mercoledì 30 settembre 2009

VERNA 1187: Atto di consacrazione del Duomo di Verona









Duomo di Verona


Storia della chiesa di Verona

(F. Unghelli,  Italia sacra, Venezia 1720 da originale perduto esistente nell’archivio dei canonici della Cattedrale di Verona)

Domenica 13 settembre, in Verona, davanti alla chiesa maggiore di Verona. In presenza dei signori cardinali di Santa Romana Chiesa, cioè, Tebaldo vescovo di Ostia, Enrico vescovo di Albano, Pietro de Bona, maestro Laborante, Adelardo, e maestro Graziano, maestro Pietro da Piacenza e maestro Rodolfo, Riprando vescovo di Verona, il vescovo di Voi vescovo scozzese, Adriano arciprete della chiesa maggiore di Verona, Uguccione presbitero, Adelardo presbitero cantore, Viviano presbitero, Marchesio maestro presbitero, Lotesio, Claribaldo, Andrea presbitero, canonici di questachiesa veronese e moltissimi altri chierici e laici e donne.
E qui essendo radunata una grandissima moltitudine di chierici e laici e donne a onore di Dio onnipotente e della beatissima Maria semprevergine e di tutti i santi e sante, a vedere la consacrazione della già nominata chiesa maggiore veronese, della beatissima e sempre vergine Maria, e per ascoltare la predicazione e l'esortazione di Urbano sommo pontefice, che vi stava sul pulpito e istruiva il popolo e lo ammoniva e predicava.
Egli consacrava anche la predetta chiesa e alla fine della sua predicazione concesse la seguente remissione dei peccati, così annunziando solennemente lo stesso Urbano sommo pontefice: Da parte di Dio onnipotente e dei Beati apostoli Pietro e Paolo e nostra accordiamo l'indulgenza di due anni a tutti gli uomini e donne che sono presenti alla consacrazione di questa santa chiesa veronese e che verranno nei successivi quaranta giorni e avranno fatto o faranno veramente penitenza dei loro peccati.
E ogni anno nell'anniversario di questa santa consacrazione accordiamo l'indulgenza e la remissione di quaranta giorni a tutti coloro che entro quindici giorni verranno a questa sacra prenominata chiesa maggiore veronese e faranno veramente penitenza dei loro peccati e daranno o manderanno qualcosa dei loro beni per la fabbrica della stessa, sia entro i predetti quaranta giorni, sia ogni anno entro quindici giorni dall'anniversario della consacrazione.
E inoltre autorizziamo ed esortiamo perché ognuno particolareggiatamente e diligentemente si esamini e richiami alla memoria i suoi peccati e si penta (anche) di tutti quelli che non può ricordare e faccia la confessione con un sacerdote e accetti la penitenza.
Le colpe dimenticate infatti, delle quali non potrà ricordarsi e che, non per frode, si tratterrà dal ricordare, Dio le cancelli e le perdoni e noi le rimettiamo e concediamo l'indulgenza, in qualsiasi tempo le ricorderanno e ne facciano confessione col sacerdote.
Anno dalla nascita del Signore 1187, indizione quinta. lo, Marcio Hostiario, notaio di Federico imperatore, su richiesta fui presente e scrissi ecc.

(traduzione di Dario Cervato)

Fonte: N.R.;  dig.int.


martedì 29 settembre 2009

I papi della cattedrale di Verona










Papa Lucio III

Lucio III, nato Ubaldo Allucingoli, fu Papa dal 1 settembre 1181 alla sua morte, avvenuta il 25 novembre 1185.
Nativo della repubblica indipendente di Lucca, entrò nell'ordine Cistercense. Venne nominato cardinale-sacerdote di Santa Prassede da Papa Innocenzo II e cardinale-vescovo di Ostia e Velletri da Papa Adriano IV. Fu uno dei cardinali più influenti durante il pontificato di Papa Alessandro III.
Dopo essere stato eletto Papa, visse a Roma dal novembre 1181 al marzo 1182, ma il dissenso che regnava in città lo spinse a passare il resto del suo pontificato in esilio, principalmente aVelletri, Anagni e Verona.
Disputò all'imperatore Federico I come venne disposto dei territori della Contessa Matilde di Toscana. La controversia sulla successione all'eredità della Contessa era rimasta in sospeso dalla pace del 1177, e l'imperatore Federico propose nel 1182 che la Curia dovesse rinunciare alle sue pretese, ricevendo in cambio due decimi delle entrate imperiali dell'Italia: un decimo per il Papa e l'altro per i cardinali. Lucio non acconsentì né a questa proposta, né ad un compromesso avanzato da Federico l'anno successivo; tantomeno la discussione personale tra i due potenti, che si svolse a Verona nell'ottobre del 1184, portò a risultati definitivi.
Nel frattempo apparvero altri motivi di disaccordo, nel rifiuto del Papa a soddisfare i desideri di Federico circa la regolamentazione delle elezioni episcopali tedesche, che si erano svolte durante lo scisma, e in particolare delle contestate elezioni per la sede di Treviri nel 1183.
Nel perseguimento della sua politica anti-imperiale, Lucio infine declinò, nel 1185, l'invito a incoronare Enrico VI come successore predestinato di Federico, e la frattura tra impero e Curia divenne ancor più ampia sulle questioni della politica italiana.
Nel novembre 1184 Lucio tenne un sinodo a Verona, che condannò Catari, Patarini, Valdesi e Arnaldisti, e anatemizzò tutti quelli che erano stati dichiarati come eretici e i loro sostenitori.
Nel 1185 cominciarono i preparativi per la Terza Crociata, in risposta agli appelli di Baldovino IV di Gerusalemme. Prima che questi venissero completati, Lucio morì a Veronal 25 ottobre 1185  dove fu sepolto nel duomo della città
Lo  stesso giorno della morte di Lucio fu eletto l’arcivesovo di Milano Uberto Crivelli  e consacrato in Dumo il 1 dicembre 1185 con il nome di Urbano III







Papa Urbano III

Urbano III, nato Uberto Crivelli, fu Papa dal 25 novembre 1185 alla sua morte, avvenuta il 19 ottobre 1187. Venne nominato cardinale ed arcivescovo di Milano da Lucio III, al quale successe il 25 novembre 1185). Urbano riprese vigorosamente le diatribe del suo predecessore con l'imperatore Federico I Barbarossa, inclusa la duratura disputa sulla successione ai territori della Contessa Matilde di Toscana. Anche dopo la sua elevazione al Papato continuò a detenere l'ufficio di arcivescovo di Milano, e in base a questa carica si rifiutò di incoronare come Re d'Italia il figlio di Federico, Enrico, che aveva sposato Costanza, erede del Regno di Sicilia. Mentre Enrico a sud cooperava con il senato ribelle di Roma, Federico a nord bloccò tutti i valichi alpini, tagliando così le comunicazioni tra il Papa, che risiedeva a Verona, e i suoi aderenti tedeschi. Urbano era ora risoluto a scomunicare Federico, ma i veronesi protestarono contro un tale procedimento preso all'interno delle loro mura; anzi le autorità di Verona più fedeli a Federico che a Urbano gli imposero di togliere la sua  residenza da Verona. Urbano di conseguenza si ritirò a Ferrara, ma morì (19 ottobre) prima che potesse dare corso alle sue intenzioni. Il suo successore fu Gregorio VIII.
Secondo la leggenda, morì di dolore udendo le notizie della sconfitta crociata nella battaglia di Hattin del luglio 1187.



Il ritratto  di Federico Barbarossa

Il Papa di Cuggione: Urbano III,  L'uomo che osò sfidare il Barbarossa

Proprio dove sorge l'ospedale di Cuggiono, la strada comunale che giunge da Inveruno, prende il nome di Via papa Urbano Crivelli, un uomo, passato agli onori della storia nonostante il suo breve pontificato, non tanto per le sue doti politiche e amministrative, quanto per la sua combattività nei confronti di un nemico all'epoca temuto da molti: Federico Barbarossa. In un documento scritto in dialetto milanese all'inizio del Novecento, di lui si legge:
"In dèl 1187, moeur a Ferrara papa Urbano tèrz, Arcivèscov de Milan, e ven nominaa, al so post, Milone da Cardano. Com'è, disarii, l'era Papa e Arcivèscov de Milan?…Sigura. Urbano III non l'era che Uberto Crivello, milanes, che per quanto Papa l'ha vorsuu conservass lu la sede Arcivèscovil."
Alle osservazioni spiritose di questo cronista di cento anni fa, potremmo aggiungere che lo scopo del duplice impegno assunto dal Crivelli, di essere contemporaneamente papa e arcivescovo, era quello di contrastare la potenza imperiale di Federico Barbarossa; e inoltre potremmo anche precisare, che il Crivello, come lo chiama l'anonimo cronista, era nativo di Cuggiono e non di Milano. Ma cosa si sa esattamente di questo personaggio? Tentiamo di ricostruirne la storia ricercando, per quel che consentono i pochi documenti, le sue radici.
Della sua famiglia si dice che sia molto antica e che conti pure un santo, Ausonio, morto nel 567, che fu il 28° arcivescovo di Milano. Ma il cognome Crivelli, che letteralmente significa setaccio (oggetto che appare nel loro stemma gentilizio ad indicare il presunto mestiere dei capostipiti), compare già nel 337 tra gli iscritti nelle Tavole della Chiesa Metropolitana di Milano, ai cui membri era affidato il prestigioso e delicato compito di eleggere i cardinali. E anche nel libro "Manipolus Florum" si parla di loro, precisando che quando i Franchi scesero in Italia per conquistare il Regno Longobardo, i Crivelli erano valvassori dell'esercito del re Autari.
Ma giungiamo al 1149, anno nel quale la famiglia Crivelli composta dal capofamiglia Gualla I, e dai figli Domenico, Pietro, Pastore, Gualla II, Uberto (il futuro papa) e Floriana, ricevette in feudo ereditario da Giovanni di Assago, abate del monastero di Sant'Ambrogio di Milano, delle rive, delle ghiaie e dei boschi, posti nei territori di Bernate e di Cuggiono. Nell'infeudazione fatta ai Crivelli non viene menzionato il castello di Cuggiono, oggi scomparso (ma di cui si conosce l'esistenza grazie ad una permuta tra il monastero di Sant'Ambrogio e il presbitero Waldevertum), e che invece risulta essere stato proprietà vassallatica di quella famiglia fino al 1231. Ma andiamo ora a conoscere più da vicino il nostro papa.
Uberto, che nacque a Cuggiono presumibilmente verso il 1130 scelse, una volta adulto, di seguire la carriera ecclesiatica e così, nel 1156, diventò canonico e arcidiacono di Bourges. Fu lì che conobbe e strinse amicizia con Tommaso Becket, allora arcivescovo di Canterbury e amico del re d'Inghilterra Enrico II Plantageneto. Becket, che si trovava in esilio in quella città francese per aver rifiutato le "Costituzioni di Clarandon", con le quali il sovrano intendeva rafforzare il proprio controllo sulla Chiesa inglese, al suo rientro in patria, avvenuto di lì a poco, sarebbe stato assassinato da quattro cavalieri mandati probabilmente dallo stesso Enrico che voleva liberarsi di quel prete divenuto troppo scomodo. Dell'amicizia tra il Becket e il Crivelli rimangono oggi delle lettere che i due si scambiarono. Dopo quel primo incarico la carriera di Uberto proseguì in modo molto rapido, seguiamolo quindi passo passo in questo suo avanzare fino al soglio di Pietro.
Nel 1168 divenne arcidiacono del Duomo di Milano; nel 1178 vescovo di Vercelli, nel 1181 fu eletto cardinale da papa Lucio III, nel 1182 legato pontificio in Lombardia, nel 1185 divenne 83° arcivescovo di Milano e, infine, sempre in quell'anno, precisamente il 25 novembre, fu proclamato papa con il nome di Urbano III, nome col quale intendeva confermare la sua intenzione di voler proseguire le Crociate, bandite dal suo predecessore Urbano II. Il conclave non avvenne come di norma a Roma, bensì a Verona, divenuta nuova sede pontificia dal 1181 con papa Lucio III, in quanto in quel periodo l'imperatore Federico Barbarossa occupava le terre pontificie e ne proibiva l'accesso. Fu nell'esilio veronese che Uberto Crivelli ricevette la pesante eredità lasciatagli dal papa appena defunto: la lotta contro l'impero, le spaccature politiche tra i vescovi che sostenevano il sovrano teutonico, e quelli fedeli al papato; problemi questi, ai quali si aggiunsero gli attriti personali tra lui e l'imperatore. Vediamo quindi di rispolverare quelle loro faccende "private" per meglio comprendere i motivi che scatenarono l'astio, ma che diedero anche tanta grinta al nostro compaesano.
I rancori personali tra Uberto e Federico, cominciarono quando quest'ultimo decise di premiare per i suoi buoni servigi il suo consigliere ed amico Rainaldo di Dassel, concedendogli in feudo la pieve di Dairago e i paesi di Busto Arsizio e di Bernate, ma volle il caso, che quest'ultimo fosse di proprietà del Crivelli, che si vide di punto in bianco espropriato del suo feudo. Ma questo era ancora niente. Tre anni più tardi, nel 1167, l'imperatore si comportò in modo anche più ignobile: fece uccidere alcuni parenti di Uberto che lui teneva in ostaggio. Ormai la situazione era irrecuperabile, e il tempo, invece di lenire le ferite, spingeva il Barbarossa a rigirare il coltello nella piaga: per umiliare ulteriormente il suo nemico, pensò di colpirlo pure nelle sue vesti di arcivescovo. Vediamo come.
Il 27 gennaio del 1186 Federico entrò a Milano e si recò al monastero di Sant'Ambrogio (strettamente legato alla famiglia Crivelli), per la solenne celebrazione delle nozze tra suo figlio Enrico VI e Costanza d'Altavilla, erede al trono di Sicilia. Era quello, un matrimonio assai pericoloso in quanto con esso, si apriva la possibilità di strozzare lo stato pontificio tra il dominio svevo a nord e quello normanno a sud.
Ma al di là della già grave minaccia politica, quel 27 gennaio rappresentò per Uberto anche un affronto perché il figlio di Barbarossa fu incoronato re dal patriarca di Aquileia, mentre la tradizione voleva che i sovrani italiani dovessero essere incoronati dal metropolita della chiesa di Sant'Ambrogio, in quel caso il Crivelli, e non da altri.
Urbano III che non era certo uomo da ignorare un tale affronto, cercò allora di sollevare l'episcopato tedesco, ma quando seppe che una delegazione di vescovi germanici si stava movendo alla volta della sua residenza veronese per comunicargli i risultati negativi della dieta di Gelnhausen, per non incontrarla, si diresse a Venezia, e da lì di intimò al Barbarossa di comparire a giudizio per notificargli la scomunica, condanna che toccò pure al patriarca di Aquileia.
La situazione era davvero grave e così, nell'87, l'imperatore pensò che fosse il caso di appianare almeno i contrasti più pesanti. Si recò allora a Ferrara per incontrarsi col Crivelli e firmare un "concordato". Con quella firma il papa cuggionese era riuscito a piegare un po' la testa del suo avversario; ma nonostante la vittoria, la tempra e il coraggio non bastarono a guarirlo dalle febbri intestinali di cui soffriva da tempo e, se a quell'indebolimento aggiungiamo il dispiacere per il fallimento della terza Crociata, possiamo comprendere perché il 20 ottobre di quell'anno passò a miglior vita. Le sue spoglie furono sepolte nella cattedrale di Ferrara e commemorate da un monumento funerario che è stato recentemente scoperto da un ricercatore dairaghese, il professor Lino Colombo.

Fonte: NR

lunedì 28 settembre 2009

Il Duomo di Verona: fonti




Il Duomo di Verona

Non esistono testimoniata di documenti che attestino con certezza le fasi dei lavori. Esistono tuttavia notizie, per lo più riferite da storici locali, a partire dal XVI secolo, che ci permettono di conoscere alcune date utili per la definizione di una cronologia del manufatto.
Il battistero di S. Giovanni in Fonte fu riedificato dal vescovo Bemardo nel 1123; la chiesa di S. Elena fu riconsacrata da Pellegrino patriarca di Aquileia nel 1140, come attesta un’epigrafe. Negli degli stessi anni inoltre fu la ristrutturazione delle case canonicali ed infine la costruzione del chiostro le cui prime notizie si fanno risalire al 1123.


Per quanto riguarda invece la fondazione della cattedrale, una notizia ci viene dallo storico Canobbio secondo cui:
«nel 1139 furono principiati i fondamenti del Domo nel modello, che di presente si vede».
I lavori sarebbero iniziati durante l'episcopato di Teobaldo II (1135-1157).
A tale proposito è opportuno segnalare che, a partire dal periodo in cui Teobaldo fu arciprete del capitolo, furono emessi dei privilegi papali. Nel 1121 questi furono concessi a Teobaldo dal papa Callisto II e poi riconfermati nel 1132 da Inocenzo II .  Gli stessi furono successivamente riconfermati da Innocenzo II nei confronti del nuovo arciprete Gilberto nel 1140), e infine nel 1177 da Alessandro III nei confronti di Riprando, eletto vescovo nel 1185.
La concessione del godimento di benefici si fa collegare in parte alla necessità di reperire fondi per intraprendere l'opera di risistemazione dell'area definita dalla cattedrale e dai complessi adiacenti negli anni immediatamente successivi al terremoto. Inoltre proprio Teobaldo e Riprando furono i maggiori artefici di una vera e propria riforma ecclesiastica della diocesi.


Per quanto riguarda invece la ricostruzione di alcuni momenti della cronologia del duomo romanico. Il Canobbio ci informa che:
 “l'anno 1153 il giorno dell'Ascensione del Signore fu una estraordinaria et improvisa escrescenza dell'Adige, che fece grandissimi danni nella città et fuori, si che ruppe il ponte sotto di S. Faustino e screscette fin’ all'altezza dell’Altar Grande del Domo” .


Il Biancolini poi ci dà notizia dell'erezione della sagrestia dei cappellani:
Da Ogniben nostro vescovo fu rifabbricata nel 1160 la Sacrestia e riformato poi anche parte del tempio”


e inoltre ci informa che: del 1185 fu tenuto in questa chiesa un concilio con l’intervento di Lucio III Pontefice, e di Federico I Imperatore


Nello stesso anno Lucio III morì e fu sepolto in cattedrale davanti all'altar maggiore e quindi fu consacrato papa Urbano III.
L’Ughelli pubblicò per primo un documento comprovante la notizia, già riferita da Canobbio, circa la consacrazione della cattedrale il 13 settembre 1187 da parte di Urbano III.
Ma i lavori di edificazione del duomo a questa data erano comunque terminati e probabilmente anche molto prima del 1187. La chiesa infatti nelle sue strutture architettoniche doveva essere compiuta o tuttalpiù in via di compimento già nel 1160, epoca in cui Ognibene fece costruire la sagrestia.


Fonti: NR

venerdì 25 settembre 2009

Verona: La storia sotto i nostri piedi


Scavi in Piazzale delle Poste

Le «indagini» della Soprintendenza sulla dimensione urbanistica

Le stratigrafie del sottosuolo aggiungono nuovi elementi alla conoscenza del patrimonio archeologico di Verona.

La prima documentazione certa di una occupazione dell’attuale centro storico della città si riscontra nell’area a sinistra del fiume con testimonianze provenienti da Porta S. Giorgio e da via Carducci, entrambe databili da IX e VIII secolo a.C. cui si devono aggiungere materiali ceramici rinvenuti in via Redentore e in Regaste Redentore. Tali ritrovamenti indicano che l’occupazione della collina di S. Pietro, in posizione strategica per il dominio del passaggio del fiume, si inserisce in un ambiente culturale protoveneto, collegato cioè ai paleoveneti di cui sono state trovate tracce sia a Ponte Florio, sia sui pendii del castello di Montorio sia a S. Maria di Zevio.

La collina di S. Pietro, e le sue adiacenze, resterà fino alla costituzione del municipio la zona in cui si svilupperà la primitiva Verona, tuttavia le possibilità di ricostruzione dell’abitato preromano e poi dell’ oppidum sono minime, proprio a causa della dinamica dell’evoluzione urbanistica della collina stessa. (1)

Quando infatti alla metà del I° secolo a.C. la città venne progettata ex novo sulla destra del fiume, il disegno comportò la distruzione del vecchio centro in sinistra d’Adige e la sua sostituzione sulle pendici dell’altura con un grandioso complesso di edifici pubblici. La loro realizzazione richiese un radicale terrazzamento del profilo della collina. Costruirono il teatro, l’odeon (adibito a spettacoli musicali) e un santuario alla dea Iside, culto di origine egizia.

«Tutti i depositi protostorici non ci sono più. Noi li troviamo soltanto alla base della collina. Sicché oggi la possibilità di recuperare qualche dato sul centro indigeno è ridottissima ed è stata ulteriormente ridotta quando hanno costruito i muraglioni, a quell’epoca hanno distrutto le tracce del centro preromano».

Con il VII e VI a.C. a Verona si registra una totale assenza di dati e in questa fase si segnalano i ritrovamenti di un ambito culturale pienamente veneto nell’importante insediamento sui pendii inferiori del castello di Montorio. Il sito di Montorio dominava il percorso che da Vicenza si dirigeva verso il guado dell’Adige. Con l’inizio del IV secolo a.C. venne rioccupata la collina di S. Pietro e la zona circostante. L'insediamento dovette essere organizzato per lunghi spazi con strutture abitative seminterrate e in parte disposte su terrazze tagliate sulla collina. Quanto ai materiali a fianco di ceramica di tipo retico - alpino ed etrusco - padano si è trovata ceramica celtica.

Da S. Stefano in un contesto attribuito al III - II secolo a.C. proviene una ciotola a pasta grigia che reca entro il piede una iscrizione in caratteri leponzi: si tratta dell’alfabeto utilizzato dai Cenomani sia nelle iscrizioni su vasi sia nella monetazione: segnala la volontà di queste popolazioni di connotarsi come celti mediante l’uso di un alfabeto proprio anche in presenza nel Veronese di altri alfabeti come quello retico e quello veneto. Per la città questo è un diretto riscontro di quanto è tramandato da diverse fonti letterarie: Catullo, Ovidio e Tolomeo che la indicano appunto come un centro cenomane, Plinio il vecchio invece, che accoglie una diversa tradizione, ne ricorda l’appartenenza a Reti euganei. Questa duplice tradizione sulle origini di Verona trova spiegazione logica nella sua collocazione geografica all’incrocio di aree culturali diverse.

A partire dalla seconda metà del III secolo a.C. nella pianura a sud delle alture di Verona e di Montorio a una distanza di venti chilometri da esse, si sviluppa una serie di necropoli galliche di ambito culturale centro-padano analogo a quello dei vicini sepolcreti del territorio bresciano. Si tratta delle varie aree funerarie di Valeggio, Vigasio, Povegliano, Santa Maria di Zevio, Isola Rizza. Il livello delle sepolture è modesto tranne qualche tomba privilegiata come alcune dell’Ortaia di Madonna dell’Uva Secca di Povegliano databile intorno al 100 a.C. e quella di Lazisetta di S. Maria di Zevio degli ultimi decenni dal II secolo a.C. che fornisce la testimonianza di tomba a carro, l’unica per l’Italia settentrionale, straordinaria per l’ambiente celtico traspadano ma non ignota in altri ambienti celtici d’Europa.

Tali aggregati della pianura dovettero far capo ad un oppidum. Non ci sono dati determinanti per dire se si trattò di Verona o di Montorio, che dopo l’iniziale fase paleoveneta si sviluppò con caratteristiche analoghe a quelle di Verona e degli altri villaggi d’altura. Ma è ovvio che con l’apertura nel 148 a.C. della via Postumia, la strada consolare che collegava Genova ad Aquileia, certo indirizzata su Verona per precise ragioni strategiche per il controllo della val d’Adige, l’insediamento veronese doveva assumere una rilevanza assai superiore a quella di Montorio. Esisteva una comunità celtica anche a Verona? I dati rimangono sempre pochi anche se in sinistra d’Adige c’è qualche contesto di ambito celtico quantitativamente consistente.

Ad essi va ora aggiunto il recente ritrovamento avvenuto nel 2002 in via Carducci di quattro tombe databili al II secolo a.C., testimonianza di una necropoli certo abbastanza estesa, su cui successivamente si sviluppò un’area funeraria romana di età imperiale. Le sepolture, tre inumate, due bambini e un adulto, ed una di cremato, erano poste in fosse terranee, il biritualismo conferma l’appartenenza al gruppo cenomane.

«Questo è stato un ritrovamento molto importante: è difficilissimo che in un grande centro abitato si trovino ancora tombe di questo tipo. Credo che ci siano due esempi a Brescia. Per Verona è verosimile che la naturale preminenza, dovuta ad una posizione geograficamente felice, si traducesse anche in termini di supremazia politico-economica su tutto il circondario, la documentazione disponibile non permette di cogliere per quest’epoca (II sec. a.C.) né tracce di una organizzazione urbana nè indizi di una espansione dell’abitato che rimase confinato sulla sinistra del fiume.

In destra d’Adige sono rari e poco consistenti i ritrovamenti genericamente attribuibili al III - I secolo a.C.: testimoniano solo di modeste presenze insediative in relazione con il tracciato della via Postumia che ricalcava peraltro una precedente pista preistorica.

Entro l’ansa non sono mai venuti in luce depositi preistorici della prima età del Ferro, d’altra parte è improbabile che vi potessero esistere stanziamenti stabili sconsigliati dalle condizioni idrogeologiche della zona spazzata da forti alluvioni fino alla costruzione dei bastioni municipali».
Per la piccola comunità atesina il passaggio della via Postumia che proprio alla sommità dell’ansa superava l’Adige, ebbe un ruolo determinante: essa venne inserita in una primaria direttrice di traffico militare e mercantile cisalpino e collegata con alcuni tra i principali centri coloniali e indigeni padani. Entrò così a far parte degli interessi romani. È però probabile che i Romani solo con l’invasione dei Cimbri nel 102 - 101 a.C. (che avevano preso tutta la val d’Adige) si rendessero conto della fondamentale importanza strategica di questo sito e quindi provvedessero a fortificarlo. «Ma è solo sullo scorcio iniziale del I secolo a.C. che si hanno delle testimonianze monumentali: in via Redentore 9 sono conservati quelli che si possono considerare i primi segni del processo di strutturazione urbanistica: si tratta di un grande bastione con un muro di controscarpa, resto di quelle che dovevano essere le prime mura. Non si conosce l’andamento di questa prima cinta ma è presumibile che essa risalisse la collina, attestandosi sulla sponda del fiume, a nord presso S. Stefano, a sud nella zona di S. Faustino. La realizzazione di un simile dispositivo di difesa certamente frutto di committenza pubblica suggerisce la presenza di altre strutture indispensabili per svolgere attività politiche e amministrative e giurisdizionali connesse con il nuovo status ma queste come l’intero abitato pre-municipale restano ignote».


Il Patrimonio archeologico

Il patrimonio archeologico di Verona non consiste in grandi sculture o in grandi affreschi. È una eccezione l'affresco raffigurante Mercurio ritrovato a 3 metri di profondità nello scavo per garage interrati in via Cantore 18 nel 1993. Anche i materiali di artigianato artistico o di uso quotidiano ritrovati nelle necropoli solo in rarissimi casi hanno caratteristiche di qualità e raffinatezza. «Il patrimonio archeologico di Verona è senza dubbio costituito dalla dimensione urbanistica e da quella architettonica che sono passate se non indenni, almeno ben conservate, attraverso un’attività edilizia di duemila anni. La vera eredità romana di Verona che tuttora connota e condiziona anche pesantemente la città sono i percorsi di penetrazione entro il perimetro delle mura magistrali, e tutto attorno nelle immediate adiacenze, che sono ancora quelli di età romana: corso Porta Palio - corso Cavour - via Redentore - via Giardino Giusti - via S. Nazaro, eccettuata la direttrice di viale del Lavoro e corso Porta Nuova. Alla sopravvivenza della trama viaria e di alcune delle principali emergenze monumentali si aggiunge una conservazione notevole dei depositi urbani del sottosuolo. Le stratificazioni seppure negli ultimi anni in veloce sparizione a causa delle continue costruzioni di garages hanno un grado di conservazione rapportabile a quello di non molti altri centri urbani».
Giuliana Cavalieri Manasse ha definito così la particolarità di Verona nel corso di una conferenza tenuta all’Università di Verona organizzata dal Centro scaligero Studi danteschi.
Importanti sono stati negli ultimi anni gli studi delle stratigrafie del sottosuolo della città. In certe zone si ritrovano, se si sono ben conservate, le stratigrafie con dati importanti, anche per quattro, cinque metri in alcuni casi anche sette metri.
Un esempio: nello scavo di via Cantore 18 ci si è abbassati fino ad una profondità di sette metri. Che cosa si vede nella sezione stratigrafica se guardiamo dall’alto verso il basso? In alto degli enormi innalzamenti del suolo rapportabili all’età medioevale; poi un livello nero ed un livello di età longobarda, segue un altro livello di macerie e lì si può individuare il Basso Medioevo. Si può notare ben evidente lo strato dell’incendio di età longobarda ricordato da Paolo Diacono nel 589-590 d.C. circa, quando la città è andata praticamente a fuoco. Subito sotto il livello dell’incendio si vedono i resti di età romana: sopra le strutture romane si vede il crollo dei tegoli rossi, e l’abbandono degli edifici distrutti dall’incendio.

Questo tipo di stratigrafie ha permesso lo sviluppo di ricerche anche su periodi quali l’altomedioevo in genere poco noti e che invece a Verona conosciamo assai bene. Alla conoscenza della dimensione urbanistica, architettonica e stratigrafica della città ha dato un contributo notevolissimo l’attività della Soprintendenza Archeologica negli ultimi trent’anni. Le notizie più interessanti degli scavi degli ultimi tre quattro anni, dopo i lavori archeologici legati al rifacimento dei sottoservizi sia di via Mazzini sia di corso Cavour, riguardano la Verona preromana.

Fonte: Srs di Gabriela Lombardo da L’Arena di Verona di Domenica 26 ottobre 2003; Cronaca pagina 14


(1) (anche per Montorio si è detto la stessa cosa, risultata poi errata)

giovedì 24 settembre 2009

Peter John Hudson chi è.



L’archeologo Peter John Hudson

Dai suoi scavi durati vent’anni una messe enorme di reperti



Peter John Hudson è nato a Manchester il 26 settembre 1954, nella stessa città e nello stesso anno dell’altro famoso «inglese di Verona», lo scrittore Tim Parks (ma non si frequentano e l’unica cosa che li unisce è che a volte Peter legge gli articoli di Tim sul «Guardian», compresi quelli sportivi da cui è stato tratto il discusso libro sui tifosi del Verona). Peter è figlio unico. Il papà comprava tessuti per la Cooperative Society, la più antica catena di supermercati di Manchester, e amava il cricket; la mamma faceva la segretaria part-time in studi d’avvocato del centro.

Fin da ragazzo, Peter viene attratto dalla storia; vorrebbe farla rivivere, non solo attraverso i personaggi e «i fatti che sconvolsero il mondo», ma penetrando nella vita di tutti i giorni della gente qualunque. Si tuffa nel passato con i mezzi a disposizione: documenti, reperti. S’iscrive all’Università di Lancaster laureandosi in storia medievale e archeologia. Si perfeziona a Reading e arriva in Italia, a Pavia, grazie a una borsa di studio, per una programma di archeologia urbana. Un’altra borsa di studio e la ricerca può andare avanti, abbracciando il periodo romano e il Medioevo. Nel 1978 l’incontro di Hudson, ormai archeologo in carriera, con Verona e il suo territorio. In Valdadige, alla Rocca di Rivoli, partecipa a più riprese a una campagna di scavi che fa luce sulla storia del castello medievale. Nel 1980 entra a far parte della Cooperativa archeologica lombarda di Brescia, alla quale, nel giugno 1981, viene affidato dal Comune di Verona e dalla Soprintendenza il grande scavo nel cortile dell’ex Tribunale. La campagna è di eccezionale importanza e va avanti a pieno ritmo fino al dicembre 1982, per riprendere a intervalli fino al 1986, con un’appendice nel 1990. Il contributo di questi scavi alla storia della Verona antica è fondamentale.

Hudson partecipa agli scavi sotto Palazzo Maffei e ad altre campagne in giro per il Veneto. Nel ’90 entra, come socio fondatore e direttore tecnico, in un’altra cooperativa, questa volta veronese, con sede in via Terre: la Multiart. Da questo momento il suo lavoro di archeologo si concentra su Verona, «città dal passato straordinario». Dirige la ricerca al sottopasso di Porta Palio, in occasione dei lavori per i Mondiali ’90. A Povegliano conduce gli scavi alla Madonna dell’Uva Secca dove emergono tombe pre-romane, romane e longobarde. Dopo una trasferta a Vicenza, per gli scavi in contrada Barche, prende in mano lo studio su via Mazzini durante i lavori dell’Agsm del 1997-98 e la ricerca archeologica sulla Postumia durante i lavori della stessa Agsm in corso Cavour nel 1998-99.

Alla cooperativa arrivano committenze non solo da Soprintendenza, Comune, Regione ma anche dai privati che affrontano ristrutturazioni in edifici di possibile interesse archeologico. A Verona, in centro storico, questa situazione è comune; così il lavoro non manca. Attualmente, Hudson è impegnato in due scavi: uno tra via Carducci e via Paradiso, l’altro in via Noris. L’attività è affascinante, ma complicata dalle questioni burocratiche e dai rapporti spesso non facili tra Soprintendenza e privati. Hudson non se ne duole, ci ha fatto il callo. E poi l’amore per Verona di questo inglese dai capelli rossi è a prova di tutto. Qui ha scelto di vivere, lo considera un «autentico privilegio».

Lo abbiamo salutato senza chiedergli perché lui e Tim Parks, concittadini, da oltre vent’anni a Verona, non si siano mai incontrati, tantomeno cercati. Eppure Peter sa molte cose di Tim. Lui tifa Manchester City, Parks Manchester United. Non sarà la risposta, ma è almeno un indizio. (a. fel.)


Fonte: srs di Antonio Felice; da L’Arena di Verona di Lunedì 30 Settembre 2002. Cronaca pag.13

martedì 22 settembre 2009

Gianni Cantù intervista


Gianni Cantù con una copia di "Marcherita Pusterla" che il suo avo Cesare scrisse in carcere sulla carta da bugliolo

Il cronista che scoprì Ludwig: “So chi portò la bomba fino alla stazione di Bologna.” Infiltrato nell’ultrasinistra, fu il primo a riconoscere Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate. Smascherò anche un serial killer peggiore di Stefanin. Ora a 88 anni scrive libri su Egizi e Romani

Con questo «tipo italiano» ho avuto la fortuna di lavorare per un decennio. Lo conobbi nella redazione dell’Arena. Era l’estate del 1975. Lui aveva già 52 anni e veniva dall’agenzia Ansa di Milano, io solo 19 e spuntavo dal nulla di Verona. Il quotidiano locale mi aveva assunto per una sostituzione in cronaca. La prima sera stappò una bottiglia di champagne. Mica in mio onore, ovvio. Festeggiava con i colleghi i 10 anni dall’esame di Stato che lo aveva ammesso nell’Ordine dei giornalisti. In realtà esercitava la professione già da 30, dal 1945 o giù di lì.
Ho incontrato Gianni Cantù la scorsa settimana. Aveva da poco festeggiato il suo 86° compleanno. Stessa lucidità mentale, stessa passione per i fatti della vita. Anche la sordità, sempre la stessa, perlomeno non peggiorata rispetto alla fine degli Anni 80, quando dovemmo minacciare uno sciopero perché la società editrice dell’Arena si rifiutava di acquistare un amplificatore telefonico da poche migliaia di lire che gli avrebbe reso più agevole il lavoro. A un cronista di nera così, qualsiasi giornale avrebbe fatto ponti, e cimici, d’oro: il primo a riconoscere Giangiacomo Feltrinelli sventrato dalla bomba sotto il traliccio di Segrate; il primo a giungere davanti alla questura di Milano dove Gianfranco Bertoli aveva fatto esplodere un ordigno; il primo ad avvicinare il generale James Lee Dozier appena strappato alle grinfie dei brigatisti rossi. E l’unico a uscire in edizione straordinaria quando fu rilasciato dai rapitori il presidente del Verona Hellas, Saverio Garonzi, e quando fu liberata dai carabinieri la piccola Patrizia Tacchella, figlia del re dei jeans Carrera; l’unico a polemizzare a mezzo stampa con Ludwig, fino a tendere un trabocchetto mediatico che risultò decisivo per la cattura degli irreprensibili studenti Wolfgang Abel e Marco Furlan, poi condannati per 15 omicidi; l’unico ad aver capito che il duo era in realtà un trio; l’unico a conoscere una verità dirompente e mai scritta sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna.
Di Cantù dicevano che rivoltasse le tasche dei cadaveri per cercarvi documenti e reperti che nemmeno i carabinieri avevano lo stomaco di recuperare. Dicevano anche che una volta avesse torto il braccio a un malavitoso in rigor mortis, fino a spezzarglielo, al solo scopo di consentire al fotoreporter Costantino Fadda di fotografare un tatuaggio sul polso che ne rese certa l’identificazione. Aveva sempre l’orecchio teso, Cantù. Quello che gli interessava sentire, lo udiva benissimo. Per esempio, quando captava che un cronista stava raccogliendo per telefono la notizia dell’ennesimo incidente mortale al passaggio a livello del quartiere di periferia dove abita tuttora, si precipitava alla scrivania del collega: «Chi è? Chi è?». Viveva nell’ossessione che si trattasse dell’unico figlio, Guido. Me ne sono ricordato nei giorni scorsi, quando ho letto che a Marco Dal Fior, caporedattore del Corriere della Sera, è toccata la sorte crudele di apprendere in redazione che una delle tre giovani vittime stritolate da un Suv sul raccordo autostradale di Varese era il suo Paolo, 23 anni appena.
Dopo essersi occupato per mezzo secolo dei morti contemporanei, Cantù è tornato a coltivare con rinnovato vigore la mai abbandonata passione per i morti dell’antichità. Là era cronaca, qui è letteratura. Una dote di famiglia: lo storico Cesare Cantù (1804-1895), erudito politico lombardo, era prozio di suo nonno paterno e quando nel 1833 fu rinchiuso in carcere dagli Austriaci, col divieto di detenere carta da lettere e matita, riuscì a scrivere i primi capitoli del romanzo Margherita Pusterla sulla carta da bugliolo, col nerofumo ottenuto dai fiammiferi. Finora il pronipote ha pubblicato una ventina di libri, tradotti in varie lingue. L’ultimo s’intitola Vestigia romane (Cierre Grafica), un «viaggio attraverso le province dell’Impero». Quello dei Cesari, si capisce. Sono 286 pagine corredate da un Cd interattivo con le immagini scattate dallo stesso Cantù. Eh sì, perché un tempo i bravi giornalisti portavano a casa anche le foto, come accadde quando intervistò in esclusiva a Parigi l’astronauta russo Jurij Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio. Egittologo di fama, in precedenza aveva passato, sia pure a rate, due anni della sua vita a scavare nelle tombe dei faraoni.


Perché hai tradito gli Egizi per i Romani?

«Se la metti così, ben prima di me aveva tradito Augusto, che si fece effigiare come faraone sui templi tolemaici. Dopo di lui, tutti gli imperatori romani vollero essere faraoni: da Tiberio, che imperversa sulle colonne di Kom Ombo ed Esna, a Decio. Su un architrave dell’isola di Elefantina ho scoperto due ritratti speculari di Augusto mentre compie la corsa rituale del giubileo. Come faraone volle dimostrare al dio Amon e al popolo egizio di possedere le qualità psicofisiche idonee ad assicurare la stabilità del cosmo».


Nelle identificazioni sei sempre stato imbattibile, a cominciare da Feltrinelli.

«Davanti al cadavere straziato di quell’uomo barbuto, con addosso l’eskimo d’ordinanza dell’ultrasinistra, la polizia brancolava nel buio. Ma io sapevo che Giangi era tornato dalla Carinzia e aveva partecipato a una riunione preparatoria a Milano per qualcosa di grosso. Sotto il traliccio di Segrate tutto mi fu chiaro: i rossi volevano provocare la paralisi di uffici, industrie, ospedali, tram, ascensori facendo saltare i due tralicci che da Est e da Ovest portavano l’energia elettrica in città. Ma l’ordigno difettoso aveva dilaniato l’editore».


E come facevi a sapere della riunione?

«Mi ero infiltrato nell’ultrasinistra».


Tu? Un ex ragazzo della Repubblica di Salò?

«I compagni erano molto cólti, bisogna riconoscerlo, ma anche un po’ coglionazzi. Non fu difficile farmi passare per simpatizzante. All’Ansa sceglievo sempre il turno di notte, in modo da poter scrivere i miei libri di giorno. La sera mi telefonava Capanna: “Sono Mario, abbiamo fregato i fasci”. Intendeva dire che a qualche avversario avevano aperto la testa con la chiave inglese. Era quella l’arma del movimento».


Ma poi finisti sulla lista delle Brigate rosse.

«A dirmelo fu Arrigo Cavallina, il fondatore dei Proletari armati per il comunismo, che a differenza del suo allievo Cesare Battisti ha pagato fino in fondo il conto con la giustizia e ha cambiato vita. La conferma arrivò dall’ufficio centrale dell’Ucigos di Roma. Mi fu imposta la scorta».


Tu già giravi armato. Ricordo che tenevi una pistola in una cartelletta di pelle.

«Una Colt Cobra 38 special, sei colpi, un gioiellino. Per fortuna è ancora vergine. Ero stato minacciato per lettera da Vincenzo Andraous».


Il pluriomicida della banda Vallanzasca che in galera partecipò all’uccisione di Francis Turatello?

«Esatto. Squarciarono il petto al boss della mala milanese, gli addentarono il cuore e gli strapparono l’intestino. Andraous non voleva che scrivessi che gli erano stati irrogati cinque ergastoli. Secondo lui bastava “condannato all’ergastolo”. Oggi è un buon cristiano, l’ho pure aiutato ad affermarsi come poeta. Ma allora era un pericoloso latitante appena evaso dal carcere di Treviso insieme col brigatista rosso Prospero Gallinari, che l’anno seguente avrebbe rapito e ucciso Aldo Moro».


Che cosa pensi della cosiddetta «strategia della tensione»?

«Da entrambe le parti, estrema sinistra ed estrema destra, c’era interesse a creare una situazione d’emergenza. Non credo affatto che fosse la strategia della Dc per rafforzare il governo».
Chi mise la bomba alla stazione di Bologna?
Io posso riferirti quali furono le risultanze delle mie ricerche. In seguito all’attentato rimase per 9 ore sotto le macerie un tossicodipendente di 25 anni, B.S., nativo di Terni ma residente a Verona. Ebbe la gamba destra spappolata e riportò gravi ustioni al volto. Agli inquirenti raccontò che tornava da Roma e che doveva raggiungere Parma. A me invece disse: “Volevo proseguire per Rimini”. In realtà era sceso alla stazione di Bologna per lasciarvi una valigia che gli era stata consegnata nella capitale».


Da chi?

«Da chi, non lo so. Ma dove, sì: all’Eur. Fu lui a confessarmelo. Sul fatto che fosse l’inconsapevole corriere della valigia contenente probabilmente l’esplosivo si sarebbe dovuto indagare a fondo. Per prudenza non scrissi nulla e avvisai il capitano Gennaro Scala, del nucleo investigativo dei carabinieri, il quale a sua volta informò la magistratura. E sai quale fu il risultato? L’ufficiale venne accusato di depistaggio. Da Roma, dal ministero degli Interni, era arrivato infatti l’ordine d’indagare soltanto fra gli extraparlamentari di destra, non fra i tossicomani. Il presunto fattorino della bomba ebbe dallo Stato 100 milioni di lire d’indennizzo, rivalutati oggi sarebbero 215.000 euro, che dissipò in droga nel giro di un mese. Venne ospitato per oltre un anno da un parroco veronese. Il prete fu rapinato in canonica da due complici di B.S., un balordo torinese e un minorenne padovano. Poi il terzetto cominciò a inviare lettere minatorie al sacerdote, con richieste di denaro. Smascherato e processato, B.S. fu condannato a 4 anni e mezzo di reclusione».


Anche al duo Ludwig arrivasti per conto tuo anticipando gli inquirenti.
«La prima vittima fu un nomade abruzzese, Guerrino Spinelli, arso vivo nell’auto dentro cui dormiva. All’ospedale, in punto di morte, raccomandò alla figlia di stare attenta, perché c’erano in giro tre uomini pericolosi: quelli che l’avevano aggredito. In quell’occasione furono lanciate tre molotov, di cui una non scoppiò. Tutti pensarono a bottiglie molotov. In realtà erano fiaschi riempiti di benzina. E nella rivendicazione del delitto si parlava di fiaschi. Ero sulla pista giusta. Quando venne bruciato uno studente torinese in gita, Luca Martinotti, che s’era fermato a dormire col sacco a pelo in una casamatta asburgica lungo l’Adige, ebbi la prova che i folli di Ludwig erano veronesi».


In che modo la avesti?

«Il fortino austriaco era il rifugio abituale di un minorato psichico, che, avendolo trovato occupato dal saccopelista, vi appiccò il fuoco. Insomma, Ludwig non c’entrava. Nel mio pezzo scrissi che l’incendio era partito da alcune torce, un’espressione di fantasia. Prontamente arrivò una rivendicazione che parlava di torce. Mi persuasi che gli assassini erano del posto, leggevano L’Arena. Cominciai a polemizzare con loro. Dissi che si attribuivano anche delitti non commessi, e questo li fece infuriare. Erano in preda a un delirio di onnipotenza. Non a caso nei loro comunicati proclamavano: “Il potere di Ludwig non ha limiti”. Paranoici totali. Mi rispondevano inviando comunicati all’Ansa di Milano, che facevo analizzare dal grafologo Salvatore De Marco. Da lì s’arrivò ai famosi “solchi ciechi” trovati su alcuni fogli bianchi sequestrati in casa di Furlan: a produrli era stata la scrittura con righello e normografo dei loro testi farneticanti».


E il terzo uomo chi era?

«Colui che con la sua Mercedes accompagnò Abel e Furlan alla discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere, dove furono bloccati prima che la incendiassero. Lo riconobbi senz’ombra di dubbio nell’identikit elaborato dagli investigatori a Trento, dove padre Armando Bison era stato ucciso con un punteruolo a forma di crocifisso conficcato nel cranio. Ma la presenza del terzo uomo sulla scena del delitto cozzava contro l’idea che il giudice istruttore s’era fatto di Ludwig, a suo giudizio una coppia impermeabile. Io invece sapevo che era il rampollo di un imprenditore ricchissimo. Oggi è un personaggio molto in vista, ha persino ricoperto alcuni incarichi pubblici»


Il terzo uomo sa che tu sai?

«Credo proprio di sì, ma gira al largo».


T’è dispiaciuto non seguire da cronista il caso del serial killer Gianfranco Stevanin?

«Più che altro m’è dispiaciuto non essere riuscito a far arrestare nel 1976 il suo precursore, un geometra impotente d’origini bellunesi, abitante in un quartiere-bene di Verona, che stordiva le prostitute fratturandogli il setto nasale con un pugno devastante, le seviziava registrando i loro lamenti e poi gli piantava un coltello nel cuore. È morto per cause naturali. Il fidanzato di Fernanda Pellegrini, una delle vittime, era un ladro. S’introdusse nell’appartamento del maniaco e mi portò il nastro con le urla. Di un’altra assassinata, Regina Dalla Croce, ormai decomposta, toccò a me recuperare scalpo, gonna e camicetta: gli inquirenti avevano portato via il teschio, dimenticandosi tutto il resto».


Qual è il delitto peggiore di cui ti sei occupato?

«Quello di Renzo Pavini, un sordomuto strangolato con una calza di nylon e gettato in Adige da tre diciannovenni per rapinarlo di 44.000 lire. Lo avevano atteso nel giorno in cui ritirava la pensione d’invalidità, con la promessa di portarlo a donne. Invece volevano i suoi soldi per comprarsi la droga».


Come ti sembrano i cronisti di oggi?

«Leggi qua». (Mi porge un titolo di giornale: «Per l’ossessione dei ladri uccide un carabiniere»). «Nell’articolo c’è tutto, tranne l’identità del carabiniere. Tanto, che importa? I carabinieri devono crepare e basta. Ma se vuoi ti mostro il ritaglio dell’ottantenne che, armato di fucile, ha litigato “in modo molto cruento” con i vicini».


Non t’impressiona il moltiplicarsi delle crisi coniugali che sfociano in delitti-suicidi e nello sterminio d’intere famiglie?

«Nulla d’inedito. L’unica differenza è che una volta la notizia di paese stentava ad arrivare nel Comune capoluogo mentre oggi ti viene messa nel piatto all’ora di pranzo dai telegiornali nazionali. Sbagliatissimo, perché la banalizzazione del male induce un effetto imitativo».


A che serve la cronaca nera?

«È necessaria al pari della bianca. Non l’ho inventata io la completezza dell’informazione. Dal mio maestro, Guido Zangrando, che mi assunse all’Ansa, ho imparato due cose: primo, la notizia non ha prezzo; secondo, mai innamorarsi della notizia. La cronaca nera, se sei uomo, serve a farti star male».


Fonte: srs di Stefano Lorenzetto; da ilgiornale.it di domenica 25 agosto 2009.

lunedì 21 settembre 2009

Verona: Castel San Pietro, Questo Sconosciuto


Iconografia Rateriana
Chiesa di San Pietro





L'anno scorso, in autunno 2007, sono iniziati i lavori di sistemazione del Castello di San Pietro, ritengo quindi opportuno, quest’anno, raccontare la storia del monumento più importante di Veronetta perché, su quel colle, si racconta che sia nata la città di Verona. Infatti Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, dice che Verona era stata fondata dai Reti e dagli Euganei.

Oggi, con le ricerche archeologiche, sappiamo che gli Euganei sono vissuti nell’ età del Bronzo da 4000 a 3000 anni fa. In questo periodo di tempo abbiamo le Palafitte attorno al Lago di Garda e lungo il Mincio; le Terreamare: villaggi fortificati da un terrapieno in pianura (il più vicino a noi è il Castel del Leppia vicino all' Adige, a Sud Est di San Martino Buon Albergo) e i Castellieri, villaggi sorti sulle colline e in montagna, difesi da mura a secco. Perciò Castel San Pietro era un castelliere e la sua fonte d’acqua era la Fontana del Ferro, sorgente famosissima per i Veronesi e ricchissima di leggende. Altro castelliere si trovava dove oggi abbiamo la torricella Austriaca n° 1 e la sorgente per i suoi abitanti è la vicinissima Fontana di Sommavalle. In conclusione: Veronetta è la città più antica della Pianura Padana.


Attorno a 3000 anni fa entriamo nella Protostoria. Nel veronese arrivano i Veneti e si uniscono con gli Euganei. I castellieri si sviluppano e potenziano le difese, in modo particolare quelli a controllo della pianura, delle strade, un domani una di queste sarà la via Postumia, e delle dorsali collinari. Questi castellieri, escluso quello del Forte di San Briccio rinvenuto durante la costruzione del forte nel 1883, sono stati scoperti da mio padre, e sono: il Monte Zoppega a Monteforte; il Castejon di Colognola ai Colli e la Rocca di Caldiero; San Briccio di Lavagno; il Castello di Montorio; Castel San Pietro riconosciuto tale dai nostri avi; Monte Castelon di Marano, futura sede del Castello di Federico della Scala; San Giorgio inganapoltron (di Valpolicella). Circa 2500 anni fa si entra, con la scrittura, nella Storia. Da nord i Reti scendono e si uniscono in pace con i Veneti, e si insediano nei Castellieri e a Verona, come ricorda Plinio, sul Castello di San Pietro.

Giovan Battista da Persico, podestà di Verona, perciò austriacante, é probabilmente a conoscenza del Castelliere su Castel San Pietro, e delle idee degli Austriaci, di costruire una caserma sul colle di San Pietro, così scrisse nel 1820 nella sua Descrizione di Verona e della sua provincia:

Quanto spazio dal castello di San Pietro si stende a quello di San Felice, dee essere stato occupato da' nostri primi abitatori, ricordando il Saraina (Antiquit. Veronen. p. 6.) di avervi vedute parecchie grotte e spelonche, quasi come ad uso di selvaggi abituri, i quali in parte andaron poi distrutti, o interrati l'anno 1517, o in quel torno, scavandosi le fosse per le ricordate fortificazioni del Sammicheli. Una di sì fatte spelonche, o altro che fosse, fu scoperta al tempo degli avi nostri, e parte ancor vi sussiste in un gran sotterraneo, che dalla casa dei Lafranchini presso la fontana del Ferro giù correva, attraversando la valle, e inoltrandosi verso il poggio di San Zeno in Monte. I letterati di allora, tra quali l'abate Vallarsi, ne ricercarono l'andamento, e tutte ne spiaron le tracce, e ricordasi che oltre una lunghissima spada, e qualche altro antico arnese, vi si trovaron due scheletri umani, le cui ossa oltrepassavano la comune misura.

Come abbiamo visto, nel 500 a.C., nuove popolazioni arrivano nella Pianura Padana. Secondo Plinio: da Sud gli Etruschi e fondano Mantua (Mantova), da Nord i Reti fondano Verona. Racconta Plinio, che alla fine del 500 a.c., cominciarono a trasferirsi centinaia di migliaia di Galli ( i Celti vengono chiamati Galli dai Romani), transalpini a Sud delle Alpi, per la bontà dei prodotti alimentari come: i fichi, l'olio e il vino, che il clima e la fertilità delle terre donano. Di fatti, ancor oggi, abbiamo l’olivo attorno al lago di Garda e sulle colline veronesi. Lo storico Polibio racconta che, nel 400 a.c., Belloveso alla testa dei Galli fondò Mediolanium


Circa nel 390, Brenno incendia Roma e assedia il Campidoglio, cioè l’ Arx. Se noi osserviamo una pianta della Roma, all’epoca del re Servio Tullio (500 a.c.), ci sembra di riconoscere l’Arx di Castel San Pietro. L’Arx di Roma è un Castelliere circondato da mura a secco. Una ripida strada sale dal Tevere ed entra nell’ Arx da Est. Dall’Adige si stacca una ripida strada nella valletta di San Giovanni in Valle, raggiunge la Fontana del Ferro, poi entra nel Castelliere di Castel San Pietro dalla porta a Est, che tuttora esiste. Dall'alto dell' Arx di Roma, si domina su una vasta pianura e il Tevere che, all'interno della sua ansa, forma l’isola Tiberina; come l'Adige forma l’Isolo. I Veneti, assieme ai Reti, intervengono contro le città sguarnite nell’agro Gallico, costringendo Brenno a togliere l’assedio dell’Arx (il Campidoglio), e tornare a casa. E lungo il corso dei fiumi Adige e Po, le popolazioni Venete - Retiche arrestano l’espansione Gallica. Come si nota già da tempi così lontani, vi era amicizia tra Romani, Veneti e Reti. Difatti sul Castello di Montorio e sul Castelliere del Monte Loffa a S. Anna d’Alfaedo assieme a frammenti di vasi Retici abbiamo un manico di vaso tipico dell’ area Laziale.

Poco dopo la fondazione di Mediolanium, i Galli Cenomani fondano Brixia (Brescia). Il confine del territorio dei Cenomani doveva essere il tratto di pianura che va dall'Oglio - Chiese al Mincio e a Sud al Po. Sempre i Cenomani concludono subito con Roma un trattato di alleanza, al quale tengono fede, assieme a Veneti e Reti, anche durante la guerra annibalica, quando tutti gli altri Galli sono alleati di Annibale.

Logicamente Verona, essendo sull' Adige, diventa la città più importante per i Romani, nella Pianura Padana; inoltre queste tre etnie, i Cenomani, i Reti e i Veneti controllavano le rive dei fiumi: Oglio, Mincio, Po e Adige.

Nel 238 a.C. tutta la Pianura Padana è in possesso dei Galli e iniziano le operazioni militari dei Galli contro i Romani e i loro alleati nella Pianura Padana: i Cenomani, i Veneti, Reti. Logicamente si può immaginare che Roma pensi bene di fortificare, con mura adeguate, le due città principali dei suoi alleati: Brescia e Verona. Resti di questo muro potrebbero essere quelli trovati in via Redentore n° 7 e 9. Il muro è formato da blocchi di pietra giallizza ricavata dalle cave, dove in futuro sorgerà il Teatro Romano fino a Santa Toscana. Questi grandi blocchi misurano di lunghezza m. 1,50, di altezza 60 cm e di larghezza 30 cm; sono posizionati a filari alterni per taglio e per testa, a secco, senza malta o grappe. Le sue fondamenta poggiano direttamente sulla roccia del Colle di San Pietro e sono affiancate da tre strati terrosi ben distinti, contenenti ceramiche dell' età del Ferro databili dal 500 a.C. fino a circa il 100 a. C.. Questo muro doveva circondare il Colle di San Pietro con la su Arx, futuro Campidoglio.

La furiosa guerra contro i Galli si concluse nel 225 a Talomone, con la vittoria dei Romani e i loro alleati, che, come scrive Polibio nelle sueStorie, tra questi vi sono anche ventimila Veneti e Galli Cenomani. Le guerre fra Galli e Romani si concludono nel 222 quando i Romani occuparono Mediolanium e le cambiarono il nome latinizzandolo in Mediolanum. Dopo questa vittoria i Romani iniziano una politica di colonizzazione nella Pianura Padana. Difatti, nella necropoli Gallica di Valeggio sul Mincio, ci sono 21 monete di cui 20 romane e una dramma padana.

Le più antiche monete romane sono le quattro del 211 a. C. Il corredo funebre è Gallico, ma l'esame antropologico ci informa che sono Veneti! E più chiaro è Polibio, nato circa nel 203 a.c. e morto nel 121 a. c., quindi quasi coevo, il quale ci racconta che

Abitava invece da molto tempo la parte vicina all'Adriatico un 'altra popolazione molto antica, quella dei Veneti, per costumi ed abitudini poco differenti dai Galli ma di lingua diversa”.

Il nostro Da Persico ci dice che il Colle di San Pietro in alcune scritture, vien nominato Monte Gallo.

Oggi, attraverso gli scavi archeologici, sappiamo che le tombe con corredo Gallico sono quasi tutte concentrate in Veronetta, dal cortile del Seminario fino sotto la scomparsa centenaria Fonderia di Campane Cavadini, in via XX Settembre.

Ma lo studio antropologico, secondo le mie conoscenze, non è ancora stato fatto. Perciò potrebbero anche essere di Galli, di Veneti o di Reti. Certo è che Castel San Pietro doveva essere una grande città per quel periodo.

Dopo Mediolanum, nel 218, Roma costruisce due colonie: Placentia (Piacenza) sulla destra del Po' e, sulla sinistra, Cremona, ciascuna con 6000 famiglie, per prepararsi le basi della definitiva presa di possesso della Valle Padana e per fronteggiare inoltre il pericolo del sopravveniente Annibale e della sollevazione dei Galli Boi. Se guardiamo una pianta delle due città di Placentia e di Cremona, sono simili aquella di Verona nell’ansa dell’ Adige; il Cardo, la via principale su cui viene orientata astronomicamente la città, è posto sulla nascita del sole al solstizio d’estate.

Che i Romani, assieme a Placentia e Cremona, abbiano costruito anche Verona nell’ansa dell’Adige? E sempre i Romani abbiano dato il nome a Verona?

Notiamo infatti che il nome Verona termina in ona, come Cremona e, in un buon vocabolario di latino le due città sono indicate come città della Gallia Cisalpina. Poi, se cambiamo leggermente il nome di Verona in Veroma, come si vede, questo nome contiene anche quello di Roma e, a sua volta, visto che “vere” in latino vuol dire anche piccolo, che i Romani abbiano chiamato così Verona perchè simile a una piccola Roma?

In conclusione, Cremona e Verona sono sempre state chiamate così dai Romani, il loro nome non è cambiato, come invece per la Felsina Etrusca in Bonomia e per la Gallica Mediolanium, latinizzandola in Mediolanum.

Sempre nel cortile del seminario abbiamo, sopra le tombe Galliche del 200 a.C., le officine artigianali Romane fino al 400 d.C. , compresa una fonderia il cui proprietario era forse un avo del Cavadini: in totale ci sono in questo scavo 600 anni di storia di Veronetta e si può dire che sia lo scavo archeologico più importante della città'.

La storia di questi 600 anni forse non si saprà mai. Perché fuori dalle mura di Verona, si dice che dal 17 giugno 1981 ( inizio degli scavi del tributali) accadde questo. Prima fase: scavo; seconda fase: materiali archeologici in sacchetti e archiviati; terza fase: lo studio non avviene; quarta fase: la pubblicazione del materiale archeologico non avviene; in conclusione si sono persi i soldi per gli scavi, ed i cittadini di Verona non sapranno mai se le tombe erano di Galli, Veneti o Reti.

Silio Italico nato nel 35 d. C. e morto il 110, dice che nell’ estate del 216 a. C. nella battaglia di Canne troviamo alleati ai Romani i volontari Veneti e i Cenomani, anche quelli di Verona Athesi Circumfua, cioè Verona è circondata dall'acqua come un isola.

Che Verona nell'ansa dell'Adige, sia stata costruita prima del 216 a.c.? Cioè due anni prima? Può anche essere, perché è accertato che l’ansa dell’ Adige è sempre stata abitata fino da 6000 anni fa.

Tito Livio ci fa conoscere che tutta la Venezia è soggetta ai Romani dal 185 a.C. Logicamente si può pensare che Verona per i Romani, ne fosse la capitale. Il console Spurio Postumio Albino, nel 148 a.c., costruisce la strada che porta il suo nome: la Postumia, che congiunge Genua(Genova) con Aquileia. Perciò questa via è la prima che percorre tutta la Pianura Padana e congiunge, tra di loro, i capisaldi dell’ occupazione Romana della Gallia Cisalpina. Come si può capire questa via è una strada militare che unisce: Genua (Genova); Placentia a destra del Po;Cremona a sinistra del Po; Bedriacum (Bozzolo), dove passa il fiume Oglio; Goito sul Mincio; e giunge a Verona, dove supera l' Adige sul ponte Postumio, dietro la chiesa di Santa Anastasia, esce dalla Porta di San Faustino (via Redentore 7-9), prosegue dietro alla chiesa di Santa Toscana, via Fiumicello, San Michele; l’attuale Statale n° 11, fino a Vicetia (Vicenza); Opitergium (Oderzo); Iulia Concordia ( Concordia); edAquileia.

Mi scuso con i miei lettori per questa lungaggine di nomi di città. Ma è l'unico modo per far capire che Castel San Pietro era la sentinella della Gallia Cisalpina, e Verona è sempre stata militarmente la città più importante della Pianura Padana. Difatti si trova geograficamente al centro della via Postumia tra Genova e Aquileia.

Il nostro Scipione Maffei dice che sulla sommità della collina di San Pietro si trovava il Campidoglio dei Romani e uno scrittore del 1300, che così si chiamava ancora quel sito.

Successivamente sulla cima di Castel San Pietro, venne costruito un tempio a Giove. Giove (Iuppiter) è la massima divinità della religione Romana: dio del cielo e della luce. Da Giove proveniva anche il fulmine ed era chiamato anche Iuppiter Fulgur Fulmen. Sul Campidoglio di Roma subito si costruì il tempio a Giove, nel quale, per mancanza di un’ immagine del dio veniva adorato sotto il simbolo di una pietra focaia(silex): e prese il nome di Iuppiter Lapis.

Possiamo immaginare quando i Romani trovarono la selce in abbondanza, e le punte di freccia in selce, costruite dall’uomo primitivo, che erano credute fino ai giorni nostri le punte dei fulmini, figuriamoci se non costruivano un tempio a Iuppiter Lapis.

Per costruire questo tempio era necessario edificare un robusto muro di contenimento per formare un piano su cui innalzare il tempio. Questo muraglione aveva due vantaggi: il primo era quello di costruire con il tempio a Giove, una balconata sulla città, il secondo di rispettare il tempio precedente dei suoi alleati, dove oggi abbiamo i resti del mastio, dedicato, forse, alla dea Veneta-Retica, Reitia.

Oggi abbiamo, come esempio, i templi protostorici sul Monte Castejon a Colognola ai Colli, quello che esisteva sul Forte di San Briccio, sul Castello di Montorio e il vicino Monte Piraldolo (dell'età del Bronzo), e a San Giorgio Inganapoltron, sotto al Cimitero.

Con questi cinque esempi possiamo ricostruire come era Veronetta 2300 anni fa: sul Colle di San Pietro dall’ Arx fino alla riva dell’ Adige una città, fuori dalle mura (come al Castello di Montorio) le necropoli: Venete, Retiche e Galliche. Il muraglione per il sostegno al Tempio di Giove, non poteva essere costruito prima del 204 a.C., per il motivo che solo allora si inventò la malta di calce, che diede ai Romani una straordinaria tecnica edilizia. Attualmente il grosso e alto muro si vede sul lato Est, che guarda San Giovanni in Valle, ed è in opera vittatum, che è la più logica e semplice disposizione di blocchetti parallelepipedi ( da noi chiamati anche tufelli), su filari orizzontali.

Altro antichissimo muro, quasi coevo del precedente e l’unico in Italia settentrionale, è quello in opera reticulatum nel Teatro Romano, usato alla fine del secondo secolo a.C.. Naturalmente le casette semiinterrate di tipo Retico, come quelle bellissime che si trovano sul Castello di Montorio; con la costruzione del Teatro Romano vengono distrutte. Però nel 1915 sotto la seconda loggia del Teatro, vari scavi nella roccia, preesistenti al teatro stesso, accennano ad antichissime abitazioni.

Queste abitazioni oggi le chiamiamo casette di tipo Retico; casette sono state trovate anche durante il restauro della farmacia di Ponte Pietra avvenuta tra il 1996 e 1998, esistono tuttora, sotto i terrazzamenti orticoli di Villa Francescati e su quelli di via San Carlo.

Quando nel 1984 si sparse la voce che sul Castel San Pietro non esisteva più niente di preistorico, a causa degli sconvolgimenti che subirono negli anni passati i terreni, in Villa Francescati raccolsi il materiale preistorico e lo consegnai a chi di dovere. Speravo pertanto che si avviassero le ricerche invece tutto finì li. Personalmente so bene dove trovarlo, perché mio padre Giovanni abitava da giovanetto in via San Carlo e prese la passione per lo studio della preistoria, proprio raccogliendo i cocci e le selci negli orti dietro le case sulle pendici del Castello. Questo espediente lo ripetei nell’aprile del 1996, assieme al marito dell’ allora sindaco di Verona Michela Sironi: negli orti di via San Carlo raccolsi materiale archeologico dall’ età del Bronzo ai giorni nostri. Poi, come al solito, gli oggetti furono consegnati alle autorità competenti.

Devo ricordare agli studiosi di preistoria che, caso strano, su Castel San Pietro non si è mai eseguito uno scavo archeologico serio, ma solo nei suoi pressi: a Castel San Felice nel 1941 e, nel 1942 a San Zeno in Monte.

Le memorie dei nostri antichi scrittori ci danno come esistente nel quinto secolo la chiesa di San Pietro in Arx, costruita sopra un tempio dedicato a Giove, a Giano, al Sole o a Serapide. Tradizionalmente i templi dedicati a Giove vengono sostituiti dal Principe degli Apostoli Pietro. Secondo Onofrio Panvinio, frate Eremitano Augustiniano, la prima Cattedrale di Verona era San Pietro in Castrum perché, al di sopra del teatro che nei secoli precedenti era stato lo stadium dei martiri veronesi, e pertanto sarebbe la più antica di Verona.

Poi, nell'anno 1854, il nostro canonico austriacante, Paolo Vignola, ebbe il permesso di seguire i lavori per la costruzione della caserma. Scrive che la struttura della chiesa era divisa in tre navate per segnare la separazione degli uomini dalle donne: per i primi era la navata meridionale, larga poco più di 5 metri; per le donne era la settentrionale, larga poco più di 6 metri; l’abside era ad oriente; la lunghezza della chiesa era di circa 45 m ed era stata costruita sul Tempio a Giove. Questo Tempio a Giove, quando venne trasformato in Cristiano, mantenne anche la tradizione dei culti pagani: all’interno della chiesa venne edificato un altare alla Madonna del Fulmine; all’esterno la torre più antica fu chiamata la torre del Fulmine.

Si racconta che Teodorico si costruì un suo castello sul Colle di San Pietro. Resti di questo maniero potrebbero essere, appunto, la Torre del Fulmine, perché, alla sua base, notiamo pietre di spoglio di età romana, generalmente usate per la costruzione delle mura di Teodorico.

Nell’Iconografia Rateriana vediamo rappresentata per la prima volta, la chiesa di San Pietro De Summo Montis Castrum e la sua importanza è tale che, tra le varie chiese sull'iconografia, è l'unica ad avere il nome.

A proposito dell’ Iconografia di Raterio, in questa di certo non possiamo vedere la Verona dell' anno 900, perché gli scavi archeologici in città - (vedi anche al Seminario)- hanno dimostrato che dall’anno 589 a circa l’anno 1000 in Verona le case erano costruite con mura a secco e tetti di paglia.

Successe che, dopo l’inondazione del 17 ottobre 589, ci fu un incendio devastante, seguito da una grandissima peste. L’anno seguente (590), tutte le costruzioni romane in rovina vengono abbandonate. Il 4 gennaio 591 inizia una siccità gravissima fino a settembre, segue peste ed invasione di cavallette. L’anno seguente, 592, porta un’ulteriore invasione di cavallette e la peste inguinaria che fa strage nella popolazione. Nell’anno 593: terremoto, alluvione e peste. Segue l'anno 594 e il popolo di Verona viene colpito da una violenta epidemia e rischia di scomparire. Infatti, dall’anno 600, a Verona, inizia un periodo di forte arretramento nelle tecniche costruttive, non si usa più la malta, ma la terra, per legare ciottoli e materiale lapideo di riutilizzo romano. Solo gli edifici a scopo religioso vengono costruiti con tufelli e malta, i mattoni non esistono più. Con quest’ immagine la nostra Verona non poteva essere dell’anno 900.

Anche il testo dell'Anonimo De Laudibus Veronae, ritenuto dal Simeoni essere stato scritto tra il 796 e l’806, secondo la mia opinione è stato scritto ispirandosi all’Iconografia di Raterio e non certo la Verona dell'800.

Così scrive l’Anonimo sul nostro Castello:

ha un grande ed eccelso castello e sicuri baluardi, ponti di pietra gettati sull’Adige e le estremità di questi toccano da una parte la città e dall’ltra il castello.

Il Castello e le mura potevano anche esistere, i ponti in pietra certamente no: il Ponte Postumio era chiamato il Ponte Rotto e il Ponte Pietra, in parte, era di legno.

Nell’ ampio foro, spazioso, lastricato di pietre, un grande arco si erge in ognuno dei quattro sui angoli. Le strade sono pure selciate con pietre squadrate.

Quest’ultimo brano è pura fantasia, basta ricordare gli scavi nei Palazzi Scaligeri, in Piazza Viviani (tuttora aperti), e in via Mazzini, per sapere come era la nostra città. In Veronetta, il nostro Anonimo, nomina solo le chiese:

il protomartire Stefano, Pietro e Paolo, Giacomo apostolo, il precursore Giovanni Battista ed il martire Nazario con Celso ed Ambrogio. L’inclito martire di Cristo Gervasio e Protasio, Faustino e Giovitta Eupolo e Calogero, Maria la madre del Signore, Vitale ed Agricola.

Ritornando alla chiesa di San Pietro in Arx, la prima notizia dell’ esistenza della chiesa l’abbiamo il giorno 24 luglio 531 quando viene sepolto il Vescovo S. Valente e il successivo S. Verecondo.

La leggenda ci racconta che il 7 aprile 924 viene ucciso Berengario, mentre si recava a pregare alla chiesa di San Pietro in Castello.

Umberto Crivelli, nato a Milano il 25 novembre 1185, viene eletto Papa nella chiesa di San Pietro in Arx con il nome di Urbano IlI, muore il 19, o il 20 ottobre 1187, e viene sepolto nel duomo di Ferrara: questa è l'ultima notizia importante su San Pietro in Castello.

Dalla costruzione del Castello di Teodorico, fino alla venuta dei Visconti, non si parlerà più del Castello di San Pietro in Castro.

Anche quando nell'anno 2000 scrivo il n° 8 di Tra cronaca e storia “LA PORTA DEL VESCOVO E LE SUE MURA” tutti gli storici confermano che Castel San Pietro è stato costruito da Gian Galeazzo Visconti. Personalmente non ne sono convinto: è mai possibile che gli Scaligeri prima di Can Rabbioso ( Cangrande II ), ricordato per le pesanti tasse che imponeva al suo popolo anche per costruirsi Castel Vecchio, non avessero un Castello in Verona? Se esisteva dove lo avrebbero costruito? Su quel monte dove sorgeva la primitiva Verona: il Castelliere, come il Vescovo costruisce il suo a Montorio; sulla Rocca di Caldiero il castello viene incendiato dai Monticuli nel 1207; il castello sul monte Castejon di Colognola ai Colli viene donato al Conte Rizzardo nel 1236.

Ulteriori ricerche sul Castello di San Pietro portarono buoni risultati. Il Canobio scrive:

La Rocca di S. Pietro fu da Berengario Seniore Re d'Italia ampliata e ridotta a maggior fortezza, essendosi valso per quest’opera delle pietre dell'antichissimo Teatro ruvinato... e serro in essa la Chiesa di S. Pietro quivi per innanzi edificata ed anco l’antica fortezza che v’era fino al tempo della dominazione de' Goti in Italia...

L'anno 1156 i Crescienzi fecero tumulto contro i Sambonifaci, ed incendiarono una Rocca che tenevano i Sambonifaci sopra il monte vicino ove ora è il Castello di San Pietro.

Che sia stato Castel San Felice?

Can Grande nel 1325 fece erigere quel muro, che principiando dalla porta detta del Vescovo termina a quella di San Giorgio fino alla riva del fiume Adige avendo fatto prima scavare la fossa a forza di picco e di scalpello nel taffo.

Dopo il tradimento di Fregnano (Federico), veniva il Signor Cane Grande con grandissimo sospetto d'altri simili incontri, onde per assicurar la vita, fece fare il Castel Vecchio per sua abitazione, il quale in tre anni venne finito.

Can Grande muore il 22 luglio 1329. Oggi conosciamo che Can Grande II detto il Rabbioso (1351- 1359), costruì Castel Vecchio.

L'anno 1389 Giangaleazzo... L'antica Rocca situata sopra il monte di San Pietro, ampliandola, fu da lui in Castello ridotta, nella forma come è di presente.

Un altro autore scrive così:

1389. Il Visconte ordinò si restaurasse l'antico Castello di San Pietro, si chiudesse la porta verso la Città che hora si vede, in breve fu ridotto nella forma che hora si vede.

Stando così gli avvenimenti, Can Grande I visse nel suo castello solo un anno, ma dove si trova? L'unico modo per saperlo è vedere le mura del Castello.

Castel Vecchio è in mattoni perciò non è stato costruito da Can Grande I.

Le mura di Can Grande I sono in opera quasi reticulatum, cioè gli spigoli sono formati da mattoni sistemati come se formassero i denti di una sega e il muro costruito con grossi frammenti di pietra Gallina; sembra che questo sistema di costruzione sia stato copiato dal muro dell’Odeon di Pompei.

Valentino Alberti ricorda la distruzione del Castello di San Pietro:

14 marzo 1801. Oggi, alle 5 dopo mezzo giorno si ha dato fogo alli torrioni, ossia bastioni delli castelli di San Pietro e San Felice; ma nello scoppiar le mine hanno rovinato diverse persone... onde sono restati diversi soldati ch’erano nel castello feriti e anche una ragazza. Poverina se era bella, fu un gran peccato!

Dopo 169 anni dallo scoppio del Castello di San Pietro il Prof. Lanfranco Franzoni tenta uno scavo archeologico attorno al Mastio nel 1970 e fa notare che il Castello è sede di insediamenti dell’ età del Ferro e del Bronzo.

Oggi si dice che di tutto ciò non è rimasta traccia, perciò si scava con le pale meccaniche, si caricano i camion e tutto va in discarica. Forse gli addetti alla salvaguardia del nostro patrimonio archeologico si sono dimenticati cosa è accaduto sul Castello di Montorio, che è la bella copia del Castello di San Pietro, tanto da scrivere poi che l'antica Verona era a Montorio e la nostra Verona era solo un piccolo villaggio sulle rive dell' Adige.

Alberto Solinas

Fonte: srs di Alberto Solinas; Tra cronaca e storia n 15, - 2008- Castel San Pietro, questo sconosciuto

martedì 8 settembre 2009

CASTEL SAN PIETRO: IL CASTELLO DI CANGRANDE DA VERONA

Il 21 Gennaio del 1793 alle ore 10.22, viene decapitato Luigi XVI. Di conseguenza tutta l'Europa dichiara guerra alla Francia, Solo Venezia dichiara l'imbelle neutralità disarmata, perciò tutti gli eserciti possono entrare e uscire dal suo territorio. L'anno successivo, il 1794, entra in Verona l'Austria e, naturalmente, per prima cosa, esegue i rilievi topografici delle fortificazioni. Logicamente esegue anche quelli di Castel San Pietro che, per il nostro argomento, è importantissimo, in quanto era ancora intatto, mentre, sette anni dopo, il 14 Marzo del 1801, venne parzialmente raso al suolo dai Francesi.
Il lato del Castello, che è rivolto a est (San Giovanni in Valle), e verso nord, ci dà la possibilità di capire, attraverso le strutture murarie, che in effetti era il Castello di Cangrande. E' noto che Cangrande era famoso per la sua fedelissima cavalleria leggera, composta da circa 400 uomini e pressappoco 800 cavalli, che potevano essere acquartierati comodamente nel Castel San Pietro e non certo attorno a Piazza dei Signori.

f. torre del Fulmine;
b. Chiesa di San Pietro costruita sul Tempio a Giove;
c. Caserma;
g. Pozzo; h. rampe per i ponti Levatoi;
e. Torri principali e Mastio;
h. i. g. Torri;
I. Strada di soccorso;
m. Stalli (65)





Stalli in mattoni all'interno del Castello, addossato al muro esterno. Il Conte de Virtù restaurò parte del muro sopra gli stalli.




La porta di soccorso rivolta verso San Giovanni in Valle (ingresso attuale) è stata restaurata dal Conte de Virtù, infatti i corsi di mattoni non sono più 2, ma diventano 3, 4 o 5, e le misure dei mattoni sono come quelle dei precedenti; tra i corsi dei mattoni abbiamo tuffelli ben squadrati, dall'altezza dei corsi dei mattoni.



L’esterno di una torre di Castel San Pietro non è come quelle delle mura di Can Grande?



Da Porta Vescovo, salendo la via del Santo Sepolcro arriviamo alla Porta di Can Grande, e incontriamo la sua torre (n.14) .Questa torre è una delle più belle che possiamo analizzare facilmente.
Come tutte le prime torri Scaligere, i suoi spigoli sono caratterizzati da mattoni che formano la cosiddetta dentatura a sega. Di questi denti ne riconosciamo tre e sono divisi da due corsi di mattoni. Il dente più basso è alto m. 1,30, alla base misura cm. 90 e in alto cm. 45; aggiungendo i due corsi di mattoni abbiamo una altezza di m. 1,45.
Il dente più basso è alto m. 1,30; alla base misura cm. 90 e il alto cm. 45; aggiungendo i due corsi di mattoni si ottiene l'altezza di m. 1,45. Nella vicina torre n.13 abbiamo queste misure del dente: base m. 1,20; altezza cm. 60; tra le due file di mattoni cm. 1,55; più i mattoni si ottiene l'altezza di m. 1,80. E’ da notare che le proporzioni del dente variano, ma il sistema di costruzione è sempre quello.
Il fronte del dente e i corsi dei mattoni sono sempre posizionati in questa maniera: un mattone sistemato con il lato lungo affiancato da un secondo con il lato corto. I mattoni hanno questa misura: il lato lungo varia da cm. 28 a cm. 26; il lato corto da cm. 12 a cm. 14; lo spessore è sempre di cm. 6.


Castel San Pietro visto da San Zeno in Monte. In un disegno forse del 1700. E. Bastia; D. Reggia


Prospetto interno dell’antichissima Chiesa si San Pietro in Castello


Castel Vecchio nel 1801


Castel San Piero: Nel disegno è chiaro che le mure di Can Grande sono uguali a quelle del Castello


Castel Vecchio di Can Grande




Castel San Pietro nel 1483



L'anno scorso abbiamo scritto la storia di Castel San Pietro partendo dalla preistoria. Su questo argomento alcuni amici mi hanno contestato dicendomi che Can Grande non costruì mai il suo Castello sul colle di San Pietro, infatti tutti gli studiosi antichi e moderni sostengono che sia opera di Giangaleazzo Visconti. Inoltre mi hanno chiesto dove fossero le prove di quanto andavo sostenendo.


Le prove cercherò di fornirle iniziando dalla storia architettonica della costruzione di tutti i Castelli. Come esempio prendiamo in considerazione il castello di San Martino in Acquaro (Castel Vecchio) costruito da Can Grande II, detto dai veronesi “il Rabbioso" per le tasse che mise ai cittadini per costruirlo.
I Castelli sono formati da due parti: la Reggia, dove vive il castellano con i buoni uomini della città, e la Bastia dove vivono accampate le milizie mercenarie. La Reggia è ben difesa da mura e fossati, mentre la Bastia ha il fossato, un semplice muro e, generalmente, la chiesa che dà il nome al castello.
Castel Vecchio di Verona ha la Reggia dove oggi abbiamo, in parte, il Circolo degli Ufficiali e il Ponte di Castel Vecchio che conduce verso la valle dell' Adige. La Bastia è divisa dalla Reggia con un muro e un fossato; al suo interno abbiamo la Chiesa di San Martino Acquaro e un muro a elle che segue il fossato di tutto il Castello e termina sulla sponda dell’ Adige, che serviva come difesa della Bastia; oggi la Bastia è occupata dalle costruzioni del museo. Infine i più antichi Castelli sono costruiti con sole pietre; verso la fine del 1200 inizia l'uso del mattone, che aumenta poi verso la fine del 1300.
Nei primissimi anni del 1400 i Castelli non servono più, vengono abbandonati o trasformati in regge. Cos'è accaduto? Si inventa la polvere da sparo e i cannoni provocano nelle mura dei Castelli delle brecce. Terminato questo capitolo iniziamo con la storia letteraria su Castel San Pietro.

E' mia abitudine leggere i vecchi libri per avere delle prove certe su quello che scrivo e condividerlo anche con chi non crede all'esistenza del Castello di Can Grande sull'attuale colle di San Pietro.
Tutti gli scrittori presero notizie dal primo libro che fu scritto sugli Scaligeri da Messer Torello Saraina nel 1547. Teniamo presente che le sue spoglie riposano nella Chiesa di San Fermo. Questo libro venne scritto circa 150 anni dopo la fine della Signoria Scaligera, perciò le notizie erano ancora "fresche" e ricche di documenti. Messer Torello Saraina scrisse le Historie e fatti de veronesi nelli tempi d'il popolo et Signori Scaligeri:

"L'anno 1283, essendo Podestà de Verona eletto Messer Alberto, Messer Thomaso de Bonacorsi de Mantova, nacque alterazione fra veronesi e Trentini sopra li confini. Impero che li Trentini volevano restringere le giurisdizioni de le montagne veronese, che con la loro ditione confinavano, per la qual cosa mandogli Messer Alberto da Castel Barco, si come pratico, e istruito in quella materia, pensando quello dover essere bastevole a fare capaci li Trentini del lor errore Aggioto Messer Alberto con le ragioni de Veronesi, gli mostrò, che ingiustamente occuparono quello, che a la giurisdizione de Verona era pertinente, per il che come sono partecipi de la natura de li lor vicini alamani mossi da furore, fecero impeto in detto Messer Alberto, e popolarmente lo intrattenerono, chiudendolo ne le carcere, la qual discordia udita per Messer Alberto Scaligero, con buona banda de cavalleria si trasferì a Trento e recuperò Messer Alberto de Castel dando grosso castigo a Trentini de questa loro insolenza. Ritornato da questa impresa e in tutto datosi alla quiete, incominciò molte fabreche necessarie per la fortezza de la città segretamente l'anno 1287, cinse Verona de buona muraglia da la Porta del Vescovo fino a l'Adige chiudendo il Campo Marzo, luogo spazioso ove anticamente solevano esserci li soldati, ne l'imperar li ordini de la militia, e nel presente per essere luogo adatto in si asciugano le lane purgate, e lavate, in questo suo edificare spensero quattro anni continui, ne li quali le torri delle porte fece inalzare, e inoltre fortezze per il paese racconciare, e alcune da gli fondamenti indrizzare, la giustizia con ogni studio voleva che fosse osservata, rendendosi parco verso la plebe misericorde, e compassionevole, in questo modo divenne caro a tutti egualmente, reggendo la città con la pace è schiffando la guerra fino all’ anno 1292… "

Con questo avvenimento iniziarono le fortificazioni Scaligere della città di Verona, che perciò, logicamente, doveva possedere anche un Castello adeguato per controllare e comandare ordini per la difesa della città. Così prosegue Saraina:

"In quel tempo, 1320, i Signori della Lombardia a quali il Pontefice faceva gran dano e ingiuria per tenere un ponte sopra il Po con il quale arrestava le navi che andavano, e ritornavano per il fiume riscuotendo una grossa gabella per il passaggio delle mercature, e viandanti, cosa de grande danno a li popoli de Lombardia, si congregarono insieme nel Castello di Palazzolo nel territorio bresciano, in quel luogo viando anche Messer Cane come Signore di Hostiglia, perché e danneggiato non poco da quel ponte... chiesero al Pontefice di lasciare libero il passaggio senza pagare la gabella, come erano le antiche usanze, con il beneficio di tutti i Lombardi... e quando il Pontefice restasse in opinione di tenerlo, con le armi costringerlo a levarlo...".

In quell’occasione Can Grande venne eletto Capo Generale, di conseguenza il Pontefice Giovanni XXII scomunicò Can Grande. Can Grande aveva capito che per lui le sorti di Verona potevano essere in pericolo se il Pontefice avesse fatto una Lega contro i Lombardi. Inoltre Can Grande doveva ricordare che suo padre Alberto, nel 1283, aveva avuto dei problemi di confine con i Trentini. La città era difesa validamente con le mura costruite da suo padre Alberto, che iniziavano a Porta Vescovo e raggiungevano l'Adige. Segue Saraina:

" Disciolto questo convegno, e tornato messer Cane in Verona incominciò una grande fabbrica per monumento de la Città aiutato da li cittadini e contadini in questa spesa, e fece la fossa larga e profonda de fuori la muraglia de la porta de S. Giorgio fino a quella del Vescovo: la quale fu de estrema fatica, perché fu di bisogno tagliare una gran parte de quel monte, e con li picchi, e scalpelli fondarla, oltre a questo fece con fretta mura merlate con le Torri intermedie de detta porta d’il Vescovo fino a la chiesa de S. Zenone posta nel monte, la caggione de questa fretta fu, perché aveva sentore che li Duchi d'Austria, e de Corinzia, per istigazione d'il Conte de Gorizia, e Padovani congregavano gente per espugnare Verona, e già avevano ritrovato nuove cavilazzioni che messer Cane macchinava di rompere la pace gia con quelli fatta. Ma messer Cane prudente con doni rallentò il furore de questi principi, e cessarono li apparati loro completamente. Il modo con quale lui operò fu, che dimandò a detti signori Tedeschi le Tergue per tutto l'anno 1324, quale di bisogna gli furono concesse senza saputo d’el Conte de Gorizia e Padovani. In questo anno fu diligente ne'l fabbricare, e riscosse da Veronesi soldi vinti per ciascheduna libra d'el estimo drento, e soldi quindece per quello de fori per sovvenzione delle fabreche e segretamente no cessò de scrivere, e pagare molti soldati per essere impronto alli danni de suoi nemici. Passato il tempo de le tregue ne 'l principio de Marzo entrò Cane con quattrocento leggieri ne'l territorio de li nemici, e con intelligenza de le guardie pigliò due castelli, l'uno de Vigazollo, e l'altro chiamato de Brusaporcho, il quale saccheggiato fece ardere, dopo poi facendo la strada de Lonico entro ne 'l Padovano scorrendo Montagnana, Este, Moncelise, et il resto di quello paese da quello canto, rubbò, uccise, preggionò, abbruggiò senza impedimento alcuno, e ritornò con una incredibile preda in Verona. E senza indugio rinforzò le fabreche e riscosse un 'altra imposizione de soldi sedici per libra così ne la Città come ne'l distretto...".

Dopo aver appreso quello che scrisse Saraina, è mai possibile che Cane, per sentirsi più sicuro nella sua Verona, non si costruì un castello? Dove era logico che se lo costruisse? Non era forse sul colle di San Pietro dove Teodorico, Berengario Giangaleazzo Visconti ed infine l'austriaca caserma si posero a difesa? E perché mai proprio Can Grande non avrebbe dovuto costruire il suo castello sul colle di San Pietro, un luogo naturalmente imprendibile con le armi bianche?
La soluzione resta semplicemente nel vedere come nei quattro anni che Can Grande impiegò a costruire le sue mura, gli fu possibile costruire anche il suo Castello. Se ciò fosse accaduto il Castello di Can Grande doveva avere la stessa tecnica costruttiva delle mura; infatti il Castello è stato costruito nella stessa maniera delle mura.
Seguono ora una serie di immagini sulle mura di Can Grande e quelle sul Castel San Pietro, dove il lettore potrà facilmente verificare munendosi di una semplice corda metrica, le misure che ho rilevato. E' da notare che finalmente l'accesso al parco del castello visconteo è aperto giorno e notte, perciò si può entrare quando si vuole per constatare la veridicità ci ciò che sostengo.

Il 21 Gennaio del 1793 alle ore 10.22, viene decapitato Luigi XVI. Di conseguenza tutta l'Europa dichiara guerra alla Francia, Solo Venezia dichiara l'imbelle neutralità disarmata, perciò tutti gli eserciti possono entrare e uscire dal suo territorio. L'anno successivo, il 1794, entra in Verona l'Austria e, naturalmente, per prima cosa, esegue i rilievi topografici delle fortificazioni. Logicamente esegue anche quelli di Castel San Pietro che, per il nostro argomento, è importantissimo, in quanto era ancora intatto, mentre, sette anni dopo, il 14 Marzo del 1801, venne parzialmente raso al suolo dai Francesi.
Il lato del Castello, che è rivolto a est (San Giovanni in Valle), e verso nord, ci dà la possibilità di capire, attraverso le strutture murarie, che in effetti era il Castello di Cangrande. E' noto che Cangrande era famoso per la sua fedelissima cavalleria leggera, composta da circa 400 uomini e pressappoco 800 cavalli, che potevano essere acquartierati comodamente nel Castel San Pietro e non certo attorno a Piazza dei Signori.

f. torre del Fulmine;
b. Chiesa di San Pietro costruita sul Tempio a Giove;
c. Caserma;
g. Pozzo; h. rampe per i ponti Levatoi;
e. Torri principali e Mastio;
h. i. g. Torri;
I. Strada di soccorso;
m. Stalli (65)