’Albania, e ancora una volta si piega la resistenza degli aggrediti con la distruzione di interi paesi. Poi si “pugnala alle spalle”, come disse l’opinione pubblica mondiale, la Francia, già piegata dall’invasione nazista. A breve seguono l’aggressione alla Grecia, l’invasione della Jugoslavia, la campagna di Russia, la terza guerra d’Africa che si concluderà nel disastro di El Alamein. Una lunga serie di guerre di “conquista”, dunque, segnate, in particolare nei Balcani, dall’attacco contro le popolazioni civili. La vicenda delle foibe carniche, di cui si è tornati a parlare, non rappresenta che il contraltare barbaro della barbara presenza delle nostre truppe in Croazia e Slovenia.

Ma già, questa è acqua passata. Oggi, in regime democratico e scomparso il mostro comunista, il nostro compito sulla scena internazionale diventa quello di esportare libertà e democrazia ovunque si renda necessario. O meglio, ovunque risiedano gli interessi dell’amico americano. Da italiani brava gente ci trasformiamo in peacekeepers, le aggressioni alla Serbia, alla Somalia, all’Iraq, all’Afganistan, cambiano nome e diventano operazioni umanitarie, guerre preventive, libertà durature. Il bombardamento delle città, le operazioni di polizia, i rastrellamenti, con un colpo di bacchetta magica, si trasformano nella rassicurante presenza dei nostri bravi soldati e carabinieri impegnati a impedire agli adulti di farsi male da soli e a distribuire caramelle e palloncini ai bambini. E ancora una volta ci si rovescia addosso l’apparato propagandistico del sistema: l’intervista alla fidanzata del caporale, le dichiarazioni orgogliose del generale, l’encomio solenne del Martino di turno, la barbara crudeltà del nemico, l’affetto che ci portano le popolazioni invase, l’ammirazione degli altri contingenti, la stima del presidente americano per il nostro “buon lavoro”... Insomma, la solita roba necessaria a nascondere sotto la maschera del buonismo democratico l’aggressione a mano armata contro paesi che non si sono mai sognati di dichiararci guerra.

Ma questo gioco mistificatorio a volte, e capiterà sempre più spesso, si rompe di fronte alla tragicità della situazione reale. Come in questi giorni a Nassirya, dove, per fronteggiare l’inevitabile rivolta degli iracheni contro le truppe di occupazione italiane, non si è esitato a far fuoco indiscriminatamente, uccidendo anche pericolosissimi donne e bambini. Questo macello (di cui, guarda caso, in epoca di totale sovraesposizione mediatica, non ci è giunta neppure un’immagine), non vuol dire comunque che siamo peggio di altri, ma solo che per qualsiasi esercito di occupazione, fatto o meno di brava gente, (e qui sta la disumanità di questa come di tutte le guerre) la rappresaglia e l’aggressione contro i civili sono strumenti indispensabili per mantenere sottomessi gli aggrediti. Del resto, se non fosse questa la volontà vera per la quale siamo andati ad uccidere e farci uccidere in Iraq, come non dare ragione a quello sceicco di Nassirya che, con finta ingenuità, ha recentemente affermato: “Gli italiani si presentano come forza di pace? Ma allora perché non ritirano l’esercito e non mandano organizzazioni umanitarie civili? Le accoglieremmo a braccia aperte”. Forse la risposta è che noi italiani siamo talmente brava gente che siamo anche disposti a uccidere e farci uccidere... per il bene altrui.

  
Fonte: da  Umanità Nova, numero 14 del 25 aprile 2004, Anno 84.

venerdì 28 maggio 2010

Verona: là dove le selci preistoriche diventano blu

L’ala dell’Arsenale dove sono stati depositati i reperti del museo di Storia Naturale (FOTO MARCHIORI)


Arsenale, danneggiati i reperti preistorici.  I manufatti di selce del Paleolitico hanno assunto un colore bluastro, forse per il cambio di ambiente. 

IL CASO. Potrebbero essere rovinate per sempre preziose collezioni provenienti da palazzo Gobetti. Oggi commissione in visita

La preistoria veronese si tinge di blu. Parlando di preistoria bisognerebbe usare il passato remoto. Ma il tempo presente, in questo caso, è più che giustificato. Già, perché i manufatti di selce, cioè di pietra, risalenti al paleolitico e conservati sino a qualche mese fa dal Museo di storia naturale a palazzo Gobetti, in corso Cavour (venduto), da quando sono stati depositati all’ex Arsenale dopo il trasloco sono diventati di colore blu. Un blu intenso, diffusosi anche su altri pezzi delle preziosissime e uniche collezioni del museo — come uno scheletro — che, almeno pro tempore dopo il trasloco, dovranno essere conservate in una sala al primo piano dell’ex caserma militare austriaca. Ma ora rischiano seriamente di essere rovinati per sempre.

COLLEZIONI. Gli oggetti di pietra, come asce e altri strumenti per tagliare, collocabili in un arco temporale amplissimo che va da due milioni a 10mila anni fa, costituiscono una documentazione di straordinario valore, come del resto tutto quanto fa parte del Museo di storia naturale. Sia nella sede principale di palazzo Pompei, in lungadige Porta Vittoria vicino all’ex questura, cioè il vero e proprio museo visitabile, sia del Gobetti, comprato nell’ottobre scorso da una ditta di costruzioni di San Martino Buon Albergo che l’ha pagato sei milioni 400mila euro.

All’ex Arsenale, precisamente in un locale al primo piano della palazzina di Comando, che dà sul parco esterno, sono state trasportate le collezioni del Gobetti, che non venivano esposte al pubblico. Cioè quelle di preistoria, botanica, zoologia e poi il museo della Romagna Pietro Zangheri, cioè rettili, pesci, anfibi, uccelli e mammiferi imbalsamati e altro materiale preistorico, compresi i fossili, donati nel 1968 al museo scaligero dallo Zangheri, il naturalista forlivese che mise insieme la più ricca e variegata raccolta della flora e della fauna della sua regione. Completano il materiale i laboratori di restauro e gli uffici per la conservazione dei reperti. I reperti, al Gobetti, erano conservati nei circa 2.000 metri quadrati del palazzo, di tre piani da 600 metri quadrati l’uno, più in un cortile da 160, un sottotetto da 446 e uno scantinato.

AGENTI. Nell’ex Arsenale la disponibilità di spazi è inferiore a quella del Gobetti. Ma il vero problema, ora, per il Comune e per il museo stesso, di proprietà comunale, è capire come e perché le selci e altri manufatti abbiano preso quella colorazione blu.

Tra le ipotesi possibili per spiegare il deterioramento ci sarebbe quella del cambio di ambiente — dal palazzo all’ex caserma che in un passato, remoto (fu costruito a metà ’800), conteneva armi e polvere da sparo — che potrebbe aver provocato reazioni chimiche tali da creare una patina di colorazione bluastra. Che al momento non accennerebbe a sparire, quando si tenta di rimuoverla. Il materiale è però giunto intatto all’ex Arsenale, il che porta a pensare che il trasloco sia stato effettuato con tutti i crismi.

INDAGINE. Entrano in gioco, però, anche aspetti legati alla salubrità dell’ambiente in cui oltre a selci, fossili e scheletri blu di uomini e donne della preistoria, devono rimanere anche uomini e donne in carne e ossa, ma viventi. Per andare a fondo di tutti questi problemi oggi pomeriggio la commissione cultura del Consiglio comunale andrà in sopralluogo all’ex Arsenale. Per fare un po’ di luce sulle selci blu.

Fonte: srs di Enrico Giardini da L’Arena di Verona di Martedì 18 Maggio 2010 CRONACA, pagina 11




SELCI PREISTORICHE, LE COLLEZIONI ROVINATE.



La commissione cultura del Consiglio comunale durante la visita al «deposito» dei reperti preistorici dell’Arsenale (FOTOSERVIZIO DI LUIGI PECORA)



Sopralluogo della commissione cultura all’Arsenale, dove sono stati collocati i manufatti del Paleolitico. Interviene anche la Soprintendenza. Scambio di accuse sui reperti danneggiati

È giallo sulle selci diventate blu. Ed è allarme rosso sul possibile danno economico creato da quando le pietre preistoriche del Paleolitico, conservate fino al 2007 a Castel San Pietro e nell’ex seconda sede del museo di Storia naturale, palazzo Gobetti (venduto), sono state trasportate e depositate all’ex Arsenale. Ma è anche scambio di accuse: di chi è la colpa? O meglio: c’è una colpa?
Un dato certo è che la Soprintendenza ai beni archeologici guidata da Luciano Salzani, titolare di parte dei reperti danneggiati di proprietà dello Stato ma in corpo al museo civico, ha assegnato a due laboratori specializzati l’analisi dei pezzi danneggiati. Si deve scoprire la causa di quello che tecnicamente si chiama «viraggio cromatico», cioè un cambio di colore. Non, quindi, una patina scalfibile. Solo dopo si potrà capire se è possibile far tornare le selci alla tonalità originale.

 Ma si sarebbe potuto evitare il danno? E la sede dell’ex deposito di armi degli austriaci, costruito a metà ’800, era ed è il luogo più idoneo per conservare materiale, oltre che per lavorarci? Domande emerse in una movimentata seduta della commissione Cultura del Consiglio comunale, presieduta da Lucia Cametti — presenti l’assessore alla Cultura Erminia Perbellini, i direttori del museo Giuseppe Minciotti e Angelo Brugnoli, con alcuni studiosi — in visita all’ex Arsenale proprio per verificare lo stato di conservazione dell’eccezionale patrimonio di reperti di preistoria, botanica e zoologia.

A mettere benzina sul fuoco della commissione, che ha visitato i locali al piano terra e al primo dove sono conservati i reperti, è stata Laura Longo, conservatrice del museo sezione preistoria, secondo cui «il problema del colore blu assunto dalle selci e da altri manufatti trasportati qui riguarda sia quelli di competenza della Soprintendenza, quindi dello Stato, sia quelli di competenza comunale», spiega, mostrando alcune selci conservate in armadietti di metallo con bassi cassetti scorrevoli dentro cui le pietre sono posate, avvolte in sacchetti di nylon, appoggiate su tappetini di gomma e su cartone. Secondo la Conservatrice si sarebbe dovuto studiare bene, prima. il sito scelto per ospitare il materiale, «anche se la responsabilità di quanto accaduto non è dell’amministrazione comunale», precisa la Longo. Lasciando intendere che qualche responsabilità l’avrebbe avuta il Museo.

VERIFICHE. Nella sala «incriminata», un po’ umida e in cui si diffonde un lieve odore di gomma, davanti ai reperti il direttore del Museo Minciotti, insieme al responsabile per la sezione geologia e paleontologia Roberto Zorzin e con l’assessore Perbellini, spiega però che l’ufficio del Datore del lavoro del Comune ha svolto un’indagine per la legge 626 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, non rilevando elementi tali da impedire la presenza di persone. In ogni caso, viste le indagini in corso della Soprintendenza, si è ritenuto di evitare che il personale si avvicinasse alle selci.

Riassumendo i tempi: i reperti del museo sono giunti all’ex Arsenale da Castel San Pietro tre anni fa (da qualche mese quelli di palazzo Gobetti e alcuni di palazzo Pompei). Fino al giugno dell’anno scorso il locale con le selci è stato accessibile. Dal luglio scorso fino al febbraio di quest’anno i pezzi sono stati sigillati. Rilevato il problema del colore, il Museo ha verificato con un contatore Geiger (un apparecchio che misura radiazioni) non rilevando alcuna radioattività. Il 17 febbraio, effettuati alcuni sopralluoghi, la Soprintendenza ha prelelato alcune selci blu per farle analizzare da due laboratori esterni.

VERDETTO. Intanto, l’8 marzo il Museo ha fatto analizzare un campione di selci dall’Arpav, per valutare rischi di radioattività: risultato negativo. «Al momento», spiega Minciotti, «qualsiasi ipotesi su questo evento eccezionale, per noi senza precedenti, è destituita di fondamento». Vale a dire, «aspettiamo l’esito delle analisi e dopo valuteremo il da farsi», dice l’assessore Perbellini, mostrando i locali al primo piano della palazzina di Comando dell’Arsenale, dove speciali impianti di aerazione e deumidificazione consentono di conservare il materiale. Il presidente della commissione, Cametti, però non si ferma. «Presenterò una mozione in Consiglio comunale chiedendo informazioni precise sullo stato dei reperti e sul danno economico. E chi lo pagherà? Qui si rischia il danno erariale».


Fonte: srs di Enrico Giardini da  L’Arena di Verona di Mercoledì 19 Maggio 2010 CRONACA, pagina 13
 



I REPERTI ROVINATI. Prima ipotesi scientifica sulle pietre preistoriche tenute all’Arsenale. Può essere una muffa  a rendere blu le selci

 Una delle pietre che hanno assunto una colorazione blu

Il soprintendente veneto Tinè: «Aspettiamo le analisi, ma il danno non sembra irreparabile». Salzani: «Mai visto un fenomeno così»

C’è uno spiraglio di luce a illuminare il mistero delle selci preistoriche del Museo di storia naturale diventate blu. Sarebbe una muffa superficiale ad aver provocato quel «viraggio cromatico», cioè il cambio di colore, sulle pietre del Paleolitico conservate al piano terra della palazzina di comando dell’ex Arsenale, dove sono state portate circa tre anni fa, provenienti da Castel San Pietro. A dare questa prima lettura scientifica del fenomeno è Vincenzo Tinè, soprintendente per i beni archeologici del Veneto, con sede a Padova, da cui dipende l’analisi di una decina di selci di proprietà dello Stato, affidata a due laboratori esterni.

ANALISI. «Stiamo attendendo i risultati dai due laboratori, che dovrebbero arrivare in un paio di settimane», spiega al telefono Tinè, esperto in particolare di reperti preistorici, a cui il materiale è giunto dal nucleo operativo di Verona della Soprintendenza, guidato da Luciano Salzani, «ma da una prima visione dei reperti posso affermare che sono state avvolte da una muffa di superficie, il che escluderebbe che siano stati agenti patogeni, come ad esempio l’inquinamento atmosferico, ad aver provocato la colorazione blu alle pietre. Non credo, perciò, che questo fenomeno debba destare una particolare preoccupazione».

Ma questi manufatti presitorici, risalenti a centinaia di migliaia di anni fa, una volta individuata in via definitiva la causa della trasformazione del colore, potranno tornare al colore originale? «Non ritengo che il danno sia definitivo», prosegue il soprintendente, «perché la selce è materiale molto resistente e quindi non ci sono elementi in natura tali da attaccarla in maniera pesante. Nel caso delle selci di Verona, se fosse confermato che si tratta di muffa superficiale, non dovrebbero esserci problemi per ripulirle».

TEMPI STRETTI. Il direttore del nucleo operativo di Verona della Soprintendenza, Salzani, pure esperto di preistoria, è in stretto contatto con la sede centrale di Padova, per l’analisi dei reperti, dopo aver pure lui visionato le selci, prelevate a metà febbraio dall’ex Arsenale. «Abbiamo sollecitato i laboratori più volte, anche di recente, per ottenere il risultato delle analisi», spiega al telefono Salzani, «e riteniamo che in un paio di settimane si possa conoscere la causa della colorazione blu. È la prima volta che vedo questo fenomeno e non soltanto in materiale conservato nel museo di Verona».

Restano in attesa dell’esito delle analisi la Soprintendenza, quindi, ma anche il Comune e il Museo di storia naturale, oltre alla commissione Cultura del Consiglio comunale che martedì ha visitato i depositi del Museo all’ex Arsenale, al piano terra e al primo piano. Nell’ex caserma militare austriaca sono conservati reperti e collezioni di preistoria, botanica, zoologia, sia di proprietà comunale che statale, prima conservati a Castel San Pietro, a palazzo Gobetti (venduto a privati) e in parte a palazzo Pompei, la sede principale del Museo, dove c’è anche l’esposizione al pubblico.

Durante la commissione consiliare, presenti l’assessore alla cultura Erminia Perbellini, il dirigente del settore Gabriele Ren, i direttori del Museo Giuseppe Minciotti e Angelo Brugnoli, la conservatrice della sezione preistoria del Museo Laura Longo ha posto il problema delle cause e dei tempi del fenomeno, sostenendo che anche reperti di proprietà comunale sono diventati blu. La Perbellini, con il Museo, attende l’esito delle analisi. E la presidente della commissione, Lucia Cametti, annuncia una mozione in Consiglio chiedendo risposte sulla vicenda, la quantificazione del danno economico e se si rischia un’indagine della Corte dei Conti per un presunto danno erariale».

Fonte: srs di Enrico Giardini da L’Arena di Verona di Giovedì 20 Maggio  2010 CRONACA, pagina 12




REPERTI ROVINATI. Dall’Università di Padova i primi risultati di laboratorio sulle pietre del museo. L’indagine continua selci blu, a provocare il danno vapori usciti da idrocarburi


 La conservatrice del museo Laura Longo mostra una delle selci colorate di blu all’assessore Mimma ...

Svolta nell’indagine per capire che cosa ha reso blu le selci preistoriche del Museo di storia naturale, conservate all’ex Arsenale. Diversamente da una prima ipotesi secondo cui il viraggio cromatico — così si chiama il cambio di colore — sarebbe attribuibile a una muffa di superficie, a determinare l’alterazione delle pietre sarebbero stati invece vapori derivanti da idrocarburi. Composti organici, quindi, che nella forma solida o semisolida costituiscono il bitume o l’asfalto, in quella liquida il petrolio o il benzene, in quella gassosa il metano e altre sostanze.

Il fenomeno sarebbe così riconducibile a condizioni ambientali. È questa la conclusione della prima analisi di laboratorio sui reperti eseguita, per conto della Soprintendenza dei beni archeologici del Veneto, dal Dipartimento di geoscienze dell’Università di Padova, diretto dal professor Gilberto Artioli.

La sede centrale di Padova della Soprintendenza aveva ricevuto una decina delle selci del Paleolitico (da un milione e mezzo a 10mila anni fa) provenienti dal Museo scaligero e di proprietà dello Stato, trasportate poco meno di tre anni fa da Castel San Pietro alla palazzina di comando dell’ex Arsenale. Dove sono confluite poi le collezioni di preistoria, botanica e zoologia, sia di proprietà comunale che statale, di palazzo Gobetti, l’ex seconda sede del museo venduto a privati, e in parte anche a palazzo Pompei, la sede principale. Martedì la commissione Cultura del Consiglio comunale ha svolto un sopralluogo sul posto, per capirne di più. A inviare a Padova le selci, per farle esaminare, è stato il nucleo operativo di Verona della Soprintendenza, diretto da Luciano Salzani.

«Speravamo che il colore blu sulle selci fosse stato provocato da un’alterazione naturale, di superficie, ma i primi risultati ci portano a dire che è dipesa da elementi chimici presenti nell’ambiente, forse idrocarburi, che hanno intaccato le pietre», spiega al telefono il Soprintendente archeologico del Veneto Vincenzo Tinè, «e quindi la situazione è un po’ più seria di quanto non apparisse in un primo momento, visto che sono stati elementi patogeni ad aver alterato le selci». Il professor Artioli, che ha analizzato i reperti, conferma al telefono che «si è trattato di una contaminazione ambientale, non dovuta però a un contatto diretto delle selci con idrocarburi, ma con vapori da questi provenienti. Ciò ha determinato quel viraggio di colori».

Stando a questa prima valutazione — di un fenomeno comunque mai verificatosi su reperti del museo scaligero — questi vapori dimostrerebbero la presenza di idrocarburi nei locali dell’ex Arsenale. A questo punto però, e in attesa delle analisi affidate a un secondo laboratorio, di Firenze, bisogna capire se il danno sarà riparabile o no e se le selci potranno riacquistare il colore originale. Tinè è fiducioso: «L’alterazione è andata più in profondità, come si può rilevare solo al microscropio, ma con un trattamento chimico il colore blu si potrà togliere. Per fortuna il processo è reversibile». Artioli precisa: «La parte estetica è salvaguardata e quando le selci riacquisteranno il loro colore l’apparenza non sarà intaccata. Stiamo studiando la maniera migliore per ripristinare la tonalità».

Fonte: srs Enrico Giardini da L’Arena di Verona di Sabato 22 Maggio 2010 CRONACA, pagina 21

Link: http://www.larena.it/
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Verona: Selci preistoriche diventate blu.
Laura Longo con un reperto

Arsenale, lite sui reperti rovinati
La conservatrice: «Inadempienze». L'assessore Perbellini: verifiche eseguite

VERONA—Esplode il caso delle selci preistoriche blu: un misterioso, per ora, agente ha alterato infatti una parte delle collezioni del Museo di Storia naturale trasferite dal 2007 in alcuni locali della palazzina frontale dell’ex Arsenale. A pretendere un chiarimento, con la quantificazione materiale ed economica del danno, la presidente della commissione cultura del Comune Lucia Cametti che ieri ha chiesto e ottenuto un sopralluogo, presenti il neodirettore del museo Giuseppe Minciotti, l’assessore alla Cultura Erminia Perbellini e il dirigente del settore cultura Gabriele Ren.

A lanciare accuse precise è Laura Longo, conservatrice della sezione di Preistoria del Museo di Storia naturale di Verona che proprio in questi giorni ha fatto assurgere agli onori delle cronache scientifiche internazionali il nostro museo- il suo personale e i materiali in esso conservati- per i suoi studi sull’uomo di Neanderthal.
«Non sto accusando l’Amministrazione, sia ben chiaro, ma qualcuno non ha fatto bene il suo lavoro. Prima di trasferire qui le collezioni bisognava fare, come previsto e prescritto dal Codice dei Beni culturali, campionamenti e analisi per stabilire l’idoneità del luogo alla conservazione. Cosa che non è stata fatta».
Il danno riguarda una vasta parte, forse il 40% o più, della collezione di selci preistoriche, ma non altri materiali conservati in altre sale.
«Escluso dopo un controllo con i contatori geiger un problema di radioattività- spiega Minciotti- si stanno attendendo i risultati di analisi di laboratorio dei quali si è incaricata la competente Soprintendenza, responsabile della conservazione del materiale che è in parte dello Stato e in parte del Comune. Soprintendenza che è stata subito avvisata appena rinvenuto il problema, il 17 febbraio».

Cioè quando si è di nuovo reso possibile l’accesso alle sale che erano state chiuse a causa di un cantiere durato da luglio 2009 a febbraio 2010 per la realizzazione, come hanno spiegato l’assessore Perbellini e Ren, di un moderno impianto per l’areazione e il controllo dell’umidità e della temperatura nelle sale adibite sia a uffici che a magazzini.
«Da ottobre chiedevo l’accesso, accusa di nuovo Longo - che è stato autorizzato solo a febbraio, negandomi di fatto la possibilità di esercitare il mio compito di conservatrice ».
Per avere i risultati delle analisi di laboratorio ci vorranno ancora un paio di mesi, ma intanto la conservatrice fa notare che non si può areare il locale, dove si sente un forte odore, come suggerito dalla Soprintendenza, perché le finestre sono collegate all’allarme. E nemmeno provvedere all’attuazione delle misure precauzionali suggerite dalla Soprintendenza, ovvero sostituire supporti in gomma e contenitori in polietilene e spostare i materiali, per scarsità di personale.
L’assessore Perbellini ha precisato che sono state fatte da parte dell’ufficio competente del Comune le necessarie verifiche per stabilire l’idoneità del luogo al lavoro, «che sono altra cosa- ribatte però Longo- rispetto a quelle previste per la conservazione ». L’assessore Perbellini rassicura che «tutto ciò che si doveva fare è stato fatto, compresi gli adeguamenti dei locali alle necessità di conservazione di materiali che provenivano da depositi in Castel San Pietro molto meno adeguati, ora non resta che attendere i risultati».

Srs di Camilla Bertoni, dal Corriere  del Veneto  del 19 maggio 2010





Selci blu, trovate tracce di smalto. C'è l’ombra del sabotaggio


Alcune delle selci custodite nell’ex Arsenale 

I risultati dei test: «Un prodotto applicato di recente».
La relazione dell’Istituto di Preistoria sui reperti custoditi nell’ex Arsenale

VERONA -  Una vernice, forse uno smalto per le unghie. Di sicuro quelle che hanno rinvenuto i super-esperti del laboratorio di Archeometria dell’Istituto Fiorentino di Preistoria sono tracce di «un prodotto filmogeno, trasparente, estraneo alla composizione naturale della selce e quindi applicato recentemente ». Il mistero delle selci azzurre si infittisce. Quei reperti preistorici del Museo di Storia Naturale di Verona, vennero trasferiti tre anni fa da Castel San Pietro ai magazzini dell’ex Arsenale dove sono rimasti, sigillati e chiusi in un apposito armadietto, fino a febbraio, quando si è scoperto che avevano subito una alterazione cromatica senza precedenti: erano tinte di blu cobalto.

Le ipotesi. La Sovrintendenza dei beni archeologici del Veneto aveva subito inviato alcuni campioni al laboratorio toscano per le analisi. In attesa dei risultati erano state avanzate le ipotesi più disparate, dalle radiazioni a una fantomatica muffa di superficie, fino alla presenza di vapori derivati dagli idrocarburi. Invece, nella relazione inviata nei giorni scorsi dall’Istituto di Preistoria, i professori Pasquino Pallecchi e Fabio Martini forniscono una spiegazione molto diversa, che apre scenari inquietanti.

Lo smalto.  Gli esperti hanno scansionato i reperti, analizzandoli con uno spettrometro. Le analisi delle aree colorate hanno dimostrato che uno dei reperti presenta sulla superficie tracce di «prodotto filmogeno». Quindi sulla selce potrebbe essere stato spalmato uno smalto o qualcosa di simile.

Il solvente. Non solo. Sui reperti sono state eseguite delle prove per capire quali sostanze possano provocare la colorazione blu. Tra i «numerosi solventi» testati, si legge nella relazione inviata alla Soprintendenza del Veneto, l’unico a fornire un risultato è «l’acetone, che dopo circa un’ora prende una colorazione tendente all’azzurro». Quanto basta per far sostenere agli esperti che la misteriosa tinta «è dovuta all’assorbimento da parte della selce, nelle zone a porosità maggiore, di un composto organico» che non è ancora stato identificato con certezza. Le analisi non sono ultimate, e infatti il laboratorio di Archeometria chiede al Ministero per i Beni culturali l’autorizzazione «a procedere con metodologie invasive », cioè rompendo una selce per studiarne la composizione chimica interna. Solo così si potrà dissipare ogni dubbio.

I sospetti. Eppure, queste prime osservazioni fanno sorgere dei sospetti. I reperti erano infatti inseriti in buste sigillate che a loro volta si trovavano all’interno di cassetti. Inoltre per alcuni mesi (fino a febbraio) gli accessi alla stanza sarebbero stati murati per consentire di svolgere alcuni lavori nell’ex Arsenale senza il rischio che il locale venisse invaso dalla polvere. Quindi ora ci si chiede in quale modo le selci siano entrate in contatto con l’acetone e con lo smalto trasparente. La prima spiegazione, quella che si augurano tutti, è che ci sia stata una contaminazione accidentale, senza quindi alcuna responsabilità da parte di chi dovrebbe garantire la conservazione e la tutela dei reperti. La seconda è che si sia trattato di un vero e proprio sabotaggio, con qualcuno che ha intenzionalmente estratto alcuni reperti dalle custodie per cospargerli («recentemente», come attestano gli esperti) di smalto e acetone.

Fonte: srs di Andrea Priante  dal Corriere del Veneto  del 15 giugno 2010





Selci blu: I risultati dell’Istituto di preistoria contrastano con quelli dell’ateneo di Padova

Ma l’autore dei test: incidente o azione dolosa

VERONA — Il mistero delle selci blu si complica. Ieri sulla questione è intervenuto il sovrintendente ai beni Archeologici Vincenzo Tinè, contrario alla tesi individuata dall’Istituto fiorentino di preistoria. Per gli esperti toscani, la tinta cobalto assunta dai reperti conservati nell’ex Arsenale sarebbe dovuta probabilmente all’assorbimento di una sostanza colorata. In pratica le pietre sarebbero state cosparse, non è chiaro se volontariamente o in modo accidentale, con un solvente o qualcosa di simile. Ma per Tinè la realtà è un’altra.

«L’Università di Padova - spiega - ha avuto modo di effettuare delle analisi invasive e quindi più accurate di quelle fatte finora dagli esperti fiorentini. E i risultati parlano chiaro: la colorazione blu è dovuta a un inquinamento ambientale. In pratica, nell’aria dei saloni dell’ex Arsenale c’erano degli idrocarburi, che hanno reagito chimicamente con le selci, colorandole. Non credo che qualcuno abbia versato sostanze sui reperti». Tinè ha già sollecitato un’indagine all’interno dell’area utilizzata come deposito, in modo da individuare la fonte inquinante.

Sul fronte opposto si inserisce la relazione protocollata il 24 maggio proprio dalla sovrintendenza e redatta da Fabio Martini, il docente che (assieme a Pasquino Pallecchi) ha eseguito i test sulle selci per conto dell’Istituto fiorentino di preistoria.

«Non credo ci sia stata contaminazione dovuta all’ambiente in cui le selci erano conservate - ha confermato ieri Martini - ritengo invece più probabile che siano entrate in contatto con una sostanza». Un prodotto che non è ancora stato identificato con certezza. «Forse un solvente - spiega - ma potrebbe essere anche qualcos’altro. L’unico modo per capire con certezza di cosa si tratti è prelevare dei campioni al di sotto dello strato superficiale e analizzarli. Ma per farlo ci serve l’autorizzazione della Sovrintendenza che spero arrivi presto. Poi, nell’arco di un paio di settimane, avremo le risposte».

Nella relazione i due esperti spiegano che «la selce, trattandosi di un materiale microcristallino, presenta una buona porosità che può permettere l’assorbimento di soluzioni colorate». Se le cose stanno così, resterebbe da capire come ci sia finita una soluzione colorata su quei reperti, visto che l’esperto sembra escludere la contaminazione dovuta all’ambiente nel quale erano conservati. «Direi che l’ipotesi incidentale e quella del dolo sono ciascuna al 50 per cento», si limita a constatare Martini.

Fonte: dal Corriere del Veneto,  di mercoledì 16 giugno 2010
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giovedì 27 maggio 2010

MIGLIAIA DI SOLDATI BORBONICI DEPORTATI NEI LAGER DEL NORD

Forte Fenestrelle

di STEFANIA MAFFEO

la storia vista da un'altra parte (per cercare di capire)

Dopo l'  “invenzione contrassegno per marchiare gli ebrei con un panno sulla spalla” (vedi AMEDEO VIII DI SAVOIA) - quindi un precursore dello “antisemitismo” hitleriano - nel 1863 un altro sabaudo inventava i “lager”, e le “vasche di calce” per scioglierci dentro i cadaveri dei reclusi soccombenti borbonici.

IL TALLONE DI FERRO DEI SAVOIA - Dopo la conquista del Sud, 5212 condanne a morte. Prigionieri e ribelli puniti con decreti e una legge del 1863

Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all'indomani dell'Unità d'Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863  “… per la repressione del brigantaggio nel Meridione”[1].

Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile comandamento di destino:  “O briganti, o emigranti”.

Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: “… genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui…non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale”.

Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di "briganti") costretti ai ferri carcerari.

Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati “vinti”.
Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito borbonico (su un giornale satirico dell'epoca era rappresentata la caricatura dell'esercito borbonico: il soldato con la testa di leone, l'ufficiale con la testa d'asino, il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta,  Messina e Civitella del Tronto.

Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la pietas che sarebbe stata più utile, forse necessaria. Un primo tentativo di risolvere il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre 1860, anche se le prime deportazioni dei soldati duosiciliani incominciarono già verso ottobre del 1860, in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non coordinati nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa fu presentata come espressione di criminalità comune.
Il decreto chiamava alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860 nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento. Si presentarono solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si diedero alla macchia e furono chiamati “briganti”. (nel '43, dopo l'8 settembre, accadde quasi la stessa cosa, ma dato che vinsero (gli anglo-americani) la lotta la chiamarono di  "resistenza",  e gli uomini "partigiani". Ndr.)

A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì “Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie”.
La Marmora ordinò ai procuratori di “non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito”.
Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.

Presso il Forte di Priamar fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe Santomartino, che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo abruzzese, Santomartino fu processato dai (vincitori) Piemontesi e condannato a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in 24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso.

In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di “correzione ed idoneità al servizio”, i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po' di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie.

Quelli deportati a Fenestrelle [2], fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce.

Fenestrelle (nella foto di apertura) più che un forte, era un insieme di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperità dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l'inasprimento delle pene con i più costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene.

Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.

Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.

Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità.
Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi.

La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l'iscrizione: “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”.
(ricorda molto la scritta dei lager nazisti )

Non era più gradevole il campo impiantato nelle “lande di San Martino” presso Torino per la “rieducazione” dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. Così, in questi luoghi terribili, i fratelli "liberati", maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli "liberatori".

Altre migliaia di “liberati” venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d'Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti.

Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: “Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?”.

Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula [3]. Il generale Enrico Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta una lettera alla moglie, in cui dice: “Partiranno, soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino...”, precisando, a proposito della resa di Capua, “...le truppe furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di S.M. il Re di Sardegna. Erano 11.500 uomini” [4].

Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'età giolittiana, che compilò “L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata”, riporta un'incisione del 1861, ripresa da “Mondo Illustrato” di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25 chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini.

Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di “Stampa Meridionale”, per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto ed erano già trascorsi 8 mesi. Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all'estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: “Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano”, ammettendo, in tal modo, l'esistenza di un altro campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani.

Questa la risposta del La Marmora: “…non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione”.

Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l'occupazione savoiarda. Particolarmente eloquente è anche un brano tratto da Civiltà Cattolica: “Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie”.

Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti, nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi): “Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato”.
Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni”[5].


Vittorio Emanuele II, il re vittorioso... ...e Francesco II, il re vinto, nella fortezza di Gaeta


Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco “chiara” del post unificazione è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei documenti presso l'Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un'isola dall'Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora tanti [6].
Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Molti di loro erano poco più che ragazzi [7].

Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati" di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei “lager dei Savoia”, uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire dallo “spirito del tempo”.


NOTE

[1] Legge Pica:
" Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali militari;
Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione;
Art.3: Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena;
Art.4: Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice Penale, nonché ai manutengoli e camorristi;
Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 è aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera dei Deputati)
[2] Il luogo non era nuovo a situazioni del genere perché già Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed un illustre napoletano, Don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici fratelli realisti fucilati dalla Repubblica Partenopea il 13 giugno del 1799, che vi aveva passato 9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli alla venerabile età di 82 anni.
[3] Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000.
[4] Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei saggi "I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine, nella rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore, pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8.
[5] Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999.
[6] S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997.
[7] Sul sito http://www.duesicilie.org/   è possibile ritrovare i nomi, con data di nascita e provenienza di alcuni martiri di Fenestrelle, nel periodo compreso tra il 1860 ed il 1865. Erano poco più che ragazzi: il più giovane aveva 22 anni, il più vecchio 32.



Fonte: srs  STEFANIA MAFFEO