domenica 28 dicembre 2008

Chiara dicono che il mondo laggiù sia triste e violento





Chiara, dicono che il mondo laggiù sia triste e violento
nel contempo caotico desolato  e falso
tinto completamente  di rosso per troppo sangue inutilmente versato...
Non temete...
io rimango qui...
lo  osservo a debita distanza.

venerdì 12 dicembre 2008

Io muoio a mezzanotte





Ernest Gaither Jr., condannato a morte in America per omicidio, racconta la sua conversione
 Quando voi leggerete questo, io sarò morto. Ma non vi spaventate di ricevere notizie da un uomo morto. Perché adesso che io comincio questa storia sono molto vivo.
E’ il 9 settembre 1947, un martedì. Giovedì a Mezzanotte è previsto che io muoia perché colpevole di omicidio.
Stando seduto qui nella mia cella nella prigione di Cook County, io ho pensato molto. Alcuni dei miei pensieri – un avvertimento ai criminali – sono stati pubblicati oggi sul Chicago Tribune in ‘un annotazione rivolta ai tipi duri’.
Questo pomeriggio io ho letto l’annotazione per un programma radiofonico. Ma quell’annotazione in realtà era solo una parte della mia storia.
La vera storia, io penso, sta nel fatto che io sono disposto a parlare della morte. Io sono un Negro, ho solamente 23 anni ma io, vedete, sono pronto a morire. Perché? Perché sono pronto a incontrare Dio. Sono veramente felice. Proprio questa settimana, io ho fatto un sogno che porterò con me alla sedia elettrica. Ero sulla strada che porta in Cielo, Gesù era con me. Ma io facevo quattro passi mentre lui ne faceva due. Lui mi ha domandato perché andavo così veloce e io gli ho risposto che ero ansioso di arrivare in Cielo. Poi fui là in cielo, circondato da numerosi angeli.
Alcuni penseranno che, per un uomo che è entrato in prigione ateo, questo è uno strano discorso, ma io la penso esattamente in questa maniera. Voi comprenderete meglio quando vi dirò come un mattino di buon ora io ho incontrato Dio.
Ma innanzi tutto gettate uno sguardo sul mio passato. Sette anni fa io ero un rapinatore a mano armata, capo della mia propria gang di tipi duri. Eravamo in otto. Uno era Earle Parks soprannominato ‘Faccina’ perché lui vi avrebbe ucciso con un sorriso sulla sua faccia. Un altro era Charles Jones, conosciuto con il nome di ‘Ragazzo Carino’ perché era un tipo di bell’aspetto. Gli altri erano: Herbert Liggins conosciuto con il nome di ‘Gamba Pazza’ perché aveva una gamba malata. William Lee era chiamato ‘Bill il Selvaggio’, e Charles Hill era conosciuto come ‘Il Ragazzo del Colorado’. Clyde Bradford era così nero che noi lo chiamavamo ‘Azzurro’. ‘Il ‘Conducente’ era Percy Bellmar; noi l’avevamo soprannominato così perché era un buon autista, il mio conducente numero uno. Sono tutti in prigione eccetto Parks che è stato giustiziato per omicidio.
Essi mi chiamavano ‘Piccolo Gaither, lo Sprecone di Soldi e il Cacciatore di donne’. Io cercavo di fare il ‘pezzo grosso’ ostentando sempre una grossa somma di denaro – alcune volte due o tre biglietti da mille dollari.
Quando io cominciai a fare tutto ciò, io ero solo un ragazzo. La mia famiglia cercò di mandarmi alla Scuola Domenicale e in chiesa. Più di una volta, essi mi donarono dei soldi perché vi andassi con le mie più giovani sorelle, ma io non ci andai mai. Invece, io facevo loro promettere di non dire niente, e poi correvo al cinema. Io stavo al cinema la maggior parte della giornata e dicevo ai miei genitori che ero andato in chiesa, e loro non si accorgevano di niente.
Il crimine era dentro di me, e i film che io vedevo mi aiutarono, mi diedero delle idee. Io vi appresi alcune buone informazioni che mi istruirono sul ‘modo di darsi da fare’. Io mi ricordo del giorno in cui vidi il film ‘Ho rubato un milione’. Ero là seduto, desiderando di essere io il tipo che si era procurato il milione.
Decisi di intraprendere la carriera pugilistica perchè pensai che ero forte e che avrei potuto difendermi. Avrei picchiato sodo, io pensavo. Fui uno dei migliori combattenti della mia classe per un po’ di tempo. Diventai professionista nel 1938 e combattei come peso medio. Io terminai come peso mediomassimo. Il solo uomo a mettermi k. o. fu Jimmy Bovins.
A 18 anni, io mi ritrovai nella Scuola di Ammaestramento per Ragazzi dello Stato dell’Illinois per rapina a mano armata. Nell’ottobre del 1941, otto di noi fuggirono, ma il mese successivo io mi ritrovai condannato nel penitenziario Joilet. Ebbi l’ergastolo per un omicidio in un parco di Chicago, ma uscii sulla parola nel 1946. Sembrava che ciò doveva essere stata una lezione per me, ma non lo fu.
Sei mesi dopo che ero fuori, io ero capo di una nuova ‘gang’, questa durò fino al 9 Febbraio scorso. Quella sera tre di noi rapinarono Max Baren, 49 anni, nel suo negozio di liquori situato nella Parte Ovest di Chicago. Baren allungò la mano per prendere una pistola. Io gli urlai di mettere giù la pistola, ma lui faceva sul serio. Io sapevo che sarebbe stato lui o noi. Così io sparai a Barren e lo uccisi. Noi fuggimmo con i soldi, solo 300 dollari in tutto, che più tardi io diedi agli altri ragazzi. Io me ne andai a New York, poi ad Atlanta dove la polizia mi afferrò.
Qualche settimana più tardi io comparvi davanti ad una corte di Chicago. ‘…. ti condanna a morte ….’, disse severamente il giudice.
Così andai al Braccio della Morte.
Non molto tempo dopo che io fui messo dietro le sbarre, il 23 Marzo scorso, una donna della mia stessa razza – la Signora Flora Jones della Chiesa Battista d’Olivet – mi invitò ad assistere ad una riunione evangelica per detenuti. Io in quel momento stavo giocando a carte con altri compagni e gli risi in faccia. ‘Perché?’ Io le dissi, ‘Io non credo neppure che esiste un Dio’. Io mi vantai e continuai a giocare a carte, mentre la donna mi supplicava ancora. A dire il vero, io mi sentivo così colpevole, che non ne volevo sapere niente di Dio neppure se esisteva. E così ignorai quella donna.
Improvvisamente, qualcosa che lei stava dicendo attirò la mia attenzione: ‘Se tu non credi in Dio’, ella gridò dall’altra parte delle sbarre, ‘Prova soltanto a fare questo piccolo esperimento. Questa sera, prima di andare a dormire, domandaGli di svegliarti a una qualsiasi ora; poi domandaGli di perdonare i tuoi peccati’. Ella aveva una vera fede che si impadronì di me.
Io non andai alla riunione, ma decisi che avrei provato l’esperimento quella notte. Mentre giacevo sul mio lettino, io mormorai: ‘ Dio, se Tu sei reale, svegliami alle 2 e 45’.
Fuori faceva freddo. Le finestre all’interno erano coperte di brina. Durante le prime ore della notte io dormii profondamente, poi il mio sonno divenne irrequieto. Alla fine io fui ben sveglio. Avevo caldo e sudavo quantunque la cella era fredda. Tutto era calmo, eccetto per il rumore della pesante respirazione di alcuni detenuti e il russare di un uomo che non era lontano. Sentii poi dei passi fuori dalla mia cella; era una guardia che faceva il suo regolare controllo. Mentre egli stava passando, io lo fermai e gli domandai: ‘Che ora è?’.
Egli guardò il suo orologio e disse: ‘Quindici minuti alle tre’.
‘La stessa cosa che le 2 e 45, vero?’ Domandai, mentre il mio cuore faceva un improvviso balzo.
Il guardiano mugugnò e si allontanò; egli non mi vide scendere ai piedi del mio lettino e cadere in ginocchio.
Non mi ricordo proprio quello che dissi a Dio, ma io so che gli chiesi di avere pietà di me, un malvagio assassino e un peccatore. Quella notte Egli mi salvò, io lo so. Da allora io ho sempre creduto nel suo Figliuolo Gesù.
Io avevo promesso un sacco di botte a un altro detenuto per il giorno successivo. Quel mattino io andai da lui. Egli indietreggiò e mi disse: ‘Io non ho voglia di lottare con te, perché tu eri un pugile’
‘Io non voglio combattere’, gli dissi, ‘sono venuto solo a vederti’. Diversi detenuti si erano riuniti per vederci lottare, ma essi furono delusi.
Ma Dio mi aveva liberato dai miei peccati: ‘Perché dovrei voler lottare?’ Più tardi, corse la voce che io stavo recitando una parte per evitare di andare alla sedia elettrica.
Poi il mio caso passò davanti alla Corte Suprema dell’Illinois, ma essa confermò la condanna di morte. Certo, questo mi scosse un pò, ma io non ho perso la fede in Dio. – Io ora so che Egli verrà con me. Così, voi vedete, io non ho per nulla paura.
Prima di morire, io voglio lasciare un ultimo messaggio per i giovani:
Cominciate a servire il Signore mentre siete giovani, crescete su questa strada, ed essa vi manterrà onesti. Una volta che il crimine si impossessa di voi, è duro smettere. E’ esattamente come con le abitudini di fumare e di bere, una volta che esse si impossessano di voi, voi non potete smettere.
Sì, io sarò morto quando voi leggerete questo, ma per favore ascoltate il mio consiglio: ‘… il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Gesù Cristo nostro Signore’, Romani 6:23. Io ho scoperto che questo è vero.
 
Oggi 22 Ottobre, il direttore Frank Sain mi ha detto che il governatore Green mi ha accordato un ritardo dell’esecuzione fino al 24 ottobre. Io sono sempre felice e non ho paura di nulla. Io morirò domani, a mezzanotte.
 
Ernest Gaither
 
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Pete Tanis, missionario delle prigioni della Pacific Garden Mission accompagnò Ernest Gaither alla sedia elettrica. Ecco la descrizione delle ultime ore del detenuto:
Io ero stato autorizzato a entrare nella cella di Ernest circa un ora prima di mezzanotte. L’atmosfera appariva carica. Le guardie che si tenevano attorno alla cella, continuavano a chiacchierare per distogliere il suo pensiero dal viaggio di mezzanotte. Ma le cose che esse dicevano erano forzate e senza alcun senso, come le cose che si dicono quando non si sa che dire.
Quando entrai dentro la sua cella, Ernest mi sorrise e mi salutò. Un cappellano nero gli stava leggendo qualche cosa dalla Bibbia. Egli mi diede il Libro e mi domandò di leggere. Io scelsi il primo capitolo della lettera ai Filippesi. Ernest si piegò in avanti e ascoltò attentamente quando io lessi: "Poiché per me il vivere è Cristo, e il morire guadagno…. Io sono stretto dai due lati: ho il desiderio di partire e d’esser con Cristo, perché è cosa di gran lunga migliore" (Versi 21,23).
Questo passaggio biblico assieme al Salmo Ventitreesimo pareva che fossero tra le parti della Bibbia che lui preferiva.
Egli ricevette un grande conforto da questo versetto: "Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei meco. Il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano" (Salmo 23:4). Egli citò questo passaggio a memoria, mentre l’orologio scandiva l’ultima ora della sua vita. Di fuori le guardie ascoltarono in maniera tranquilla, alcuni avevano le lacrime agli occhi.
Alle undici e mezzo circa, noi avemmo una riunione durante la quale noi cantammo dei cantici. Ernest disse che desiderava cantare ‘When the Roll is Called Up Yonder’, e presto i corridoi risuonarono di musica mentre la voce alta da tenore del Negro risuonò al di sopra delle voci stonate delle guardie.
Mentre si smorzavano le ultime melodie di un altro cantico: ‘Just A Little Talk With Jesus’, alcune guardie vennero con delle forbici tosatrici per tagliare i capelli all’uomo con la voce da tenore.
Poco prima di mezzanotte, Ernest pregò: ‘Dio’, cominciò sommessamente, ‘quando io entrai qua la prima volta, io odiavo queste guardie; ma ora, Dio, io le amo - O Dio io amo tutti gli uomini’. Poi egli pregò per quelli che lui aveva fatto soffrire, per sua madre, domandando al Signore di benedirla, e concluse dicendo: ‘E Signore, Io non morirò tramite elettroesecuzione, perché io sto solo andando a sedermi sulla sedia e mi addormenterò’.
Un momento dopo, fu posato sulla sua testa un cappuccio nero, ed egli cominciò a percorrere gli ultimi metri. Da ogni lato stavano delle guardie, ambedue visibilmente nervose. Ernest lo capì.
Erano presenti 75 testimoni quando delle mani insicure legarono con delle cinghie quella figura incappucciata sulla grande sedia nera che era messa in evidenza da un pavimento di acciaio inossidabile.
Poi per due minuti – sembrarono delle ore – un inserviente lavorò in maniera febbrile a un elettrodo difettoso.
Alla fine, a mezzanotte e tre minuti, il primo dei tre colpi elettrici attraversò il corpo di Ernest.
Per mezzanotte e un quarto, erano sfilati cinque medici e uno dopo l’altro confermarono la sua morte.
Ma io sapevo che il vero Ernest Gaither viveva ancora e che era morto soltanto il suo corpo. Mentre lasciavo la prigione, io pensai al versetto che egli amava tanto: ‘Poiché per me vivere è Cristo, e morire guadagno’.
 
Tratto da: Liberty Prison Ministries Tracts e da: VoxDei

FORMAGGIO MONTE VERONESE, DETTO ANCHE FORMAGGIO GRASSO MONTE. IL FORMAGGIO NATO DA UN PRECETTO ECCLESIALE




Il formaggio nato da un precetto ecclesiale
Formaggio Monte Veronese DOP, il gustoso formaggio della montagna veronese, è una delle perle della gastronomia veronese, frutto dell’ intelligenza della bravura e della caparbietà  del lavoro dei nostri casari, che, ultimamente sono riusciti a inserire  il nostro formaggio, nell’olimpo dell’ industria alimentare  nazionale.  Gli ingredienti principali di questi formaggi sono l’ottimo latte prodotto, il rispetto delle tradizione, la passione, l’esperienza ed ambienti igienicamente controllati

Caratteristiche del prodotto.
Il Monte Veronese è un formaggio a pasta semicotta, prodotto con latte vaccino intero o parzialmente scremato: Il  disciplinare di produzione ne prevede due tipi: uno a "latte intero" e uno "d'allevo", che si diversificano soprattutto per la durata del periodo di stagionatura.

Monte Veronese DOP latte intero. Formaggio a pasta semicotta prodotta solo con latte di vacca, intero, crudo o pastorizzato. La stagionatura varia dai 25 ai 60 giorni. Il suo peso varia da 7 a 10 Kg, ha forma cilindrica, pasta di colore bianco o paglierino e un’ occhiatura irregolare più o meno diffusa.
Per riconoscerlo: etichetta di colore verde chiaro.

Monte Veronese DOP d’allevo mezzano. Formaggio a pasta semicotta, prodotto solo con latte di vacca parzialmente scremato. La stagionatura va da un minimo di 90 giorni ad un massimo di 6 mesi. Ha forma cilindrica e il suo peso varia da 6 a 9 Kg. La crosta è sottile ed elastica, la pasta è di colore bianco e leggermente paglierino, a seconda dell’alimentazione delle bovine e della stagione di produzione. Presenta occhiatura minuta.
Per riconoscerlo: etichetta azzurra.

Monte Veronese DOP d’allevo vecchio. Formaggio a pasta semicotta prodotto solo con latte di vacca parzialmente scremato, con stagionatura minima di un anno. Ha forma cilindrica e il suo peso varia da 6 a 9 chili. La crosta è sottile, la pasta ha colore giallo paglierino più o meno intenso e presenta un’ occhiatura minuta.
Per riconoscerlo: etichetta nera.

Le origini

Le origini de il “Monte Veronese”, o più semplicemente il Monte, come lo chiamano in Lessinia, (non me dolgono gli estimatori), sono abbastanza recenti e, come lo conosciamo ora, sono della fine del secolo scorso.
Se leggiamo alcune denominazioni di formaggi, citati in documenti storici risalenti al XIII secolo e riportati dal Varanini nel bellissimo libro "Gli Alti pascoli dei Lessini Veronesi", non compare mai il monte veronese, ma bensì formaggi nella varietà detta <> e nel 1431 un certo mazaticum e mai il "Grasso Monte".
Si tenga presente che nel medioevo una delle attività per la quale era famosa Verona era la lavorazione della lana, con prodotti che venivano esportati in tutta Europa, e la famiglia degli Scaligeri ne era la massima produttrice, con ampi possedimenti territoriali in Lessinia.
Con la caduta degli Scaligeri, nei primi del Quattrocento, oltre alla generale liquidazione dell’enorme patrimonio, vi fu la caduta verticale della lavorazione della lana e, di conseguenza, anche dell’allevamento ovino.
Non è che esso cessò, tanto è vero che in documenti che censivano gli animali inviati ai pascoli di alta quota, nel periodo che va dal 1774 a 1784, i capi relativi alle vacche il numero varia da 6.800 e 7.460; se invece prendiamo in considerazione le pecore, gli agnelli e i castrati, il loro numero varia da 30.000 a 36.000 capi.
Sfruttando la debolezza economica di alcuni montanari, e gli appoggi Viscontei, si era attuato una corrente di immigrazione in quel di Verona e provincia di formaggiai proveniente da Gandino, Barzizza e Gazzaniga, in Val Seriana e, in piccoli numeri, anche da Bergamo, Zugno, Elusone, Val San Martino, Caravaggio…
Altri formaggiai lombardi provenivano dalla Valtellina, (Voltolina, Valtulina) ma anche dal bresciano e dal milanese.
La tendenza, anche con entità ridotta, continuò nel periodo veneziano.
I lombardi, proprio loro, posero le basi dello sviluppo del formaggio vaccino in Lessinia.

Ma i Cimbri?
A loro le vacche non interessavano molto, tanto è vero che nel "Fioretto de le antiche cronache de Verona" di Francesco Corna da Soncino, 1479 (Biblioteca civica di Verona), parla delle attività economiche delle popolazioni cosiddette "tedesche" <>, come egli la definisce, afferma che <<>>
Il Corna esclude i Cimbri dalla pratica dell’alpeggio, o almeno non sono dei protagonisti in tale attività.
Tolta quindi ai Cimbri l’esclusiva paternità del formaggio vaccino in Lessina Veronese

Vediamo come nasce il nome.

Da sempre, in passato, il burro in Lessinia costava il doppio del formaggio, pertanto i formaggiari spremevano dal latte tutto il burro possibile, il formaggio che se ne ricavava era prodotto da un latte molto, molto magro, un formaggio "tristo".
Di quel che rimaneva si otteneva una "pujna" anch’essa molto magra. Il siero finale veniva aggiunto al "paston per i maiali"; a volte, per uso personale mischiato con della farina si otteneva la base dei famosi "gnocchi di malga".
Ogni giorno i caseifici provvedevano al ritiro del latte, ma mai alla domenica, il giorno dedicato al Signore.
Il latte veniva munto, lasciato nella stalla e solo al lunedì mattino recuperato per la lavorazione.
Oggi non è un problema: ci sono i frigoriferi, ma una volta no, il latte, soprattutto nel periodo estivo, poteva subire un’ acidificazione precoce, con rischio di produrre un burro di qualità scadente, pertanto dal quel latte si preferiva ricavare solo formaggio.
Gli allevatori chiamavano in dialetto quel latte "el latte delle do monte" “quello de le do monte", il latte di due giorni di mungitura.
Solo dal latte munto il sabato sera, e la domenica mattina, si produceva quel formaggio di latte intero, perciò grasso, dal sapore buono, il migliore, "il più buon formaggio della Lessinia", che i montanari, per distinguerlo dal solito formaggio prodotto con il latte magro, usavano chiamarlo, “il formaggio quello grasso”, quello delle "do monte", il formaggio “grasso do monte",
Il “formaggio grasso do monte", col tempo si corruppe in “formaggio grasso monte" e oggi, che la parola grasso non è più  di moda, in “Formaggio Monte Veronese".


Verona-La Carta Lapidaria della Chiesa di Negrar




La  Carta lapidaria

La Carta lapidaria di Negrar  è definita la lunga iscrizione  di ben 64 righe, una delle più lunghe d’Italia,  scolpita in caratteri maiuscoli romani nel 1166  o poco dopo, sulla parete sud del campanile della Chiesa di Negrar.
Vi è riportata una serie di contratti,  tutti del 1166, mediante i quali la pieve di Negrar riscatta un vecchio censo annuale dovuto al cittadino veronese Ribaldino.
Praticamente essa non è altro che un atto notarile autentico,  un contratto stipulato nel 1166 fra Wizardo arciprete della chiesa di S. Martino di Negrar e gli eredi di Odelrico Saketo
La Pieve di Negrar doveva in quel tempo avere un’importanza grandissima, poiché aveva sotto la sua giurisdizione delle Cappelle, cioè delle chiese minori; aveva i diritti di decime; dei famigli e metà parte dei prodotti della Corte, com’è scritto nella Bolla di Papa Eugenio III del 1145.
Odelrico Saketo, ricco feudatario della città di Verona aveva avuto un solo figliolo: Ribaldino, come risulta dal testamento che fece il 16 ottobre 1156, poco prima di morire; ed era stato nell’ambiente veronese, quello che oggi si direbbe, una personalità. (Fu anche Signore del feudo di Zevio). Luigi Simeoni in un opuscolo intitolato La Carta lapidaria di Negrar (Venezia, 1899) riporta alcuni documenti al riguardo.
La Carta lapidaria di Negrar scritta nella lingua latina del tempo con  alcuni errori d’ortografia e qualche lieve omissione, è lunga 64 linee e complicata.
Cercherò di spiegarla nel modo il più che sia possibile semplice
La prima parte avvenne il 3 maggio 1166 sotto il portico della camminata della chiesa  di S. Quirico, alla presenza del prete  Odone, del giudice Guizone e di altri testimoni, la signora Bella, moglie di Ribaldino figlio del fu Odelrico Saketo, rinuncia a ogni aiuto della legge, affinché  suo marito possa vendere alcune terre all’arciprete di Negrar.
La seconda, lo stesso giorno, nella sala del vescovo Ognibene, alla pre senza del vescovo stesso, dell’arciprete della chiesa maggiore Riprandi e di altri testimoni, Ribaldino afferma di aver ricevuto dall’arciprete di Negrar e dai suoi confratelli, in vece e in nome della chiesa, libras 200 e 20 denari (una libra = 20 soldi; un soldo = I2 denari) quale prezzo di 13 pezze
de terris aratoriis et terris cum vineis et cum olivis atque cum domibus seu arboribus situate in Isola Longa et in Valle Longazeria et in Postumano, località che dovevano essere forse nei dintorni di Negrar, ma che ora i loro nomi non esistono piu.
La terza, ancora nello stesso giorno, e nella stessa sala del vescovo, alla presenza del vescovo e di altri testimoni, Ribaldino e i fratelli Bernardino e Enescalkino, figli di Warinberto suoi  consanguienei; e i fratelli  Robadino e  Folco per se e per i loro fratelli Otolino e Sina, figli di Capra rinunciano al vescovo Ognibene il feudo che essi tenevano dall’Episcopato; e il quale a essi aspettava per diritti di successione; e per il quale la Pieve di Negrar pagava ogni anno a Ribaltino  5 lire meno 4 soldi e 9 moggia di vino. Robadino e Folco s’impegnavano sotto pena di 100 lire,  di far fare la stessa rinuncia ai loro fratelli, non appena sarebbero tornati a Verona.
Nella quarta, il vescovo rimise alla Pieve di Negrar il servizio che questa faceva a Ribaldino per conto dell’Episcopato; e ricevette in compenso di ciò dall’arciprete e dai suoi confratelli la compera che essa aveva fatto da Ribaldino.
Delle terre ricevute, il vescovo investi lo stesso Ribaldino e i suoi consanguinei, come di un feudo vecchio ed ereditario (de vetere et hereditario feudo) col patto che la Pieve rimanesse sempre illesa.
La quinta parte avvenne il 4 giugno nella sala del vescovo, alla presenza dell’arciprete Riprandi e di altri testimoni; Sina figlio di Capra di S. Benedetto,  rinuncia come i suoi fratelli, al feudo che doveva loro venire per successione e che teneva Ribaldino.
Questa la spiegazione, dalla quale si possono fare alcune osservazioni:
I -  I caratteri maiuscoli romani sono cosi belli e perfetti, che ci doveva essere stato una fiorente scuola veronese al riguardo.
II - L’iscrizione porta la data del 1166, e ciò significa, anche se il documento è stato scolpito qualche anno dopo, che il Campanile in quel tempo esisteva già.
III- Il documento non riporta  personaggi grandi o illustri,  ma figure di secondo piano; un arciprete, un feudatario, un vescovo.  Quindi più Cronaca che Storia.
Ma è dalla cronaca (come mi diceva un giorno Monsignor Pietro Rossetti) che si fa la storia.
IV - Negrar era chiesa colleggiata; l’arciprete aveva dei confratelli, che
nel documento sono tutti nominati, e coi quali faceva vita in comune.
V - La Pieve dipendeva direttamente dal vescovo e non da altri, come S. Vito che apparteneva all’Abbazia di San Zeno; Torbe, all’Abbazia di Santa  Maria in Organo; Prùn al Capitolo, ecc.:
VI - Uno dei passi piu importanti del docuniento è, secondo il mio modesto parere, questo: hec nova investitura … ecclesia Sancti Martini de Nigrario perpetuo illesa …, cioè la Pieve di Negrar doveva rimanere sempre illesa,
Con ciò viene a pensare che anche all’ora, nonostante si fosse nel più fiorente periodo comunale,  avvenivano dei soprusi, delle ingiustizie.
Un esempio è dato da Odelrico Saketo stesso.
In una lettera del 1140 Papa Eugenio II al vescovo Tebaldo, invita alcuni nobili veronesi, fra i quali Odelrico Saketo, a voler desistere dall’usurpare i beni dei canonici.
Sempre i stessa la vita.
La Carta lapidaria, ecco in sintesi del  contenuto  dell’ iscrizione
«Il 3 maggio 1166, in Verona,  nella chiesa di San Quirico,  Bella, moglie di Ribaldino del fu Odelrico Sacheto, rinuncia ad impugnare la vendita che il marito si appresta a compiere.
Nello stesso giorno,  nell’episcopio, alla presenza di tre preti, un diacono, due accoliti, un chierico - la somma di lire 220 di denari veronesi per la vendita di 13 appezzamenti,  posti nella valle Longazeria, la valle cioè di Illasi,  e in altri luoghi.
Nel giorno e luogo stessi e alla presenza dei medesimi testimoni, Ribaldino, con Bernardino ed Enescalchino fratelli, figli di Guarimberto, consanguineo, e i quattro figli di Capra, due presenti e due assenti, restituiscono tutti al vescovo Ognibene il feudo che detenevano dalla chiesa vescovile, consistente in lire 4, soldi 16 e moggi 9 di vino,  che essi ricevevano annualmente dalla pieve di Negrar.
Il vescovo rimise immediatamente alla pieve questo censo in cambio delle terre che l’arciprete aveva acquistato da Ribaldino, le quali terre il vescovo ora assegna in feudo a Ribaldino e agli altri.
L’ultimo atto,  datato 4 giugno, concerne la rinuncia al feudo gravante sulla pieve compiuta da Sina, uno dei figli di Capra, assente agli atti precedenti».  (CASTAGNETTI 1984)
In pratica Ribaldino, in accordo con gli eredi, rinuncia ai suoi diritti su Negrar e in cambio ne riceve altri in Val d’Illasi: il tutto avviene con la necessaria intermediazione del vescovo di Verona che mantiene i diritti su entrambi i suoi vassalli.
Il costo del riscatto non fu certamente una piccola spesa per il clero della pieve, tanto che qualche anno più tardi l’arciprete Guizardo è costretto a ipotecare un casale per la somma di 40 lire, prestatagli da un cittadino veronese, Guido Zacono.
Anche se nei vari documenti non viene precisato a quale titolo la pieve dovesse pagare il censo annuale, è probabile che si trattasse di porzioni di decime spettanti alla chiesa vescovile, la quale altrove nel Veronese aveva diritto ai tre quarti della decima delle pieve; decima che spesso e.. concessa in beneficio ai laici.

Fonte: dal materiale  della perpetua della Chiesa di Negrar


La differenza tra dirigenti e impiegati




Un tipo sta guidando la macchina, quando a un certo punto capisce di essersi perso. 
Avvista un signore che passa per strada, accosta al marciapiede e gli grida: mi scusi, mi potrebbe aiutare?  Ho promesso a un amico di incontrarlo alle due, sono in ritardo di mezz'ora e non so dove mi trovo…
Certo che posso aiutarla. 
Lei si trova in un’ automobile, a 44° 30' 18'' di latitudine Nord e 18° 36' 20" di longitudine Est, sono le 12 e 23 primi e 35 secondi e oggi è lunedì 7 aprile 2008 e ci 20,3 gradi centigradi .
Lei è un impiegato? - chiede quello dentro l'automobile
Certamente. Come fa a saperlo?
Perchè tutto quello che mi ha detto è "tecnicamente" corretto, ma praticamente inutile.  Infatti non so che fare con l'informazione che mi ha dato e mi ritrovo ancora qui perso per strada!
Lei allora deve essere un dirigente, vero? - risponde stizzito l'impiegato.
Infatti lo sono.   Ma .... da che cosa l'ha capito??
Abbastanza facile: lei non sa dove si trova, né come ci è arrivato, né tanto meno dove andare, ha fatto una promessa che non sa assolutamente mantenere ed ora spera che un altro le risolva il problema; di fatto è esattamente nella merda in cui si trovava prima che ci si incontrasse ...ma adesso,  per qualche strano motivo... risulta che la colpa è mia!!!!!!

giovedì 11 dicembre 2008

Gli «OSCAR» dell’Editoria. L’Arena miglior quotidiano locale 2008




Ai «Media Awards» dedicati a qualità ed innovazione, il riconoscimento come miglior giornale locale italiano alla testata veronese. L’«Oscar» dei giornali assegnato a «L’Arena di Verona»

Il Corriere della Sera (miglior quotidiano nazionale), Tg5 (miglior telegiornale), l’Ansa (miglior agenzia), il Gr24 (miglior radiogiornale), Il Corriere.it (miglior sito di notizie), Il Secolo XIX di Genova (miglior quotidiano regionale), L’Arena (miglior quotidiano provinciale con Il Tirreno) sono i vincitori dei Media Awards 2008, il premio promosso da ItaliaOggi, assegnato per la prima volta quest’anno non a singoli giornalisti o direttori, bensì alle testate che nei vari segmenti hanno «espresso i prodotti di migliore qualità e più innovativi». La giuria, presieduta da Pierluigi Magnaschi (già direttore dell’Ansa) era composta da sessanta tra giornalisti, editori, esperti di comunicazione, imprenditori, semiologi, pubblicitari e sociologi, italiani e stranieri. 23

Il consigliere  delegato Alessandro Zelger: «Un risultato frutto dell’impegno di tutti»
Il direttore Cattaneo: «Grande segno della professionalità dei giornalisti»

Assegnati a Milano i Media Awards 2008, gli «oscar» dell'editoria, dedicati alle imprese editoriali che, nei vari segmenti dei media, hanno espresso i prodotti di migliore qualità e più innovativi. Ad aggiudicarsi il titolo di miglior quotidiano locale è stata «L'Arena» di Verona.
A decidere i vincitori una giuria di 60 esperti italiani e stranieri composta da giornalisti, editori, esperti di comunicazione, imprenditori, semiologi, pubblicitari e sociologi presieduta da Pierluigi Magnaschi (già direttore del Sole 24 Ore e dell'Ansa). Un universo di competenze che è stato mobilitato per individuare, in piena autonomia e con oggettività ed autorevolezza, il meglio che è stato espresso nel 2008 dal complesso mondo italiano dei media (che va dal quotidiano al sito Internet; dal Tg nazionale al mensile di nicchia, passando per le agenzie e i settimanali).
Il meglio è stato scelto per poterlo segnalare come benchmark alla comunità mediatica, economica e culturale.
«Questo importante riconoscimento a livello nazionale ed internazionale - ha detto il consigliere delegato di Athesis, Alessandro Zelger - è il risultato in primo luogo della lungimiranza degli azionisti, che hanno garantito investimenti pur in un momento non facile, e inoltre del grande e continuo impegno e professionalità che hanno espresso tutti coloro che lavorano in azienda, giornalisti, tipografi e ogni altro nostro collaboratore. Oggi abbiamo rotative modernissime, una grafica nuova e stiamo affrontando ben preparati le nuove sfide di Internet - ha concluso Zelger. - In ogni caso consideriamo questo premio un ulteriore e stimolante punto di partenza per traguardi futuri sempre più ambiziosi ».

«Dopo venticinque anni non era facile cambiare l'immagine di un giornale storico come il nostro - ha detto a sua volta il direttore del giornale Maurizio Cattaneo - ma la redazione ha risposto con grande professionalità, entusiasmo e compattezza alla nuova sfida: quella di coniugare innovazione e tradizione. Ed i lettori ci hanno premiato». «Oggi L'Arena - ha concluso Cattaneo - credo sia davvero il più bel giornale locale italiano».
Alla serata meneghina, organizzata da Italia Oggi e trasmessa da Class Tv erano presenti tutti i maggiori editori e direttori italiani di giornali, periodici televisioni. Premiati, tra gli altri, Corriere, Canale 5, La 7 e radio 2.

Fonte:L’arena di Verona del 12,12,08

domenica 7 dicembre 2008

Veronetta, la madre di Verona















Veronetta
Durante la festa di Santa Toscana nel 2001, un nostro frequentatore mi disse che sull’ Arena di Verona del 14 giugno gli studiosi della Soprintendenza e del Museo di Storia Naturale avevano affermato che Verona preromana non era a Verona, ma a Montorio.
Verona nel 500 a.c. era un piccolo villaggio sulle pendici di Castel S. Pietro a controllo di un guado sull’ Adige e nulla di più e non città come scrivesti sul libretto di Santa Toscana nel 1998.
Quindi la domanda del nostro compagno è da mettere in chiaro, anche per i nostri amici che frequentano la festa di Santa Toscana.



Mappa di Verona
Per la storia delle origini di Verona, l’unico raggio di luce, come racconta il nostro Scipione Maffei nel 1732, ci viene da Plinio principe dei Geografi Latini. Attribuisce Mantua (Mantova) ai Toschi (Etruschi); Brixia (Brescia) ai Galli (come i romani chiamavano i Celti) Cenomani; Feltriae (Feltre), Tridentum (Trento), Breonensis (Bressanone), ai Reti; Raetorum et Euganeorum Verona.
Basterebbero queste poche righe e il buon senso, per risolvere all’ origine questo problema. Infatti, non esiste grande e importante città che non sia stata fondata presso: un fiume, un lago o sulle coste marine, perchè i primi grande spostamenti dell’uomo sono sempre avvenuti tramite le vie acquatiche; il Castello di Montorio è invece ben distante dall’ Adige.


Punta di lancia, il manufatto più antico trovato in Verona centro storico; scavi del tribunale
Altre osservazioni sono importanti per il nostro argomento.
Verona è la città più antica dell ‘Italia settentrionale perchè l’etnia degli Euganei è riconoscibile negli abitanti dell ‘età del Bronzo, vissuti all’incirca da 4.000 a 3.000 anni fa, mentre le altre popolazioni appartengono all’ età del Ferro, da circa 3.000 anni fa alla nascita di Cristo.

A Verona non è mai stato cambiato il nome, è nata come Verona e lo è tuttora. Infatti, per esempio: gli Etruschi fondarono Bologna e la chiamarono Felsina, nel 189 a.C. i Romani fondarono una colonia con 3000 persone e la chiamarono Bononia.
Milano fu fondata all’inizio del V sec. a. C dai Galli Insubri e la chiamarono Mediolanium, nel 222 a.c. gli eserciti consolari la conquistarono e la chiamarono alla maniera latina Mediolanum.

Nel 218 a.C. Roma fonda la colonia di Cremona, e tuttora si chiama Cremona - (Che Verona che sia stata fondata dai Romani e che li diedero anche il nome?). –
Delle città dell’Italia settentrionale si conosce la data della loro fondazione Romana, mentre resta ancora un mistero quella di Verona.
Forse divenne colonia durante il periodo della guerra sociale, negli anni 90-88, quando nell’anno 89 una legge del Console Pompeo Srabone, l’ex Pompeia de Gallia Citerione in quanto contemplava il diritto della cittadinanza romana dei centri più romanizzati a nord del Po, ma non alle colonie che ne erano già in possesso. Tra queste anche Verona?

Il poeta Catullo nato forse nell ‘87 a.C. a Verona, in una sua poesia sembra che si riferisca a Verona e la definisce colonia.
Nel 49 a.C. o poco dopo anche Verona divenne colonia romana e venne iscritta nella tribù Poblilia. Come mai così tardi?
Forse era già precedentemente così romanizzata che la ufficializzarono nel momento che costruirono le nuove mura?
Come accadde nel 265 d.C. quando Gallieno ne rinforzò le mura e venne chiamata Verona nuova Gallienina?

Come si vede i vari studiosi non sono ancora concordi nella data della fondazione di Verona Romana. Affidiamoci dunque ai documenti archeologici per risolvere forse questo problema.
Verona si trova ai piedi di un altopiano che si incunea nella Pianura Padana.
Questo Altopiano ha una caratteristica unica nell’Italia settentrionale, è il secondo luogo in Italia - dopo il Gargano - dove è reperibile dell’ottima selce che l’uomo primitivo usava per la costruzione dei suoi strumenti basilari.

Perciò la Lessinia è stata abitata dall’uomo già circa 500 mila anni fa, e di conseguenza, è l’ area della Pianura Padana, con la più alta concentrazione di reperti preistorici di tutto l’arco Alpino, sia a nord che a sud delle Alpi.
La Valpantena è la valle più importante per raccogliere semplicemente la selce, perchè i corsi d’acqua dei torrenti trasportano e mettono in luce gli strati selciferi senza bisogno di scavi. Perciò l’uomo lo capì subito e la frequentò da sempre, seguendo il percorso più semplice: il letto del Progno Valpantena che si inoltra nel cuore della Lessinia. E già circa 34.000 anni fa, l’uomo moderno scambiava la nostra selce con le conchiglie della Liguria.
Circa 14.000 anni fa, terminava la glaciazione Wiirmiana, e si stabilisce l’aspetto geologico di Verona, in modo particolare il percorso dell’ Adige che restò più o meno quello che vediamo oggi.
I primi uomini Neolitici; agricoltori-allevatori e commercianti, giungono nell ‘Italia Nord-Orientale all’incirca 7500 anni fa, e usano la selce Lessinica in gran quantità.
Come giungono questi uomini? Nel modo più semplice usando le vie d’acqua sia marine che fluviali. Quindi l’Adige diventa la via più importante per reperire la selce e “commerciarla” in tutta l’Italia settentrionale.

Come è noto l’uomo Neolitico è quello che costruisce le prime città, e circa 7.500 anni fa viene fondata Verona preistorica nel luogo più opportuno, attorno a Castel San Pietro: nelle due valli di Valdonega e San Giovanni in Valle. Da queste due valli si poteva raggiungere comodamente attraverso dei sentieri ancora esistenti, le aree montane ricche di selci.
Come abbiamo visto la Valpantena era il percorso più semplice per rifornirsi di selce. L’uomo perciò si insediò anche in questa valle, lungo i fianchi collinari, perchè il centro della valle si presenta ancora paludoso.
Il progno seguiva il percorso attuale, sul lato ovest della valle, quindi lambiva: Poiano, Porta Vescovo e si immetteva nell’ Adige più o meno tra il Ponte Navi e l’Aleardi.
In questo punto probabilmente esisteva un primitivo “porto” sull’Adige. Dal quale si imbarcava anche la selce per distribuirla agli abitanti dell’Italia settentrionale.

Seimila anni fa Verona si presentava come una grande città sulle rive dell’ Adige, con capanne nelle due valli sui fianchi di Castel San Pietro e alcune nell’ ansa dell’ Adige.
Il colle di San Pietro degradava dolcemente nell’ Adige fino oltre la metà dell’attuale alveo che si trovava nei pressi di Piazza Dante, a una profondità di circa m. 4,50 dal livello stradale attuale. Un guado doveva esistere tra Sottoriva e la Chiesa di Santa Maria in Organo.



Castelliere prima torricella
All’inizio dell ‘età del Bronzo, circa 4.000 anni fa, vi erano i Castellieri (villaggi fortificati), a Verona ve n’erano tre ben distinti:
il primo è sulla Toricella n. l a controllo della Valdonega e Valpantena,
il secondo su Castel San Pietro per controllare il guado e il fiume,
il terzo sul monte Castiglione (alto San Nazzaro), per vigilare l’ingresso est di Verona e sulla Valpantena.

All’incirca 4.000 anni fa si inventa la ruota e l’uso di questo oggetto ci conferma l’esistenza delle strade e l’inizio di un nuovo commercio, quello importantissimo del costoso sale, usato anche come moneta; ancora oggi la paga dell’ operaio si chiama salario. Perciò ovviamente, il sale sciogliendosi nell’acqua non era possibile trasportarlo sulle vie d’acqua.
Circa 3.000 anni fa ebbe inizio l’età del Ferro e inizia la protostoria. II millenario commercio della selce entra in crisi, perchè il suo uso si riduce moltissimo a causa dell’utilizzo dei metalli.


Castel San Pietro
Dei tre Castellieri di Verona resta attivo solo quello su Castel San Pietro.
Si iniziano a conoscere le etnie che abitavano in città, gli Euganei erano concittadini con i Veneti. Verona restò importantissima per le vie commerciali che la attraversavano e per il suo fiume.
Nel 753 a.c. viene fondata Roma, e per prima cosa costruirono una salina alle foci del Tevere e una strada la Salaria, per trasportare il sale nell’entroterra appenninico e mettere in rapida comunicazione Roma con l’Adriatico. A nord di San Benedetto del Tronto, nell’Adriatico esistevano altre saline: da Cervia al golfo di Venezia, pertanto i Romani dovevano avere contatti “d’affari” con i Veneti.
Circa 2.500 anni fa si entra nella storia, e gli avvenimenti per la fondazione di Verona Romana si fanno più chiari.
Poco dopo il 500 a.c. a Verona arrivano i Reti e intrattengono ottimi rapporti con i Veneti.
All’incirca il 400 a.c., tribù Galliche transalpine invadono l’Italia settentrionale e viene fondata Milano.
La cronologia tradizionale vuole che Brenno scenda in Italia il 390 a.c., e nel 387-386, seguendo l’antichissima via Salaria, presso l’affluente del Tevere Allia situato alle porte di Roma, sconfigge i romani e mette a sacco la città.
I Veneti intervengono contro le città sguarnite nell’agro Gallico, costringendo Brenno a lasciare Roma e tornare a casa. E lungo il corso dell’ Adige le popolazioni venete-retiche arrestano l’espansione gallica. Come si nota già da tempi così lontani, vi era amicizia tra romani e veneti.
Nel IV secolo (400-300 a.c.), troviamo la presenza dei Galli Cenomani nel Veronese, a Valeggio sul Mincio. Ma sono Galli? Il corredo funebre dice si, ma l’esame antropologico ci informa che sono Veneti!
Infatti Polibio, nato circa nel 203 e morto nel 121 a.c., cioè quasi coevo, ci racconta che «Abitava invece da molto tempo la parte vicina all’ Adriatico un ‘altra popolazione molto antica, quella dei Veneti per costumi ed abitudini poco differenti dai Celti ma di lingua diversa».
L’anno 290 a.C., tutta l’Italia centrale è in mano a i Romani.
Cinque anni dopo (285), iniziano le lotte di Roma contro i Galli per il predominio dell’Italia centrale.

Nell’anno 283, i romani sconfiggono presso il lago Vadimone (di Bassano nell’Etruria meridionale), un esercito di Etruschi, di galli Senoni e Boi, questa vittoria segnò la fine della potenza etrusca.
Nove anni dopo (272), Roma si interessa della Pianura Padana.
Nell’anno 268 Roma fonda la colonia di Rimini in territorio dei galli Senoni; le colonie sorgono come capisaldi militari, centri di mercato agricoli.
Teuta regina Illirica, nel 244 è padrona dell’ Adriatico e pratica la pirateria contro gli alleati dei romani; tra questi vi erano anche i Veneti?
Qualche tempo dopo nel 238, i galli attaccano da diverse parti i romani, soprattutto i Boi che aggrediscono la colonia di Rimini. Questo accade perchè i galli si sentono accerchiati dai romani, dai veneti e dai Cenomani alleati di Roma; che controllavano le rive dell’ Adige e del Po.
L’accerchiamento dei Galli continua con la fondazione della colonia di Genova nel 233, e la sconfitta di Teuta nel 230 rende i romani padroni dell’Adriatico.
Nel 226 i Galli vedono che Roma, i Galli Cenomani e i Veneti erano più che mai forti, pericolosi e in condizione di isolarli. Perciò fondarono una lega che comprendeva gli Insubri, i Boi, i Taurisci, i Lingoni e i Gesati, formando un esercito forte, numeroso e temibile.
La furiosa guerra contro i Galli si concluse nel 225 a Talamone con la vittoria dei romani e i loro alleati, tra questi c’erano anche ventimila Veneti e Galli Cenomani.
Le operazioni militari contro i Galli dopo questa grande vittoria, proseguirono negli anni successivi nella Valle Padana.

Nel 222, la battaglia decisiva fu vinta contro gli Insubri, forse alla confluenza tra il Po e l’Adda, e i romani occuparono Mediolanium, concludendo la conquista della Gallia Cisalpina.
L’alleanza tra Roma e le popolazioni Venete e Cenomane, nemiche dei Galli, e l’acquisito possesso di qualche posizione ligure sulle coste tirreniche avevano reso molto più sicuro il dominio di Roma e meno facili le sorprese a suo danno dal lato nord della penisola.

Se osserviamo una carta archeologica attuale, noteremo che all’inizio delle operazioni militari dei Galli contro i Romani nel 238 tutta la Pianura Padana era in possesso dei Galli esclusa la parte degli alleati di Roma: l’agro dei Cenomani e il Veneto, fino alla sponda sinistra del Po.
Quindi se i Romani volevano contrastare l’avanzata dei Galli, potevano farlo solo entrando in territorio Veneto-Cenomane attraverso la via marittima e seguendo il corso dell’ Adige fino a Verona.
Creando nella città, probabilmente prima del 238, un caposaldo militare, perciò Verona non poteva essere difesa da un semplice muro a secco sul tipo della marogna come c’era sul Castello di Montorio, ma da un muro ben diverso, come i romani sapevano fare, con blocchi di pietra tufacea ben squadrata, e sistemati con una tecnica particolare imparata dai Greci (vedi Pestum in Campania).
Questo baluardo doveva cingere Castel San Pietro come se si trattasse del Campidoglio di Roma - nella tradizione degli antichi studiosi veronesi la prima sede del Capitolium era indicata sul Colle di San Pietro -.


Il muro della prima cinta
Nel 1990 iniziarono i lavori di ristrutturazione della casa in Via Redentore n. 7 e 9, e apparve un muro lungo 15 m., alto circa 5 m. e dallo spessore di circa 2,50 m. (formato da blocchi di pietra giallizza ricavata dalle cave dove in futuro sorgerà il Teatro Romano fino a Santa Toscana).
Questi grandi blocchi misurano anche: di lunghezza m. 1,50, altezza 60 cm. e larghezza 30 cm.; sono posizionati a filari alterni per taglio e per testa, a secco senza malta o grappe.
Le sue fondamenta poggiano direttamente sulla roccia del Colle di San Pietro ed erano sostenute da un terrapieno mescolato con ceramica dell’età del Ferro, databile dal 500 a.C. fino a circa il 100 a.c.


Base della torre della porta romana in via Redentore
Attorno al 50 a.c. sul terrapieno venne costruita la porta in mattoni sesquipedali simile a quella dei Leoni.
Perchè questo muro dovrebbe essere così vecchio?
Oggi sappiamo che la malta venne perfezionata all’incirca nel 204 a.c. e rivoluzionerà il sistema di costruzione edilizia -per costruire un muro valido bisognava squadrare un blocco di pietra-. Con la malta, la semplicità di usare pietrame vario e legarlo all’interno di cassoni con calcestruzzo, comportava la costruzione veloce di muri e con mano d’opera non specializzata, sotto la direzione di pochi abili arteficieri. I Romani divennero dei maestri in simili costruzioni.
Successivamente nel 190 a.c., si costruirono i mattoni cotti sesquipedali e i cassoni vengono poco usati perchè i mattoni vengono legati con la malta.
Con la costruzione di questo muro attorno al Colle di San Pietro, Veronetta diventa la “Prima Verona” nel vero senso della parola, anche con la sua necropoli fuori le porte; all’uso dei romani.
Dopo il 222 i Romani iniziarono una politica di colonizzazione nella Pianura Padana e ottennero dagli sconfitti Galli, nel 218 di costruire due colonie: Placentia (Piacenza) sulla destra del Po e, sulla sinistra Cremona, ciascuna con 6000 famiglie.
Con la costruzione di queste colonie Roma è padrona delle vie principali della Pianura Padana: il Po e l’ Adige con Verona.

Sempre nello stesso anno scoppia la II guerra Punica.
I Veronesi, inoltre, con i Cenomani ed i Veneti furono tra le popolazioni che ostacolarono e bloccarono ad oriente le forze di Annibale allorché questi irruppe in Italia.
Presso il Trebbia, nelle vicinanze di Piacenza, intorno al solstizio d’inverno dell’anno 218, si svolse la prima grande battaglia, e i legionari Romani vennero massacrati dagli elefanti di Annibale. Vista la magnifica vittoria di Annibale, i Galli schierati nell’esercito romano tradirono e passarono al nemico, esclusi i Veneti e i Cenomani.

Nell’estate del 216, nell’infausta battaglia di Canne troviamo uniti ai Romani i volontari veneti, e tra i Cenomani anche quelli Verona Athesi Circumjlua cioè Verona è circondata dall’acqua come un’isola, così scrive Silvio Italico nato nel 35 d.C. e morto il 110. E’ la prima volta che viene nominata Verona.
Conclusa la guerra Punica nel 201, l’Italia settentrionale richiese una vera e propria riconquista, in quanto i Galli e i Liguri non riconobbero la supremazia romana. Con l’aiuto dei Cenomani e dei Veneti, le legioni romane riuscirono a mantenere sgombra la transitabilità fluviale lungo il Po.
Nel 197 vennero sottomessi parte dei Cenomani che si ribellarono a Roma, l’anno seguente vennero sconfitti gli Insubri, nel 191 i Boi subirono la stessa sorte.
Bologna diventa colonia romana nel 189, e nel 187 la via Flaminia arriva a Bologna e l’Emilia raggiunge Piacenza.
Nello stesso anno il console Marco Emilio Lepido venne incaricato di restituire le armi ai Cenomani, tolte loro ingiustamente dal pretore Marco Furio Crassipede. Di fatto i Romani vantavano già un diritto acquisito sul territorio dei Cenomani e dei Veneti, perciò anche su Verona. Sempre lo stesso anno i Veneti chiedono aiuto ai Romani per difendere le loro frontiere dai Carni

L’anno seguente (186), circa 12.000 Galli Insubri e forse anche Carni, tentano di penetrare nel Veneto. Subito Roma arma i Veneti e i Cenomani creando così un antemurale difendiso verso oriente.
Nel 183 vengono fondata Modena e Parma.
Due anni dopo (181) viene fondata Aquileia per controllare le instabili regioni degli Istri, dei Carni e dell’Illiria. E il nostro Scipione Maffei dice: che viene fondata Verona dai Romani.
Nel 178, Roma con una flotta e 3.000 Galli invade i territori degli Istri, e forse tre anni dopo (175) viene costruita dal console Marco Emilio Lepido la via Aemilia Lepidi che seguendo forse una antica pista, da Bononia (Bologna) o da Mutina (Modena), toccava Ateste (Este), Patavium (Padova), Altinum (Altino), Concordia e terminava ad Aquileia.


Agro romano di Verona
Nel 135 a.c., sappiamo che l’agro di Verona terminava a Lobbia (S. Bonifacio), e confinava con quello di Vicenza ed Este.
Dopo la via di Lepido, segue la via Postumia, che raggiunge Aquileia dopo aver attraversato l’intera Gallia Cisalpina.
Partiva da Genua (Genova) toccava Dertona (Tortona) forse colonia fra il 122 e il 118, Placentia (Piacenza), Cremona, Verona, Vicetia (Vicenza), che ebbe la cittadinanza romana nel 49 a.C., Concordia e terminava anche questa ad Aquileia. La strada fu costruita nel 148 a.C. dal console Spurio Postumio Albino, come viene confermato da una pietra miliare conservata nel Museo Maffeiano in Piazza Bra.



Verona e il percorso della Postumia
Come è risaputo i Romani erano dei maestri nella costruzione delle strade, perché le strade erano fatte prima di tutto per scopi militari.
Lungo tutto il percorso della via Postumia, il punto più critico dal lato geologico era appunto far passare la via nel tratto di Verona tra: Santa Lucia, lo Stadio, Porta Palio, Piazza Erbe, Adige e Veronetta.

Tutto questo percorso era di frequente inondato dal fiume, per far passare la via bisognava bonificare dall’Adige tutta l’area, pensarono di costruire una nuova Verona, con tutti i carismi, nell’ansa dell’Adige.
La nuova Verona venne progettata secondo le regole dell’architetto Vitruvio, forse veronese; fu lui che costruì l’arco della famiglia dei Gavi -.
Il cardo di Verona è la via principale della città: via Pellicciai, il Capitello - con la berlina - di Piazza delle Erbe, via Santa Maria in Chiavica doveva essere orientato verso il solstizio estivo, perchè, secondo Vitruvio, nessun lato delle case doveva essere esposto né troppo al freddo né troppo al caldo, inoltre le posizione delle case dovevano sfruttare al massimo la luce del Sole.
Quindi la via Postumia sfiorava solo il Foro - isola pedonabile -.

Per togliere il pericolo delle inondazioni divisero in due il corso dell’ Adige, cioè dal meandro di Castel Vecchio scavarono un secondo alveo del fiume che a sud di Verona terminava al Ponte Aleardi. Verona divenne isola come la nominò Silio Italico.
La terra tolta per la costruzione del nuovo corso dell’ Adige la sistemarono all’ interno verso la città, la via Postumia si trasformò essa stessa in argine e la troviamo oggi sotto Porta Borsari a una profondità di circa 1 m.
I Romani regolarono il corso dell’Adige all’interno della città.
Tagliando dalla base del Colle di San Pietro, parte della roccia che si immergeva nel fiume, crearono quel gradone che vediamo sotto al Teatro, sul quale saranno costruite le due pile del Ponte della Pietra.
Costruirono tipi di argini in base alla forza corrosiva dell’ Adige, sul lato sinistro con nicchioni in mattoni sul lungadige di San Giorgio che spezzavano la corrente del fiume prima di incontrare il meandro al Ponte Pietra (questi nicchioni sono stati ricostruiti sull’argine sotto i giardini della Giarina, prima della spalla del Ponte Pietra l’argine venne costruito in blocchi di pietra bianca tuttora visibili, poco dopo il Ponte in origine l’argine doveva essere la stessa pietra del Colle di San Pietro, poi venne sostituito dopo il 100 a.c. con un muro in opera reticolata, con la pietra Gallina di Avesa - unico esempio di questo tipo di muro nell’Italia settentrionale -.
Sul lato destro dell’ Adige doveva correre un argine in grossi blocchi di pietra bianca fino alla Porta dei Leoni, dopo forse era in mattoni come quello rinvenuto presso la chiesa dei Filippini.
La larghezza dell’alveo dell’Adige era più ampia dell’ attuale, perché lo riconosciamo sul fianco del pozzo nel cortile del Capitolo dei Canonici presso il Duomo, e la torre di Alberto della Scala costruita sul Ponte della Pietra che poggia su una pila del Ponte.


Argine romano sulla sponda destra del fiume a valle del ponte pietra
La via Postumia passava sul primo ponte costruito, il Posumio; iniziava dietro la chiesa di S. Anastasia e terminava presso la Porta Organa (in via Rendentore 9), la prima via Postumia, in quel tratto, era in ciottoli dell’Adige (salesi), e si trovava a circa due m. sotto la strada costruita successivamente attorno al 50 a.c.
Sistemato il corso dell’ Adige si incominciarono a costruire le case e i templi nell’ interno dell’ansa dell’ Adige.
Questo avvenne probabilmente prima della costruzione della Postumia, perchè sotto al Palazzo Maffei in Piazza delle Erbe esiste il tempio a Giove Capitolino e durante gli scavi venne raccolta una moneta del 150 a.c..
Prima di dare alle stampe questo scritto, l’ho fatto leggere al nostro amico e mi disse “Dove sono le prove archeologiche?”
Quando nel 1991 furono iniziati gli scavi sul Castello di Montorio non doveva esserci nulla perchè aveva subito troppi danni nei secoli passati come Castel San Pietro invece dopo..
Fonte: srs di Alberto Solinas




Verona - Il Piloton de Montorio Veronese




Piloton di Montorio veronese

Sulla dorsale a nord  del Castello di  Montorio, dopo il  Forte Austriaco in direzione di San Fidenzio  sulla strada detta appunto della Preafita,  esiste una curiosa pietra fitta, di cui nessuno sa e  l’origine  ne tanto meno l’uso.
La costruzione di megaliti (la parola deriva dal greco, e vuoi dire “grosse pietre”) iniziò dopo la scoperta dell’agricoltura; quel termine viene impiegato per definire qualsiasi struttura architettonica costituita da grandi massi.

I betili sono il tipo più semplice di megalito. Il loro nome deriva forse dall’ebraico beth ‘EI, che significa “casa di Dio”; questo termine è valido per l’area mediterranea, mentre nei paesi atlantici e baltici i betili vengono chiamati con la parola bretone menhir (che significa “pietra lunga”).

Per l’uomo primitivo il betilo era una pietra sacra: egli pensava che fosse animata di vita divina e che talvolta impersonasse il Dio stesso. Oggi, è accertato che attorno al betilo si svolgevano cerimonie a sfondo magico-religioso rivolte anche a favorire la fertilità sia umana che della terra (maschio-femmina, seme-terra, sole-luna), come se nella pietra si celasse uno spirito fecondatore.

I betili sono pietre a forma allungata di varia grandezza, grezze o parzialmente scolpite. Rappresentano il corpo umano o i suoi elementi sessuali sia maschili che femminili.
La forma del betilo suggerisce: per quello maschile la forma del fallo; quello femminile reca scolpite delle mammelle sia in rilievo e sia in negativa a forma di coppe. In queste ultime, i “primitivi” attuali inseriscono delle palle di grasso, che con il calore del Sole si sciolgono e ungono la pietra. Spesso il betilo tende ad un colore particolare: il rosso o il bianco.

Secondo la tradizione il colore rosso indicava il vigore solare associato all’ energia maschile, mentre il bianco simboleggiava la forza lunare racchiusa nella fertilità femminile. Infatti il Sole è l’astro che dà forza e calore a tutte le creature della Terra, mentre la Luna influenza la germinazione delle piante e la rugiada notturna le mantiene in vita nei periodi di siccità.
Tra l’altro, gli uomini di quel tempo dovevano aver colto la corrispondenza dei cicli fecondativi della donna con quelli lunari.
Queste pietre più o meno grandi venivano conficcate verticalmente sul terreno e pertanto oggi vengono chiamate “pietre fitte”, o “pietre dritte” e sono ancora considerate elementi sacri in molte aree.

La più antica testimonianza scritta della presenza di betili la troviamo nella Bibbia: «Giacobbe giunse a Caran e passò la notte, prese una delle pietre del posto e la usò come guanciale e fece un sogno. Sognò una scala appoggiata sulla terra e la sua cima arrivava fino al cielo, gli angeli di Dio salivano e scendevano e il Signore stava sopra di essa… Svegliatosi dal sonno Giacobbe disse:”Veramente il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”… “Quanto è degno di venerazione questo luogo. Questo non è altro che la casa di Dio e la porta del cielo”… Quindi Giacobbe, prese la pietra che aveva usato come capezzale, la eresse in cippo e versò dell’olio sulla sua sommità, e dette a quel luogo il nome di Betel… ” E questa pietra che ho eretto in cippo diventerà la casa di Dio”» (Genesi, 28,10).

Queste poche righe ci spiegano la funzione del betilo che unisce la terra al cielo e su di esso stava il Dio, il luogo dove è collocato diventa sacro; perciò tutti i posti sacri devono possedere il betilo. Questo è confermato dalle popolazioni “primitive”, e non, tutti usiamo tuttora compiere riti religiosi attorno ai betili.

Il clero cristiano condannò il culto dei betili, ma visto che le forme repressive nei confronti del popolino pagano che adorava queste pietre davano modesti risultati, cercò il compromesso: le pietre sacre vennero “battezzate”, si diede loro il nome di una santa o di un santo, vi si scolpì o si pose sopra una croce e in alcuni casi vi si issarono sopra statue di santi.

La regione ricca di betili più vicina a noi è la Sardegna, ove i primi betili risalgono a circa 5000 anni fa (verso la fine del Neolitico).
In un primo momento venivano erette verticalmente pietre rozze nei luoghi sacri. Con l’Età del Rame i betili vengono sbozzati a colonna; nell’Età del Bronzo medio (circa 3300 anni fa) assumono caratteri sessuali più evidenti: i maschili con forme cilindriche con la sommità spianata o concava, i femminili con forme troncoconiche; trecento anni dopo i betili prendono forme antropomorfe. In epoca punica e romana vengono costruiti con forme più plastiche, presentandosi come colonne lisce e regolari, mentre i più piccoli recano a volte delle sculture, questo ci permette di ricostruire i riti che si svolgevano attorno ad essi.

Il folclore sardo è ancora legato alle pedras fittas o longa (i Sardi hanno adorato i betili almeno sino al papato di S. Gregorio Magno, 590-604), perciò possiamo comprendere più facilmente l’utilizzazione di tali pietre da parte dell’uomo e il significato rivestito da queste.
Nella tradizione orale i sardi associano ai betili figure mitiche oppure santi, o anche cattivi cristiani pietrificati.
Un nome ricorrente è quello di sa Perda de Luxia Rajosa (la Pietra di Lucia Radiosa), una fata o la santa martire siciliana che viene invocata per propiziare la fertilità e la vita.

Nel veronese la pietra fitta più curiosa si trova sulla dorsale a Ovest di Montorio a Nord del Forte Austriaco sulla strada detta appunto della Preafita.
Oggi questo monolito colonnare in pietra bianca è ridotto di altezza, perchè mi è stato raccontato da una persona anziana del luogo, che fino a pochi anni fa nei pressi del Piloton esisteva un roccolo (di fatti la casa vicina si chiama  Roccolo) e ai cacciatori dava fastidio il Piloton così alto e pensarono bene di abbassarlo con la mazza; i pezzi rotti si trovano attorno al Piloton.

Una domenica, il 13 maggio 1950, nel corso di una delle tante passeggiate archeologiche fatte con mio padre, ricordo bene, avevo 10 anni, venni issato sul Piloton sul quale notai un avvallamento con infisso un moncone di ferro, forse la base di una croce. Poi misurammo il monolito: era alto 3,20 m sul terreno, la circonferenza alla base era di 2,05 m e alla sommità di l,80 m.
Data la forma regolare, mio padre ritenne trattarsi di un betilo di età romana, quando si associavano le pietre termini che delimitavano i confini con il culto al Dio Termine. Infatti un toponimo del luogo era Terminon; qui, durante il Regno Lombardo Veneto, tra l’altro si incontravano i confini dei Comuni di Poiano, S. Maria in Stelle, Montorio e Castel S. Felice.

L’anno dopo Umberto Grancelli grande amico di mio padre - scrisse sul “L’Arena”, In Valpantena scoperto un menhir e lo classificò di età romana.

All’inizio del 1977 mi recai alle case Praele (a Nord-Est di Novaglie), e a una
vecchietta del luogo chiesi se aveva da raccontarmi alcune storielle del posto.
Per quanto riguarda il Piloton mi raccontò che i suoi nonni appoggiavano l’ orecchio al Piloton e sentivano il rumore del mare o quello dei cavalli in corsa.

In primavera le ragazze dopo aver ascoltato la Messa a San Fidenzio, andavano al Piloton e appoggiavano l’orecchio per sentire se entro l’anno incontravano il fidanzato.
E ridendo mi raccontò che l’uomo che sta guidando il trattore si chiama Giorgetto e da bambino passava sempre alla larga del Piloton perchè ai bambini bugiardi il Piloton li avrebbe schiacciati con il suo peso.
Come si nota la tradizione continua…

Fonte: tratto srs di Alberto Solinas

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